L’arte di raccontare conosce varie forme. Tutte richiedono intelligenza, ispirazione e duttilità perché ci si deve misurare con i diversi momenti espressivi in cui può essere rappresentata. La traduzione, le sceneggiature cinematografiche, il fumetto e infine il romanzo tradizionale. Queste forme, Pino Cacucci le conosce bene tutte e le ha vissute e praticate con grande successo.
Oggi, a sette anni di distanza dal suo ultimo romanzo, arriva in libreria un’altra opera sua, intensa e corposa. Si tratta de L’elbano errante. In questa opera sembrano essere confluite tutte le forme narrative con cui Cacucci si è cimentato: non solo trama e intreccio ma visioni, immagini, dialoghi e conflitti tra culture e linguaggi. Un caleidoscopio di suoni, luci e colori che fin dalle prime pagine del libro chiama il lettore a immergersi in una realtà tra storia e fantasia che lo porta in giro per il mondo nel secolo apparentemente scintillante del Cinquecento, del Rinascimento.
Vero cittadino del mondo, Cacucci ci ha sempre regalato sorprese di grande interesse e di molte suggestioni. Gli altri luoghi e le altre persone non sono solo motivo di curiosità ma, nell’incontro e nello scontro tra loro, costituiscono il vero motore della storia, quella raccontata e quella realmente vissuta.
La storia inizia con una scena violenta. Di notte, al cospetto di una luna rosso fuoco e rosso sangue, i pirati saraceni sbarcano all’Elba e dopo una breve ma feroce battaglia, rapiscono Angiolina sorella di Lucero e la portano alla corte del sovrano di Algeri. Questo è l’incipit della storia di un grande romanzo di formazione.
Apprezzo questo termine: “di formazione”. La quattordicenne Angiolina viene strappata alla sua isola, rapita e venduta all’asta delle schiave in Algeri; da lì in avanti deve “formarsi” come concubina nell’harem del pascià e, con il tempo, diventa la Favorita e la donna più potente della città-stato dei corsari turcheschi. Suo fratello Lucero si “forma” come spadaccino, soldato di ventura, duellante imbattibile sempre assetato di vendetta… nell’illusione di ritrovare la sorella.
Durante le diverse fasi del racconto, i riferimenti storici (tanti) ben si equilibrano con elementi fantastici tipici della narrazione di fiction. Si tratta di una miscela che hai sperimentato spesso nei tuoi libri precedenti.
Una miscela tra romanzo storico e d’avventura, in questo caso. Già prima, molti miei libri sono stati il frutto di ricerche su persone esistite e ricostruzioni di eventi realmente accaduti, inserendovi personaggi di finzione, o trasformando personaggi storici in protagonisti romanzeschi per via delle scene e dei dialoghi.
Il Cinquecento, l’epoca del Rinascimento, dicevamo, è il periodo in cui l’essere umano è stato capace di produrre le cose più belle, espressive ed eleganti della sua storia. Come si concilia questo con la violenza e lo spargimento di sangue che si perpetrarono. Si dice che la bellezza ci salverà. Ma ne siamo sicuri?
C’è molta prosopopea e falsità storica nell’uso della parola “Rinascimento”, specie in questi tempi. Vi furono più guerre che nei secoli precedenti, più massacri, e il più spaventoso genocidio della storia dell’umanità, quello delle popolazioni indigene delle Americhe, calcolato in cinquanta milioni di vittime nell’arco di mezzo secolo. Chi crede che sia stato il fulgido periodo delle belle arti e delle belle lettere, evidentemente conosce poco la Storia. Non vi fu “bellezza” nella Santa Inquisizione che bruciava migliaia di presunti “eretici”, nessuna “bellezza” nelle incursioni dei Turchi e dei loro corsari nordafricani che facevano strage in tutto il Mediterraneo. Più che la bellezza, a salvarci è l’ignoranza: meno si sa, meno si soffre.
Dal punto di vita simbolico, l’accostamento delle vicende di Lucero a quelle di un giovanissimo Miguel de Cervantes che valore riveste? Cervantes è in qualche modo il cantore dell’avventura e dell’utopia, sono elementi che aiutano a crescere mantenendoci vivi e capaci di reazione nei confronti delle ingiustizie?
L’idea di narrare le vicissitudini di Cervantes quando era ancora uno spadaccino e un soldato dei Tercios de Infanteria a Napoli – dove era riparato dalla Spagna arruolandosi come in una sorta di Legione Straniera per sfuggire alla condanna del taglio della mano destra per aver gravemente ferito un uomo influente in un duello – è stato il punto a cui volevo arrivare in questo romanzo: sapere che aveva combattuto nella “battaglia delle battaglie”, Lepanto, mi affascinava non poco, volevo farne un protagonista di azioni e dialoghi, quindi la vita di Lucero l’Elbano era da me “predestinata” a questo incontro tra uomini d’arme, con una differenza d’età di circa vent’anni; la sfida era far coincidere dati e imprese, dando a Lucero la possibilità di partecipare a battaglie storiche ed eventi realmente accaduti, in base alla sua età e a dove si spostava. Lui e Miguel sono entrambi appassionati di letture epiche, cavalleresche, picaresche – a partire dall’Amadigi di Gaula – e questo suggella subito il rapporto di amicizia. Cervantes diventerà il cantore dell’avventura utopica camuffata da follia, Lucero l’ha vissuta fin da ragazzino e continua a viverla, pur sentendo che gli anni e le amarezze stanno erodendo le motivazioni per andare avanti. Ecco perché in un dialogo dice: “Si è vecchi quando si smette di combattere”.
Ma i due ragazzi, Miguel de Cervantes e Lucero sono anche degli sconfitti. Combattono quasi disperatamente contro un nemico che è sempre più grande e più forte di loro.
Nei capitoli intitolati “I dialoghi con Miguel” emerge appunto questo: non più ragazzi, uno veterano e l’altro già segnato a vent’anni da sconfitte personali e amarezze laceranti, si battono senza alcuna convinzione, ormai, ed esprimono la desolazione di una guerra infinita, senza vincitori né vinti, e soprattutto, pur ritenendo il nemico turco “la barbarie”, sanno che “noi non siamo la civiltà”.
Spagna, Italia, Algeria, il mondo arabo, Ungheria, Roma, Firenze, Napoli, Venezia, il nuovo e il vecchio mondo. I luoghi intervengono con forza nella narrazione. Sono luoghi già carichi di suggestioni che però, nel rispetto della storia, vengono arricchiti dalle vicende del libro.
Lucero l’Elbano diventa soldato di ventura per odio e spirito di vendetta, e come tale attraversa le vicende guerresche della penisola italica e dell’Europa del suo tempo. Finché un “pretesto storico” lo porta a Siviglia e da lì a imbarcarsi su un galeone per la Nueva España, cioè il Messico della Conquista, dove constata definitivamente che “noi non siamo la civiltà”, anzi, barbarie che si somma alla barbarie. Ma… nelle terre dello sterminio degli indigeni, conosce un uomo straordinario, don Vasco de Quiroga, vescovo difensore degli indios nonché appassionato lettore di Utopia di Thomas More, di cui fece la prima traduzione in spagnolo ancor oggi conservata nella Biblioteca del Real Palacio di Madrid. Furono infatti tre uomini di Chiesa, fra Bartolomé de Las Casas, fra Bernardino de Sahagún e don Vasco de Quiroga a contrastare il genocidio, salvando anche una minima parte della memoria scritta dei Maya e degli Aztechi.
Spade, battaglie, guerre, via mare e sulla terra, stupri, rapimenti, distruzioni. L’Europa ha raccontato a sé stessa di aver eliminato il problema della guerra dai suoi orizzonti. Tranne che nella ex Jugoslavia, a due passi dall’Italia, si consumano orrendi massacri. In Siria, a poche miglia dalla Puglia, intere città vengono rase al suolo. La Turchia perseguita i curdi spesso in combutta con quello che era l’ISIS. Gli usa intervengono, bombardando ovunque. Cosa stiamo combinando?
I soliti disastri. Con l’aggravante delle menzogne di propaganda bellica. Se c’è una differenza con il passato, e quindi con il Cinquecento, è che allora ricorrevano meno all’ipocrisia – perché non avendo le tv e i giornali, risultava difficile intossicare di falsità le popolazioni ricorrendo ai soli banditori o menestrelli… – combattevano e basta; con l’aggiunta di congiure, raggiri e tradimenti, ma che non pretendevano di convincere e coinvolgere i sudditi. Oggi, gli ipocriti prevalgono e falsano tutto: e i sudditi, acclamano. Arrivando alla macabra favoletta di un’Europa che è in pace dal 1945: intanto, ha partecipato e armato e anche provocato innumerevoli guerre. L’Europa è il continente dell’ipocrisia. Ha usato i curdi come carne da macello quando le città europee erano flagellate dai sanguinosi attentati dell’Isis, per poi fregarsene quando i turchi e le loro schiere di tagliagole jihadisti li hanno attaccati alle spalle: per l’Europa la Turchia è un ottimo partner commerciale, a cui vende armi e anche quei carrarmati che invadono i territori dei curdi e ne travolgono la resistenza; mentre provoca centinaia di migliaia di profughi, la Turchia incassa miliardi dall’Europa per tenersi nei campi i profughi siriani. Oltre che ipocrita, l’Europa è anche cinica e vile.
Coerentemente con la situazione dell’epoca, le donne non hanno un rilievo importante in questa narrazione picaresca. Tutte loro però riescono a esprimere una intelligenza nell’adattamento, una forza d’animo rara, una capacità di sopportazione del dolore e delle umiliazioni che il lettore può essere portato a pensare che anche loro siano le protagoniste del lungo romanzo.
Il romanzo si sviluppa su due contesti paralleli: la realtà di Lucero spadaccino e soldato di ventura, e la realtà di Angiolina rapita e venduta all’asta di Algeri, e così via, senza raccontare troppo. Angiolina-Aisha è l’altra protagonista, in alcune fasi è persino predominante come figura narrativa. E nel corso delle avventure e disavventure, emergono sempre donne non soltanto come comparse o amate da Lucero, ma figure emblematiche delle vicende dell’epoca (Raquel l’ebrea di Siviglia perseguitata dall’Inquisizione, la “strega” del beneventano, la prostituta di Firenze o quella di Napoli, entrambe simboli di una certa realtà da “soldataglia”, o anche la giovinetta Eréndira sul lago di Pátzcuaro… non vorrei fare un lungo elenco, ma credo proprio che qui vi siano personaggi femminili di rilievo che sono a tutti gli effetti protagoniste, comprese quelle come Zahira “l’Ape Regina” dell’harem di Algeri o la convertita Amina).
Nel libro c’è un riferimento alla scoperta del nuovo mondo ma la gran parte delle vicende si svolge in Europa e nel Mediterraneo. È stata d’aiuto la conoscenza approfondita dell’America centrale e del sud per raccontare queste atmosfere?
Senza dubbio. Dopo un’intera vita di frequentazioni, appassionate letture e ricerche sulla storia dell’America Latina, a cui ho dedicato non pochi libri e innumerevoli articoli, ho creduto di poter ricreare quelle atmosfere in base alle conoscenze maturate in quarant’anni di conoscenza diretta e vagabondaggi sia geografici che letterari. Il tentativo, che spero sia riuscito, era trasmettere quella stessa meraviglia che provò Bernal Díaz del Castillo, il cronista di Hernán Cortés, quando vide spalancarsi sotto gli occhi la capitale degli Aztechi, la Gran Tenochtitlán… Con l’aggravante che davanti alla vista di Lucero e del suo manipolo di armigeri ex galeotti, si estende la distesa di macerie provocate dalla Conquista e un’umanità assoggettata e vilipesa. Ma non del tutto doma… conoscendo la storia del Messico – rivolte incessanti contro despoti e colonizzatori, guerre d’Indipendenza, e infine la Revolución – è stato doveroso mettere nei pensieri di Lucero una sorta di premonizione: “L’immane bagno di sangue della Conquista, un giorno, chissà, sarebbe sfociato in altri bagni di sangue. Una così inaudita e indescrivibile violenza avrebbe di certo portato altra violenza: forse ci sarebbero voluti decenni, o persino secoli, ma quelle genti un tempo dominanti nel loro mondo conosciuto prima o poi avrebbero rialzato la testa.”