Come nasce l’idea di scrivere un libro sulla critica musicale (Scrivere di musica, minimum fax, 2020)? Ha anche a che fare con il tema dell’identità, è un chiarirsi il percorso intrapreso in anni di ascolti e di lavoro critico?
Il libro nasce dall’idea di provare a colmare quello che io sentivo essere un vuoto editoriale. Ci sono manuali di scrittura su quasi qualsiasi tema (narrativa, sceneggiatura, drammaturgia, pubblicità), ma non sul music writing. O meglio, le pubblicazioni nell’ambito sono poche. Per tanti anni mi è rimasta in testa l’idea di provare a utilizzare lo schema di On Writing di Stephen King per provare a costruire un libro sul music writing partendo dallo stesso scheletro: metà percorso personale e metà “cassetta degli attrezzi”. Alla fine mi sono convinto: faccio questo mestiere – dapprima come pura manovalanza giovanile – da trent’anni ormai. Non sono né sarò mai Lester Bangs, ma ho acquisito diciamo un minimo di esperienza sul campo, dalla macchina per scrivere e i giornali locali fino alla scrittura digitale e i social media, facendo tutto quello che sta nel mezzo. Io ero restio, ma l’editore ha insistito affinché articolassi il mio viaggio professionale dall’inizio a oggi. La mia identità, appunto, per tornare alla tua domanda: alla fine si è trattato di fare i conti, chiudere un cerchio, con me stesso e con una cosa nata tanti anni fa.
Gli appassionati di musica non più giovanissimi ricordano l’epoca degli LP e delle audiocassette, quando l’ascolto era quasi un rito, un fantastico momento di condivisione. Hai nostalgia di quel vivere la musica in un certo modo?
Non ho particolare nostalgia di quel mondo. O meglio, per me non è cambiato nulla, ascolto la musica a casa su un vecchio impianto stereo con lettore CD e giradischi, altoparlante e casse. Solo raramente usavo iPod o computer e telefono oggi. Ho nostalgia di altro, semmai: la musica per me e per tanti come me è stata una forma di escapismo, una fuga dalla realtà circostante che non mi piaceva, trovavo sciapa, deludente, ovvia, stereotipata. Dietro la musica c’era per me tutto il tema dell’appartenenza, della costruzione del sé, della diversità, nel limite del possibile. Oggi tutto quello si è perso. La musica è ovunque, ti salda addosso, non devi nemmeno cercarla. Quindi, forse perché il mio percorso è ormai compiuto in quanto uomo adulto, credo che quell’esperienza non sarebbe replicabile. Non parlo strettamente di me, naturalmente, ma di una generazione.
Suoni la batteria nel tuo gruppo, i Perturbazione. Quanto incide per un critico musicale essere egli stesso un musicista?
Fino a pochi anni ho sempre pensato che fra le due cose non debba esserci per forza una relazione. Molti grandissimi della scrittura non sanno suonare un accordo. Devo dire però che ultimamente – considerato che parte della narrazione musicale ha anche a che fare col back office, con la produzione, con l’aspetto meccanico della discografia e del mestiere – ho rivisto un po’ il mio punto di vista. Oggi penso che suonare o aver suonato a un certo livello e conoscere quel mondo da dentro fornisca più elementi per una analisi approfondita delle cose.
Le recensioni di dischi e di concerti lasciano talvolta la sensazione che si metta in secondo piano o si tralasci l’analisi musicale, per soffermarsi sull’aspetto cronachistico, sul lifestyle, con un impoverimento del lavoro critico. È così?
Purtroppo è sempre più così: è più facile ed è uno dei mali di lunga gittata del new journalism. Confondere critica e anatomia sociale. Tuttavia non è che il nozionismo fine a se stesso sia il massimo ed è ciò che ha reso spesso i giornali specializzati illeggibili, respingenti e dilettantistici. Rimane sempre valido per me il monito di Robert Christgau, il decano del music writing che cito anche nel libro: “Una buona scrittura musicale prima di tutto è buona scrittura”. A livello personale amo una scrittura che sappia leggere il testo, prima di tutto, ma nel suo contesto.
Volendo radicalizzare il concetto, molti articoli che si leggono sul Web danno l’idea di essere opera di persone che, pur dotate di passione, non posseggano gli strumenti critici necessari per raccontare e spiegare la musica. Questo va a detrimento dei critici professionisti o, al contrario, fa loro gioco?
Sarebbe bello dire che la scarsa qualità dell’informazione musicale che si trova in rete (non tutta, ci sono esempi virtuosi ma sono la minoranza) metta in risalto le qualità degli scrittori di cose musicali bravi. Ma temo che non sia così. Molti ormai confondono il concetto di opinione con quello di giudizio meditato proprio di una recensione. E molti, sempre più, si accontentano di valutazioni sommarie ma gratuite, figlie dell’epoca del copia-e-incolla e dell’immediatezza. Ci bastano quattro stellette su Amazon per convincerci. E spesso si tratta di opinioni che non parlano manco del disco, ma delle condizioni e del tempo in cui è arrivato. Il dito e la luna, insomma.
Continui a fare uso delle stroncature nelle tue recensioni? Oppure con l’esperienza, con la responsabilità della direzione di una rivista musicale si tengono in debito conto determinate dinamiche, i rapporti con gli artisti e l’industria discografica?
Ho smesso di stroncare anni fa. Per la verità ho smesso di recensire anni fa. Mi piace leggere le recensioni, quello sempre, è una pratica che amo, ma che mi ha usurato avendolo fatto per 20 anni in modalità “fordista”. Mi piacciono le stroncature, ne ho scritte tante, persino troppe, pure immeritate. Ma per me hanno senso, oggi, solo a patto che sfidino davvero un’opera di grande interesse o un’artista famoso. Ovviamente non per partito preso, pregiudizio o antipatia. Le stroncature degli esordienti per me non hanno alcun senso, sono puro accanimento e quasi sempre narcisistico sfoggio di sé.
Il mondo della musica e ciò che vi ruota intorno è in tremenda difficoltà per la pandemia che ne ha paralizzato l’attività. Come state vivendo questa crisi alla rivista musicale che dirigi, Rumore?
Crollo degli investimenti pubblicitari, nessuno e dico proprio nessuno investe più: la discografia è in crisi e i live per molti mesi non ci saranno, quindi niente festival. Situazione pesantissima. Per fortuna i nostri lettori sono fedeli, affezionati e affettuosi. Sono sempre con noi, ci seguono sia su carta sia (sempre di più) sul web. Stiamo vivendo questo periodo in grande simbiosi con chi ci segue, è un legame speciale; sono davvero grato a loro e a chi fa il giornale e il sito che sia così. Da questo punto di vista non possiamo che augurarci che l’indotto torni invece ad assomigliare a quello di prima.
Quando questa emergenza finirà tornerà tutto come prima, o pensi che in qualche modo lascerà un segno nel settore musicale e nell’arte in generale?
Spero che tutta la musica innocua che tale si è mostrata in un periodo di emergenza scompaia. Spero che spariscano gli improvvisati, quelli che chiedono soldi per recensire il disco di un poveraccio sulla loro webzine fatta coi piedi, con tanto di tariffario. Spero che dopo la mareggiata del virus resti in piedi chi ha sempre fatto le cose con il cuore e con grande professionalità. Avendo un’identità forte. Spero si relativizzi il peso di chi vive perlopiù di clic e di like e di impressions e di share e di fanbase e di visibilità. Sia chi fa musica sia chi ne scrive. Lo spero, ma ovviamente non succederà.
Recensione:
Rossano Lo Mele, Scrivere di musica. Una guida pratica e intima, minimum fax, pp. 160, euro 15,00 stampa, euro 8,99 epub. Recensione di Giuseppe Costigliola (Pulp Libri)