Prosegue per le Edizioni Clichy la pubblicazione dell’opera di Régis Jauffret, controverso e amato scrittore francese, autore, tra gli altri, di Microfictions, i racconti brevi che hanno sancito il suo successo anche italiano, Dark Paris Blues, Cannibali, Papà.
Autobiografia, uscito per la prima volta nel 2000 e poi edito da Gallimard nel 2005, fece immediatamente scalpore, turbando pubblico e critica con la storia devastante e devastatrice del suo protagonista, un giovane uomo che, appena maggiorenne, lascia la propria casa e, in una feroce lotta per la sopravvivenza, abbatte tutto ciò (e soprattutto tutti coloro) che incontra. A cominciare dalle donne, il suo principale strumento di sussistenza: le seduce, le manipola, si fa mantenere da loro, e quando è stufo passa ad altro, incurante dei danni – e, talvolta, dei cadaveri – che lascia dietro di sé.
A dispetto del tono di indifferenza con cui il protagonista senza nome narra l’affastellarsi degli eventi nefandi che costituiscono la sua vita, la lettura di Autobiografia è un atto tutt’altro che neutrale. Il lettore si trova catapultato in un inferno di desolazione e spietatezza da cui, pagina dopo pagina, sceglie in modo consapevole di non fuggire, per la presa irresistibile di questa narrazione senza freni né inibizioni, ove l’inibizione o la vergogna, il pentimento o il rimorso presupporrebbero – per quanto infranto – un sistema di valori, qui totalmente assente.
E se i Giochi di spiaggia, la raccolta di racconti che nell’edizione italiana segue Autobiografia, appare meno estrema, questi testi brevi, da molti indicati come “la prova generale” delle Microfictions, sanno sorprendere per la capacità di osservare con minuzia i luoghi, fisici o dell’anima, che fanno volgere lo sguardo altrove, le solitudini più cupe, la bruttura che non attende riscatto.
I personaggi di Jauffret sono crudeli? Sono disperati? O in essi alberga semplicemente la vita, nella sua scomodità e nella sua interezza? Abbiamo rivolto, in proposito, alcune domande all’autore.
In Autobiografia l’io narrante si macchia dei peggiori crimini, e li espone con la massima neutralità. Alla fine, tuttavia, dopo aver sopportato la lettura devastante delle azioni del protagonista, si prova quasi pietà per lui. È giusto considerarlo anche una vittima (della società, delle circostanze della sua vita) oppure questo tipo di lettura del personaggio è fuorviante e serve solo a placare l’animo del lettore?
Tutte le letture sono legittime. Una volta pubblicato, il romanzo non appartiene più all’autore, ma al lettore. Ogni lettura è diversa. I personaggi non compaiono nella testa del lettore nel modo in cui sono comparsi nella testa dell’autore quando scriveva, e non esistono due lettori che abbiano la stessa idea, non solo dei personaggi, ma anche della storia che il libro racconta. Non ho alcun giudizio sul personaggio di Autobiografia. Scrivo per gli adulti, non devo indirizzare i lettori verso una lettura particolare. Per quanto riguarda l’animo del lettore, non è questa la mia funzione. Un romanziere non è un maestro di scuola, né un moralista e nemmeno un filosofo. Io racconto storie, questa è la mia unica pretesa.
Autobiografia, scritto oltre venti anni fa, infrange qualsiasi tabù, sociale e linguistico. Qual è secondo Lei il più grande tabù del quale la letteratura possa occuparsi al giorno d’oggi?
Non mi rendo mai conto dei tabù ed è forse per questo che mi capita di infrangerli. Oggi – e non sto parlando di romanzi – il più grande tabù è affermare che la miseria, la povertà e la ricchezza cambiano il nostro modo di vedere il mondo. Le persone che lavorano nei media, gli scrittori, gli artisti e, in generale, tutti coloro che hanno una platea, parlano, scrivono, appaiono alla radio, in televisione, gestiscono i social network, e via dicendo, appartengono alle classi privilegiate, anche se alcuni hanno problemi economici e sono sfruttati, come i giovani stagisti in Francia. Tutto questo mondo, di cui ovviamente faccio parte, si preoccupa sempre meno di ciò che accade nelle aree in cui i soldi scarseggiano, dove il lavoro è duro, dove pagare l’affitto è un problema, come lo è nutrire adeguatamente i propri figli. Il messaggio dominante è quello dei potenti, dei ricchi, e durante il lockdown ci siamo resi conto della differenza tra il messaggio dei media e la realtà di ciò che stavano vivendo le classi disagiate. Ma stiamo parlando di un tabù? Niente affatto. Stiamo parlando di disprezzo e d’indifferenza, e denunciarli non è un tabù. Solo che denunciarli non interessa a nessuno.
Autobiografia ha un io narrante maschile, ma in altre sue opere (penso a Cannibali) Lei ha assunto una voce femminile. La crudeltà, in letteratura, si manifesta diversamente per gli uomini e per le donne?
È un continuo parlare di crudeltà a proposito delle mie opere. La vita è crudele e io sono un artista onesto. Diffidate di coloro che descrivono un mondo amorevole, generoso e giusto, sono persone disoneste. Non sono artisti, sono commercianti. I loro libri sono come i gioielli d’oro che si vincono al luna park. L’oro dei loro libri nasconde il falso. I libri contraffatti sono facili da riconoscere, non superano la prova del tempo. Dei libri di Kafka, Flaubert, Proust, Dostoevskij si è detto che erano intrisi di crudeltà. Non mi paragono a loro, ma diciamo che sono in buona compagnia. Per quanto riguarda la differenza tra narratore maschile e femminile, da tempo sostengo che le donne siano personaggi molto più complessi e quindi più interessanti degli uomini a livello letterario. Poi, con la stesura delle Microfictions – ad oggi millecinquecento racconti pubblicati in Francia – ho scritto le storie di così tanti personaggi di tutte le tipologie umane del creato che non ho più un’opinione in merito.
L’atto sessuale è quasi sempre narrato come una violenza, inflitta o subita. Perché?
Non saprei. In ogni caso, personalmente, sono piuttosto un tenero.
Le situazioni narrate in Autobiografia sono estreme, per cui è difficile immedesimarsi in esse. Tuttavia, la prima persona avvicina il lettore, coinvolgendolo in una sorta di complicità letteraria. Da scrittore, qual è la distanza che pone tra sé e i suoi personaggi, quanto le appartengono e quanto le sono estranei?
Non ci penso prima di scrivere, non ci penso nemmeno dopo, perché vado avanti e mentre scrivo mi lascio trasportare dalla narrazione senza avere il tempo di guardarmi allo specchio. I personaggi dei miei libri sono così numerosi che mi è impossibile identificarmi con loro. Non ci si può identificare con un’intera folla. E, col tempo, i miei libri sono diventati una folla.
Da Autobiografia ai Giochi di spiaggia alle Microfictions, lo spazio narrativo diventa sempre più breve, si impossessa del non detto, dei silenzi più che delle parole. La prossima opera sarà un romanzo o nuovi testi brevi? Quale stile pensa che si adatti meglio a raccontare la nostra contemporaneità?
Il mio prossimo libro sarà un romanzo. Il formato delle Microfictions è per me un formato naturale. Non nel senso che è naturale per me, ma che è naturale in sé. Credo che chiunque non sia uno scrittore e voglia raccontare qualcosa che gli è successo, scriverebbe un testo in questo formato, a grandi linee. Per quanto riguarda l’adattamento della narrazione alla nostra contemporaneità, non so se esista una formula magica. Io stesso ho scritto romanzi molto lunghi e potrei scriverne altri. Se dovessi dare un consiglio a un giovane scrittore, gli direi: racconta la tua storia e risparmiaci i tuoi pensieri, non ci interessano.
Oltre che nel suo Paese, anche in Italia è molto amato dai lettori. C’è qualche scrittore italiano in particolare che merita la sua attenzione?
Purtroppo leggo sempre meno. Preferisco passare il mio tempo a scrivere. Ho sentito molto parlare di Marco Missiroli. Ho appena comprato il suo libro Fedeltà, che leggerò presto. Sandro Veronesi è un altro autore che voglio leggere. Quando si tratta di letteratura, e indipendentemente dalla lingua, conosco quasi solo i classici. Ed è un errore.