Quest’intervista è dedicata in particolar modo agli amanti del cinema di Pulp Libri. Le modalità in cui è nata sono state del tutto casuali, sebbene la forza interiore che ne ha indirizzato il corso, sembra quasi abbia assecondato un bizzarro destino. Sarò felice di riportare qui una testimonianza speciale. Con Tessa Racine abbiamo parlato della sua esperienza sul set di Pier Paolo Pasolini, di ciò che ha rappresentato il cinema nella sua carriera, delle possibili implicazioni che esso ha con la letteratura e gettato uno sguardo su ciò che sta accadendo e ciò che accadrà.
Molti la ricordano come Aziza, e ricordano i suoi profondi, ipnotici e malinconici occhi azzurri nella novella “Aziz e Aziza” all’interno de Il fiore delle Mille e una notte di Pier Paolo Pasolini del 1974, premiato a Cannes per lo Speciale Premio della Giuria. Lei è Tessa Racine. Regista, cineoperatrice, educatrice, psicoterapeuta e insegnante di meditazione.
Buongiorno. Da dove inizia il suo percorso e come si snoda?
Ecco il mio percorso: ho conosciuto Pier Paolo quando avevo 14 anni. Lui era a Parigi in cerca di una ragazza che interpretasse Azziza. Aveva bisogno di un’attrice francese per ragioni di coproduzione [la coproduzione era franco-italiana N.d.R]. Pier Paolo telefonò a Nadine Trintignant per domandarle se poteva conoscere sua figlia, Marie. Nadine Trintignant è la mia madrina, essendo lei la migliore amica di mia mamma, Claudine Bouché. Nadine disse a Pier Paolo che sua figlia non sarebbe stata adatta a recitare ne Le mille e una notte perché troppo europea, ma che aveva una figlioccia, Tessa, ovvero io, che aveva un aspetto più simile a quello classico medio-orientale. Pasolini andò a trovare mia madre che stava lavorando al montaggio di un film e le chiese di incontrarmi. Venne a casa mia con il suo assistente, parlò con me in francese e mi chiese delle foto. Tre mesi dopo la produzione chiamò mia madre per dirle che ero stata presa per la pellicola. All’epoca facevo danza classica e non volevo fare l’attrice, volevo essere una ballerina. Dopo le riprese del film sono ritornata a scuola e ho dimenticato tutto questo. Andai a Cannes per la presentazione del film nel 1973. Fu formidabile. Più tardi smisi con la danza classica per entrare in una scuola di cinema “Louis Lumiére” con l’idea di diventare direttrice di fotografia. Ho lavorato 20 anni nel cinema fino a diventare finalmente direttrice di fotografia, ma il cinema che amavo non esisteva più e ho deciso di cambiare vita. Sono andata a vivere in campagna, nella Limousin e ho realizzato sei documentari da 52 mn per la televisione.
Come è stato lavorare con Pasolini? Che ricordo ha di lui? Che regista era?
Lavorare con Pasolini era un sogno! Era molto gentile e molto paziente, non avevo mai girato un film prima di allora. Era lui a stare dietro la telecamera poiché si occupava personalmente delle riprese, e nel mentre mi parlava, mi dava indicazioni. Il suono non veniva mai preso in diretta. Era contento del mio lavoro e si congratulava spesso con me. Tranne una volta, quando in una scena davo da mangiare dei chicchi d’uva a Ninetto [Davoli N.d.R.] e lui mi diceva “Va’ più dolcemente, va’ più dolcemente!”, ma io continuavo ad andare troppo veloce, tant’è che nella scena puoi vedere che lui ha la bocca piena. Fu molto divertente. Pier Paolo spesso scherzava sia con la gente della troupe che con noi attori. Abbiamo anche bevuto champagne con Ninetto, quando nacque il suo primo figlio, durante le riprese. Pasolini era molto amato dalla sua squadra e si vedeva che aveva rispetto per tutti. Parlava loro sempre molto gentilmente e non faceva mai mancare una buona parola o un buongiorno. Un’altra volta rifiutai di girare una scena perché la mia camicia da notte era trasparente e avevo paura che si potesse vedere che sotto ero nuda, e il che è divertente poiché nel film tutte le ragazze sono nude tranne me, ma io ero troppo pudica e non avrei mai accettato di girare una scena del genere, a patto che avessi tenuto sotto gli slip. Il tutto non si fermò e fecero arrivare la costumista per chiederle se esisteva dell’intimo al tempo delle Mille e una notte? Pasolini e il suo assistente mi guardavano dicendomi “Non preoccuparti, non è trasparente, non si vede niente”. Tenni il broncio. Nella scena seguente dovevo piangere e alla fine piansi per davvero.
Aziza è un personaggio molto particolare. È una ragazza promessa in sposa a suo cugino, e nonostante ciò vi è in lei, per lui, un affetto sincero. È innocente al punto tale che non solo perdona la relazione di Aziz con un’altra donna, ma addirittura lo aiuta a conquistarla. Diversi personaggi nei film e nei libri di Pasolini sono vittime della loro stessa innocenza, la quale li riscatta in una dimensione altra. È un atteggiamento stoico che disvela uno sguardo sulle cose fortemente spirituale. Oggi dopo trent’anni, anche per mezzo di Hollywood, si è ritornato a parlare del ruolo della donna. Questi discorsi hanno investito tutta la collettività. Per lei che in prima persona ha vissuto gli anni della controcultura giovanile vi sono differenze tra “ieri” e “oggi” nella maniera in cui è affrontato questo tema? Se sì, quali sono queste differenze? Un personaggio come Aziza avrebbe oggi la possibilità di esistere? Una donna come Aziza avrebbe diritto ad avere un senso?
Aziza è un personaggio che le femministe odierebbero e questo in un certo senso mi dispiace. Certamente è possibile amare come Aziza, ma sarebbe impossibile oggi mostrarlo al cinema. Penso con questo di aver detto tutto.
Io ho amato molto il personaggio di Aziza perché per me incarna l’amore incondizionato. Ha un cuore puro e ama fino al sacrificio, fino alla fine, fino alla morte. Il suo personaggio andava bene per quelle che erano le mie fantasie romantiche a quel tempo, inoltre, sì, è vero, il suo amore assoluto la rende a suo modo un personaggio mistico. Per un gioco del caso, poi, il percorso spirituale è stato qualcosa di molto importante nella mia vita, dunque posso dire che già prima in qualche parte di me ero Aziza, sempre alla ricerca di un amore assoluto, sebbene non l’ho mai ricercato in una relazione, ma in tutte le persone con le quali avevo a che fare. E poi ciò che mi sorprende e mi diverte è che il mio nome derivi da un’opera teatrale, “Tessa, la ninfa dal cuore fedele”. E anche questa Tessa muore per amore.
Nel famoso 1968 io avevo 9 anni, non ho mai vissuto la contestazione studentesca, ma ho conosciuto la libertà che si respirava negli anni Settanta, e ne ho ottimi ricordi. Credo che sia un bene che si possa parlare finalmente di abusi sessuali ed essere ascoltate, ma non mi piace la caccia alle streghe e il clima di puritanesimo che prevale oggi. Già a quel tempo per Pier Paolo era diventato praticamente impossibile fare un film. Tutti i suoi film sono politicamente scorretti e oggi non ne avrebbe fatto nemmeno uno, né Salò, né Il fiore delle mille e una notte. Esiste una forma di autocensura che fa sì che nessuno possa più parlare, e questo lo detesto.
Lei ha girato dei documentari per la televisione e diversi altri per France 3. Ce n’è uno al quale è più legata?
Il documentario che amo di più è quello che ho realizzato per primo The ghost camp nel 2005. Lo amo perché è una pellicola importante che parla dei campi di internamento francesi durante la seconda guerra mondiale. La Francia ha cercato di cancellare questa parte di storia facendo scomparire il più possibile questi campi della vergogna, ma i ricordi, appunto, sono rimasti come fantasmi. Mi piace anche perché è il più naturale senza troppa pressione dal canale televisivo. E poi l’ho fatto soprattutto in relazione alla storia di un signore ebreo, Henry Wolf, che è stato arrestato e poi deportato ad Auschwitz passando per Nexon. Ha la purezza di un primo film.
Quali sono, per lei, ammesso che ve ne siano le relazioni tra documentario e letteratura o cinema e letteratura?
Io non vedo relazioni tra documentario e letteratura. Io faccio dei film perché non scrivo libri. Uno sguardo o un silenzio per me sono più significativi di una parola. Il cinema, sì, fa uso della letteratura, ma si avvicina terribilmente alla poesia. Ecco, questo lo credo fortemente. Le modalità attraverso le quali si sviluppa il linguaggio del cinema sono molto simili a quelle attraverso cui si snoda il linguaggio poetico. Spesso il cinema ruba storie dalla letteratura, ma è davvero difficile renderle nella maniera migliore. Tuttavia c’è sempre questo sogno di poter adattarle al cinema. Può accadere, ma è davvero raro il caso.
Prima, in questa intervista, lei ha detto che quando iniziò a fare film, il cinema che un tempo ha amato non esisteva più. Cosa le manca del cinema di ieri? Quali sono le differenze tra quello che ha amato e quello che è venuto dopo?
Il cinema che ho amato era un cinema familiare. Ogni regista aveva la sua famiglia di cineasti. In scena, poi, si lavorava con la stessa squadra. Se per esempio fai caso agli attori generici nei film di Pasolini, puoi ritrovare quasi sempre gli stessi, e così era anche con i tecnici. Questo modo di fare è scomparso. I produttori impongono le tecniche ai direttori esecutivi e tra l’altro prendono anche quelli meno cari. Il cinema è diventato una grande industria, e non c’è più spazio per l’amicizia.
Come immagina il cinema tra trenta, quarant’anni? C’è qualcosa che si augura?
Tra trenta, quarant’anni, davvero non so cosa resterà del cinema. Può darsi che esso sparirà e non resteranno altro che serie? Quel che io mi auguro è che resti un certo cinema impegnato, sociale e politico, che descriva le realtà della gente, delle culture, dei paesi. Un cinema che sia il linguaggio universale che è sempre stato.
Grazie tante, Madame Racine, le auguro le cose migliori per l’avvenire.
Grazie a te, e grazie a Pulp Libri.
Tessa Racine è laureata all’Ecole Nationale Louis Lumière. Ha lavorato con François Truffaut in “L’ultimo metrò” e “Finalmente domenica!”
Ha lavorato inoltre con Carlos Saura, Moshe Misrahi, Fernando Solanas, Jacques Braal, Charles Matton, Gabriel Axel. Ha lavorato con Jean-Marie Poiré in Papy fait de la résistance e Martin Scorsese in Kundun.
Dal 1994, Tessa realizza documentari per la televisione: La doleur chex l’enfant, Femmes savantes (ARTE), Martin Veyron, The childhood of art (Planete), Le voix bouddhistes (France2) e un cortometraggio La petite graine trasmesso al festival Clermond-Ferrand.
Tessa Racine inoltre ha diretto numerosi documentari per France 3: The ghost camp (2005), Thérèse Menot (2007), Childhood saved (2008), Du silence a la lumiere (2011)
Dal 2001 lavora come educatrice in seminari di cinema per scuole primarie, college e scuole superiori nella regione del Limousin. Una ventina di progetti sono stati realizzati nell’ambito dell’associazione Votre nom au generique.