Da Pulp Libri n. 16, novembre/ dicembre 1998; pp. 12-14
È stato George Orwell, credo, ad aver definito una volta la letteratura solo un modo diverso di scrivere e riscrivere quello che ci è capitato fino ai quindici anni. A quattordici, per esempio, Orwell era entrato a Eton, dove avrebbe mal sopportato i ferrei metodi educativi del più prestigioso college aristocratico. Trentadue anni dopo creerà il Grande Fratello di 1984. Fino al 6 dicembre 1942, James Graham Ballard viveva in una delle più eleganti ville di Shanghai. A dodici anni era il figlio unico e coccolato di una famiglia agiata e colta: suo padre era un facoltoso industriale e membro di spicco dello Shanghai Club britannico. Jim collezionava modellini aerei in legno di balsa, tentando di rimanere al passo con i nuovi prototipi militari dell’aviazione internazionale. Aveva anche deciso di essere ateo, e stava completando un precoce manuale su Come giocare a bridge contratto. La domenica mattina del 7 dicembre, come parte di un massiccio piano di entrata in guerra culminato nell’attacco di Pearl Harbor, l’esercito giapponese invadeva la Cina, occupando in poche ore tutta la regione di Shanghai. Di lì a poco, Jim e la sua famiglia sarebbero stati internati nel C.A.C. (Civil Assembly Camp) di Longhua con poche altre migliaia di deportati europei quasi tutti inglesi. Da quel campo di concentramento, J. G. Ballard sarebbe uscito solo nel 1945, a quindici anni. In un’intervista di anni fa con David Pringle, il suo biografo ufficiale, Ballard confessò l’origine della sua visionarietà faustiana dell’ibrido – una sutura adulterina tra organico e inorganico. Durante la prigionia, disse, aveva a lungo osservato la proliferazione cancerogena della vegetazione tropicale attorno alla carcassa di un aereo abbattuto.
“Sì, l’esperienza dell’internamento è stata determinante per me, forse senza quella non sarei mai diventato uno scrittore di fantascienza. Un giorno ti svegli, e il tuo problema principale è che non hai nessuna voglia di andarti a vedere il cinegiornale con papà. Hai tutte le comodità, la tua piscina e la servitù orientale. Ti svegli il giorno dopo, e sei in un campo di concentramento, dove le guardie assomigliano ai domestici che fino a ieri rispondevano ai tuoi ordini con un inchino. Sei rinchiuso, sporco e con poco cibo. La mia passione per la fantascienza è nata in quegli anni: mi interessava moltissimo sapere cosa sarebbe successo domani, e ci pensavo continuamente. Se in un giorno tutto è cambiato così di colpo, allora molto presto, anche domani, potrà di nuovo succedere qualunque cosa. Il futuro era diventato imprevedibile, aperto a qualsiasi ipotesi. Il futuro, a Longhua, era tutto quello che restava.”
All’inizio degli anni ’60, Ballard avrebbe rifondato la fantascienza dalle pagine della rivista New Worlds di Michael Moorcock, rifiutando radicalmente l’imprinting di ottimismo futurista sulle ‘magnifiche sorti e progressive’. Gli esseri umani, sostiene un paradosso che gli è caro, sono il mezzo di cui si servono le macchine per riprodursi. La tecnologia è un’interfaccia deformante tra l’uomo e la realtà, il breve sogno storpio di un dio che ha scordato di esserlo.
“A dodici anni credi al progresso e alla tecnica: credi al tuo Spitfire di legno perché ne hai visto volare uno vero, e credi alla Packard bianca che un autista guida ogni giorno per te fino a scuola. La Shanghai della mia infanzia brulicava di stazioni radio e giornali, un groviglio cosmopolita di tecnologia e business. Shanghai è stata a lungo il mio clic dell’anteprima sul futuro mediatico. Eppure molti allora non si accorsero che le cose stavano precipitando, e ne furono travolti. A dodici anni credi fermamente al progresso e alla tecnica, poi li vedi spazzati via, e finisce che smetti di credere anche alla realtà”.
La geografia narrativa di Ballard è il luogo di claustrofobie vischiose che fagocitano il loro prigioniero, cosi densamente aderenti da divenirne col tempo il rifugio mimetico. Ancora Longhua…
“Si, credo sia vero, e dev’esserlo, anche se non mi sono mai realmente posto il problema. Le cose che ho dentro stanno così, intendo, e tutto sommato non sempre voglio sapere perché”.
Dal debutto nel 1962 a oggi, Ballard ha scomodamente abitato generi diversi, e spesso li ha ripensati a sua somiglianza: la fantascienza della catastrofe nella quadrilogia degli esordi, le morbose anatomie surrealiste degli ami ’70, poi l’autobiografismo romanzato e il thriller metafisico della produzione più recente. Più ancora che lo stile, corpulento di metafore, bulimico, debitore confesso degli studi di medicina mal conclusi dal giovane James – più ancora che lo stile, ad accomunare le forme letterarie di Ballard è il fatto dl essere, tutte, effetti collaterali di cure gioiosamente fallite. La memoria di Longhua, temuta e amata, è un’infezione della fantasia che, mentre contaminava i tessuti dell’immaginarlo, li ha anche mantenuti in uno stato alterato dl vitalità febbrile. Ballard, che non possiede il dono adamantino del genio letterario, ha vegliato per trent’anni la sua cancrena con cautela riconoscente, evitando la metastasi non meno della guarigione.
Parlandomi dei suoi personaggi, lo scrittore Inglese ha sottolineato che “loro non hanno un’ossessione, la scelgono lucidamente: decidono coscientemente di pensare come psicopatici, e io li ammiro”. J.G. Ballard è il personaggio principale della sua psicosi.
Ed è sintomatico che quando Ballard decise di raccontare gli anni del suo internamento, ne sia uscito L’impero del sole (Rizzoli), un romanzo dalla struttura sapiente e meticolosamente oliata (tanto che Spielberg ne trasse un film di impianto tipicamente hollywoodiano apportando modifiche minime), ma certo senza la grandiosità immaginifica di capolavori come Crash: quasi per l’autocontrollo anestetico di uno sguardo troppo ravvicinato. Proprio Crash invece, e subito prima La mostra delle atrocità (entrambi su Bompiani), furono scritti in seguito alla morte della moglie: nella suggestione della tragedia, Ballard scavò forse troppo nella sua malattia. Dopo di allora, nient’altro avrebbe più avuto quella stessa bellezza infetta al margine della follia.
Se non, almeno in parte, le righe di una prosa poetica poco nota, in cui Ballard ha lasciato che i suoi spettri plumbei guadagnassero ancora una volta la superficie della pagina. Il brano si intitola Traumi – ciò in cui credo, e lui l’ha definito “a mere divertissement”. Si apre cosi: ‘Credo nel potere che ha l’immaginazione di plasmare il mondo, di liberare la verità dentro di noi… Credo nelle mie ossessioni…’
L’ultimo romanzo di Ballard tradotto in Italia si intitola II paradiso del diavolo (Baldini&Castoldi): è la storia dell’occupazione da parte di un gruppo di animalisti, di un remoto atollo del Pacifico, dove la Francia sta conducendo esperimenti nucleari. In nome della protezione degli albatri, la dottoressa Barbara Rafferly, radiata dall’albo dei medici per aver praticato l’eutanasia, guida l’assalto all’isolana di Saint-Esprit. Insieme a lei ci sono Nell, un inquieto sedicenne oscuramente attratto dalla donna, e un manipolo dl fedelissimi, ai quali finirà per imporre il proprio carisma soggiogante.
E dopo “Perché voglio scopare Ronald Regan” – uno del racconti de La mostra delle atrocità (1967), in cui Ballard aveva previsto l’elezione dell’allora governatore della California a presidente degli Stati Uniti – anche II paradiso del diavolo contiene uno scenario internazionale profeticamente avveratosi. Il libro è infatti del 1995, e i fatti descritti assomigliano in modo allarmante alle aggressive azioni di disturbo intraprese di lì a poco da alcuni equipaggi di ecologisti al largo delle Isole Mururoa, sede dei test atomici voluti da Chirac.
“Giusto, ma stavolta è stata una predizione facile: la Storia è noiosamente ripetitiva. Un episodio simile si era verificato già una quindicina di anni fa, quando davanti a Auckland, in Nuova Zelanda, il Rainbow Warrior era stato affondato, sempre dai francesi, per proteggere delle basi nucleari: Il paradiso del diavolo si ispira a quello”.
‘Credo nella non esistenza del passato, nella morte del futuro, e nelle infinite possibilità del presente…’ E l’ambientalismo d’assalto si salda, nella figura della dottoressa Rafferty, all’intransigenza militante del femminismo più radicale.
“Il paradiso del diavolo è il mio allarme civile davanti alle nuove ideologie del fanatismo: i grandi sistemi politici e religiosi che volevano spiegare il mondo hanno fallito, questi si accontentano di spiegarne un pezzo soltanto, e pazienza se non si incastra bene con gli altri. Certi slogan suonano anche meravigliosi: salviamo gli albatri! E chi non vuole salvarli, gli albatri?! Ma le bombe mi sembrano eccessive. La verità è che questi gruppi hanno dietro i loro obiettivi dichiarati delle secret agendas: finalità nascoste, e che talvolta, magari, vengono perseguite inconsciamente. Quando sostengono che ogni tipo di penetrazione sessuale è stupro, non è alle pari opportunità che pensano le femministe del movimento lesbico. La mia dottoressa Rafferty è solo un esempio possibile”.
‘Credo nella bellezza di tutte le donne, nella perfidia della loro Immaginazione che mi sfiora il cuore, nella loro calda tolleranza per le mie perversioni…’
“Vedi, dicono che la decadenza del genere umano sarà la perdita dei valori. lo dico invece che la vera forma di decadenza del prossimo millennio sarà un nuovo Puritanesimo. Le culture cattoliche contengono un germe di tolleranza che le rende immuni alle isterie calviniste e alle pruriginose ipocrisie protestanti. In Inghilterra il Crash di Cronenberg è uscito solo nella primavera dello scorso anno: dopo Cannes ‘96 ci sono voluti un anno di purgatorio e il governo labour di Tony Blair perché venisse proiettato da noi. E l’America allora? Perché poi dovrei voler diventare presidente degli Stati Uniti, se non possono nemmeno farmi le segretarie che preferisco?”
‘Credo negli organi genitali degli uomini e delle donne importanti, negli odori dolciastri emessi dalle loro labbra mentre fissano le telecamere di tutto il mondo…’
A proposito di Crash, David Cronenberg ha detto che le auto e il sesso sono le cose più viste della storia del cinema. Il film rischiava di intrappolarsi in un reticolato di déja-vu, invece Cronenberg è riuscito a venirne fuori con l’apparente paradosso di un assoluto realismo di regia.
“Sì, e ha fatto uno splendido lavoro. Tanto che ha persino ottenuto il risultato opposto: certi spettatori abituati a riprese gonfiate di ralenti e effetti speciali, non riconoscevano autenticità agli incidenti firmati a velocità reale. David ha scarnificato le immagini, e poi ha fatto lo stesso con la struttura narrativa e con quella morale. Che sono, in fondo, la stessa cosa. Ha rinunciato a ogni valutazione etica, e lo ha fatto sospendendo qualsiasi giudizio anche narrativo. Le strutture convenzionali non possono sostenere l’immaginazione nuda: per questo l’essenzialità eversive di Crash molti non l’hanno accettata”
‘Credo nella bellezza degli scontri d’auto, nell’intuito messianico delle guglie del radiatore delle automobili esposte…’
“Le arti, e la letteratura soprattutto, riflettono da sempre sul rapporto tra erotismo amore e morte, sulle reincarnazioni proteiformi di Eros e Thanatos. Nonostante questo, o forse proprio per questo, perché si sono creati dei codici ipnotici, la gente preferisce le sicurezze pigre di Hollywood. Già nel secolo scorso, i fratelli Goncourt sostenevano che la letteratura sarebbe diventata uguale ad A + B. Trent’anni fa, Godard era il cinema, ora lo spettatore standard non lo sopporta più”.
‘Credo nella geometria senza limiti dello schermo cinematografico. Credo negli intenti omicidi della logica…’
“Perciò li futuro sarà il duello di due giganti: Bill Gates e la Disney, e magari un giorno verranno a un accordo per la disneyficazione mondiale della realtà, e la gente sarà troppo intorpidita per accorgersene. Il grado medio della realtà è l’interno di un McDonald, scegliere tra un big mac e un cheeseburger è già un ragguardevole sforzo decisionale. Galleggiamo precariamente sulla sconfinata distesa dell’entertainment. Gli anni del surrealismo, le grandi sperimentazioni, difficilmente torneranno: abitiamo un mondo da cui è stato esiliato il pensiero”.
Credo in Max Erst, Dalì, Tiziano, Magritte… e in tutti gli artisti invisibili rinchiusi nei manicomi del pianeta. Credo nello sconvolgimento dei sensi: in Rimbaud, William Burroughs, Huysmans, Genet…’
Ballard in Crash ha sognato per Vaughan un incidente mortale con Liz Taylor e ha scritto un racconto intitolato “L’assassinio di JFK considerato come una gara automobilistica in discesa”. Ha detto anche che la casa reale britannica fa per il Regno Unito le veci dello star system hollywoodiano negli States. Poi è morta Lady D, ed è stato il primo funerale mediatico del villaggio globale: una trama compiutamente ballardiana.
“Sì, assolutamente sì. È stato di certo la morte più famosa dopo Kennedy, perché conteneva la tragicità sociale dei drammi greci: Diana era giovane, bella e felice, e tentava dl scappare dalla fama, era inseguita dai paparazzi. La fama è il sangue del millennio, e la fama che ognuno di noi agogna l’ha raggiunta e uccisa”.
‘Credo negli odori corporei della principessa Diana…’
E il Vaughan di Crash avrebbe voluto essere il suo autista…
“E infatti lo era”.
‘Credo nelle mie ossessioni…’
Da Pulp Libri n. 16, novembre/ dicembre 1998; pp. 12-14.