Intervista ad Alberto Prunetti

L’epica stracciona della working class contemporanea

intervistano CARLO BAGHETTI e MONICA JANSEN

Durante il convegno dell’Associazione Internazionale dei Professori d’Italiano, che si è tenuto presso l’Università per Stranieri di Siena nel mese di settembre, un intero panel è stato dedicato alle rappresentazioni del lavoro in epoca neoliberale. Monica Jansen e Carlo Baghetti hanno invitato a partecipare Alberto Prunetti, scrittore toscano classe 1973, che ha al suo attivo cinque opere di narrativa: Potassa (2003), Il fioraio di Péron (2009), Amianto (pubblicato prima da Agenzia X nel 2012 e poi da Alegre nel 2014), PCSP (piccola controstoria popolare) (2015); infine, il recente 108 metri (pp. 133, euro 12,75 stampa, euro 9,49 ebook), uscito quest’anno per i tipi di Laterza.

I titoli scelti da Prunetti fanno già intuire l’attenzione con cui l’autore guarda alla conflittualità sociale, che ai suoi occhi è ben lontana dall’essersi risolta o anche solamente attenuata. Contrariamente a quanto affermava la Iron lady Margaret Thatcher negli anni Ottanta, per l’autore di Amianto e 108 metri siamo ben lontani dall’evaporazione della società, e altrettanto lontani siamo anche da quello che John Prescott, vice ministro di Tony Blair, sintetizzava nella formula we are all middle class; Amianto e 108 metri sono invece i primi due tasselli di una trilogia sulla classe lavoratrice contemporanea e internazionale, investita da un processo di pauperizzazione che non lascia scampo neanche a chi, come il protagonista di questi testi, è armato di tutto punto (diploma e laurea) per affrontare il mondo dell’impiego contemporaneo. E i riferimenti al mondo politico anglosassone non sono casuali: il protagonista di 108 metri racconta le brutture del neoliberalismo proprio dal suo cuore pulsante europeo, l’Inghilterra a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta in cui si trasferisce in cerca di fortuna, ma nella quale finisce col recitare il ruolo d’italiano in una pizzeria anglo-turca oppure a far parte degli addetti alle pulizie di un centro commerciale. Da questa esperienza, lavorativa esistenziale e linguistica, prende forma un romanzo tutt’altro che cupo, ma sorprendentemente vivo e a tratti divertente; nella prosa di Prunetti infatti non vi è spazio per il rimpianto, la nostalgia o la malinconia, che pure appartengono ad alcuni narratori contemporanei che trattano gli stessi argomenti; lui tenta di costruire un’epica positiva e scanzonata della working class.

Riportiamo di seguito una versione ridotta dell’intervista all’autore che sarà presente, in una versione ampliata e rivista, anche nel volume edito da Franco Cesati, previsto per il 2019, contenente buona parte degli interventi ascoltati a Siena.

108 metri è «l’epica stracciona» di una fuga o di un ritorno a casa?

È un viaggio epico di un migrante italiano nel Regno Unito. Si parte per una meta ignota piena di pericoli, si trovano compagni e antagonisti, si sfida un villain che ha una natura fantasmatica. È anche una quest, una ricerca dell’isola del tesoro e della gloriosa e antica working class inglese. Si trova solo una ciurma e qualche sprazzo di solidarietà. Non c’è traccia del tesoro, lavorando al minimum wage, la paga sindacale minima. E il vero tesoro dell’isola è forse solo la lingua, l’inglese, la lingua di Shakespeare imparata nelle latrine. Poi si torna a casa dove regna il disordine ma al contrario dell’epica aristocratica non si può ristabilire l’ordine perduto, come fa Ulisse che a Itaca sconfigge i Proci. Bisogna fare i conti con le macerie. E bisogna tornare a ridere e a lottare, senza compiaciuti vittimismi, perché siamo abituati a ridere facendo il lavoro di Sisifo.

108 metri si riferisce prima di tutto a Piombino, la «città di ferro che produceva le rotaie di 108 metri», ma anche alla Iron lady Margaret Thatcher. Come si collegano i diversi fili di ferro nel romanzo?

108 metri è la lunghezza delle rotaie ferroviarie prodotte dalle acciaierie di Piombino, dove mio padre ha lavorato. Sono anche un’allegoria per il tema della nuova emigrazione italiana all’estero, un fenomeno sociologico di solito narrato con la formula consolatoria della «fuga dei cervelli». Io racconto l’altra storia: la fuga del lavoro proletario, di chi con una laurea o senza finisce nei vari burgershit a lavorare come sguattero o cleaner. Incalzato dal fantasma di Margaret Thatcher, poco benevolo coi lavoratori impoveriti. Il ferro della Thatcher è immateriale, al contrario dell’acciaio dei binari, ma è capace di sortilegi che perseguitano il protagonista nel corso del suo viaggio.

Il sottotitolo del romanzo parla di the new working class hero. Chi appartiene a questa nuova classe operaia? E cosa la distingue da quella precedente? Potresti commentare la dedica all’inizio del romanzo? «A chi faceva i turni di notte camminando sulle 108/ a chi, per studiare, partiva su binari d’acciaio/ a AbdElsalam Ahmed Eldanf, morto durante un picchetto».

L’espressione «working class hero» in Italia è difficilmente traducibile. Indica qualcuno che, emerso dalla classe operaia, esce dall’ambiente che l’ha forgiato, per diventare una sorta di icona, salvo poi ricadere nella catastrofe per la propria hybris. Mi piace poi l’espressione working class perché indica la classe lavoratrice. Oggi sei britannici su dieci si considerano working class, perché sono costretti a lavorare per campare, facendo lavori senza possibilità di autonomia con paghe ridotte. In Italia invece molti si autodefiniscono «ceto medio», pur lavorando come schiavi. È il problema di un immaginario bloccato. La logica del we are all middle class di Tony Blair ha prodotto una bolla, la classe fittizia del «cetomedio». Coi miei libri provo a contribuire alla costruzione di un immaginario per una nuova classe lavoratrice. Il termine classe operaia fa venire in mente i metalmeccanici degli anni Sessanta, che erano un tempo egemoni nella working class italiana. Ma oggi per classe lavoratrice bisogna intendere, oltre ai tanti operai, anche i lavoratori della logistica, quelli dei servizi di base, delle pulizie. Se lavori in un call center, sei un operaio anche se non hai la tuta blu e le mani sporche di grasso. E se lavori alla cassa di un centro commerciale, sei un’operaia. Oggi abbiamo operai della ristorazione, dei servizi, delle vendite, della logistica, che sono working class senza avere la coscienza e il pride, l’orgoglio di essere tali. Questo li distingue dalla classe operaia di un tempo, che aveva coscienza, consapevolezza di sé, era conflittuale con l’avversario e solidale con l’oppresso. Oggi c’è molto da fare per ricostruire consapevolezza. Ma il vento cambia rapidamente direzione. Quanto alla dedica del libro, va a AbdElsalam, un facchino nato in Egitto ed emigrato in Italia. È morto durante un picchetto, investito da un camion, durante una protesta operaia a Piacenza. Nel suo paese era un maestro elementare. È morto per lottare per i diritti dei suoi compagni di lavoro. E un torto a uno è un torto a tutti.

A partire dalla metà degli anni Novanta, per non parlare della stagione industriale, la letteratura del lavoro è frequentata da molti autori, quali di questi sono importanti nella tua esperienza di autore, in particolare in Amianto e 108 metri?

Non mi sono ispirato ad alcun autore delle nuove scritture sul lavoro cominciate a partire dai primi anni duemila (la cosiddetta narrativa del precariato). Mi allontanava il taglio esistenziale a quello che io chiamo sfruttamento: secondo me non storicizzavano abbastanza. Da parte mia volevo fare un lavoro che avesse coordinate diverse. Io non racconto infatti il lavoro, racconto i lavoratori subalterni nella loro soggettività, con uno sguardo per quanto possibile interno al mondo dei lavoratori. Cerco di raccontare le storie coi piedi dentro il mondo dell’oppressione (senza guardarlo da fuori, come fanno diversi autori della letteratura industriale) e raccontando il conflitto e l’antagonismo sociale (al contrario di molti autori che scrivono di lavoro). Cerco anche di storicizzare, ossia di legare lo sfruttamento di ieri con quello di oggi, le sconfitte del passato con la situazione deplorevole del presente. Se non si sa cosa sia la marcia dei quarantamila e la sconfitta dello sciopero dei minatori inglesi, non si capisce perché ai nostri giorni lavoriamo con contratti di paglia. Oggi le cose sono diverse rispetto agli anni zero del nuovo millennio. Tra gli autori più recenti ce ne sono alcuni con i quali mi trovo in sintonia: da Simona Baldanzi a Eugenio Raspi a Stefano Valenti, al collettivo Metalmente, a Pia Valentinis, autrice dello splendido graphic novel Ferriera. E altri ancora. Di recente ho scoperto un altro bel lavoro grafico, La prima cosa fu l’odore del ferro, di Sonia Possentini, che prima di lavorare come illustratrice è stata una metalmeccanica. Sono figli di operai anche i Wu Ming: su tre membri del collettivo, due sono figli di operai. Della vecchia generazione ho molta stima per Tommaso Di Ciaula e Luigi Di Ruscio. Altri autori verranno: sto lavorando a una nuova collana dedicata alle scritture operaie per la casa editrice Alegre e sono alla ricerca di autori/lavoratori capaci di scrivere da queste prospettive: soggettività, conflitto sociale, solidarietà (quest’ultima è un altro punto importante: in alcune scritture del lavoro manca un senso del «noi»).

La figura di Luciano Bianciardi era presente in filigrana nel testo precedente, Amianto, mentre in 108 metri i riferimenti sembrano più anglosassoni (Stevenson o Lovecraft). A cosa si deve questo cambiamento?

Bianciardi rappresenta il mio legame più forte con la letteratura industriale italiana, soprattutto per il suo saggio sui minatori maremmani pubblicato per Laterza e scritto con Cassola. Nella trilogia working class in corso d’opera ogni step segna continuità e rotture con la posizione precedente: raccontando della mia emigrazione nei piani bassi del lavoro migrante nel Regno Unito dovevo cambiare timbro. I riferimenti vanno a Stevenson e Lovecraft, ma c’è tantissimo Shakespeare. E poi Margaret Powell e Anthony Burgess, George Orwell e Steinbeck. E tra gli scrittori working class contemporanei, Anthony Cartwright. Ogni opera, per quanto originale, nasce dalla ruminazione di altre scritture. Ma ogni mia nuova scrittura segna anche uno slittamento in avanti, non mi interessa ripetermi. Si tratta di una trilogia, non di tre libri simili.

Il protagonista di Amianto e 108 metri sembra distante dai personaggi più comuni della narrativa contemporanea sul lavoro perché è animato da una fiducia nel cambiamento, mentre più spesso s’incontrano personaggi sconfitti o disponibili alla resa. È possibile considerarla una reazione polemica? Quale spazio d’intervento politico vedi oggi per la letteratura?

Guarda, prima di una questione di poetica, è proprio la mia sensibilità che non è pacificata con l’esistente e cerca il conflitto. Gli schiavi non possono arrendersi. Anche Long John Silver deve continuare ad ammutinarsi. Il conflitto in Italia c’è anche oggi, non siamo affatto un paese pacificato. Sembra pacificato perché nessuno racconta il conflitto. Ogni giorno ci sono mobilitazioni, picchetti, manifestazioni: però bisogna parlare della bile del Ministro dell’Interno, depistando il conflitto nell’odio verso i più deboli. Il punto è che nessuno vuole raccontare il conflitto vero, quello degli sfruttati contro gli sfruttatori. E se si raccontano gli sfruttati, si preferisce usare una narrazione esistenziale o vittimistica. Era il rischio di Amianto, in cui la vittima c’era davvero, ma ho fatto di tutto per raccontare la gioia di vivere e di crescere in un ambiente operaio e l’orgoglio del conflitto e dell’antagonismo. In genere però questo atteggiamento non ti fa vincere premi. Se passi da vittima forse ottieni pacche sulle spalle. A me però questa cosa mi sta sulle scatole, non le voglio le pacche sulle spalle, a pacca sulla spalla rispondo con una pedata in culo. Insomma, è il conflitto. È anche esistenziale, certo, ma è politico, è una roba quasi istintiva. Class is under your skin, ha scritto una femminista. Ci sono nato dentro, che ci posso fare? Quando la vita ti dà un colpo, te dagliene due. È un comandamento operaio che mi pà Renato mi ha insegnato. Ovviamente non ti apri le praterie nel mondo dell’editoria con questo atteggiamento. Ma se uno attacca il trincia e stacca la frizione, basta anche un vecchio trattore, alla fine ti fai strada e segni un sentiero. Altri verranno: pensa al blues degli schiavi nelle piantagioni. È lo sfruttamento che creerà il canto della disperazione.

La figura del padre era centrale in Amianto e ha un posto importante anche in 108 metri: pensi che le tue opere possano essere considerate una risposta a quel «noi dobbiamo essere i genitori» di cui scrisse Wu Ming 1 su «carmillaonline»?

La trilogia inizia con un figlio che è costretto a prendersi cura del padre malato. La storia del padre occupa il primo volume, Amianto. In 108 metri il figlio fa un viaggio: il padre rimane sullo sfondo, quel viaggio segna la maturità del figlio. Nel terzo volume, che sto scrivendo, dopo la morte del vecchio, il figlio diventa genitore. È stato per me un fatto biologico, che calza con quello che scriveva Wu Ming 1, che a sua volta citava David Foster Wallace quando criticava il postmodernismo. Diceva DFW: smettiamo di scrivere sulla fine dei genitori, dobbiamo essere noi i genitori, dobbiamo creare la prossima generazione invece di rimanere in questa posizione da studenti che fanno un party nella casa che i genitori hanno lasciato vuota. In fondo ho già messo David Foster Wallace in bocca all’operaio piombinese Quattr’etti nel finale di 108 metri: «Ora tocca a voi doventà i genitori». Io lo prendo anche alla lettera: coi miei libri ho cercato di tessere un legame tra generazioni di sfruttati, tra vecchia e nuova working class. A lungo ci hanno propinato il racconto velenoso della «guerra tra generazioni». Dicevano ai precari che i vecchi «garantiti» avevano rubato loro il futuro. Col cavolo. Il futuro ce l’hanno rubato gli adoratori di Margaret Thatcher, tutti gli adepti del neoliberismo. Uno degli scopi della mia trilogia è rinsaldare un patto tra generazioni di oppressi contro l’oppressione, che non ha a che fare coi migranti o coi complotti, ma col funzionamento dell’economia, la gerarchia, il comando, lo sfruttamento, l’estrazione e la concentrazione della ricchezza, l’erosione dei diritti sociali.