Lei è un musicista apprezzato e un docente di musica: qual è stata la molla che l’ha spinta a cimentarsi nell’arte narrativa, e cosa si proponeva?
Credo che avere qualcosa da raccontare e la presunzione di poter essere il solo a farlo in quella certa maniera inneschi il desiderio di scrivere, per me è stato relativamente semplice perché da sempre ho cercato di raccontare anche attraverso il mio strumento o la partitura. Così il musicista più anziano ed esperto che sono ha dato una mano al “giovane” scrittore che sono diventato imponendogli il controllo della forma, l’attenzione alla musicalità delle parole.
Vi sono dei testi da cui ha tratto ispirazione, delle fonti, dietro questo suo primo romanzo?
Naturalmente dietro Weissberg si intravede l’ombra di Gustav Mahler, che fu negli Stati Uniti a condurre la New York Philharmonic circa vent’anni prima del direttore che mi sono immaginato. Ebreo austriaco come lui e personalità altrettanto complicata, i pochi scritti che ha lasciato e il copioso materiale biografico sono stati preziosi per delinearne la figura. Dal punto di vista prettamente letterario devo molto agli scrittori angloamericani, talvolta mi sono trovato a pensare certi passaggi, certe frasi, direttamente in inglese e metterle sulla carta traducendo me stesso. Sembra pretestuoso, lo ammetto, ma mi ha permesso di vestire i panni di uno yorker degli anni Trenta e scrivere di conseguenza; mi interessa l’onestà della scrittura, la parola deve attraversarti, è necessario sentirla risuonare.
Quali aspetti della sua vita di musicista ha trasposto nella caratterizzazione dei personaggi?
Decisamente non posso affermare “David Weissberg c’est moi”, ma condivido con lui e con chiunque si trovi a salire i pochi gradini che portano al palcoscenico alcune esperienze che sono peculiari: prima fra tutte la confidenza con la solitudine. Sembra paradossale in un’espressione artistica bisognosa degli altri come è la musica (colleghi, interpreti, pubblico, fino all’accordatore del pianoforte), ma il tempo che si occupa nello studiare un pezzo, scrivere una partitura o torturarsi con ore di esercizi di tecnica strumentale, è solitario e lo stesso vale per i viaggi, le ore buttate nel camerino in attesa della campanella che chiama sul palco, gli attimi immediatamente successivi al concerto quando metti a posto lo strumento, sistemi i fogli pentagrammati e ti interroghi su quello che è appena successo, sul destino dei suoni dei quali non resterà traccia se non nella memoria dei presenti.
Quello che inizialmente appare come un dualismo tra musica jazz e musica classica nel romanzo sembra infine composto, i pregiudizi del classicista Weissberg vengono smussati dall’incontro con il musicista nero Joubert: questo in qualche modo si riflette anche nella sua esperienza di musicista?
Per mere ragioni di anagrafe ho vissuto da vicino il momento nel quale il jazz e la musica di tradizione europea hanno avuto modo di confrontarsi persino nell’accademia, ho sempre trovato abbastanza significativo, anche istruttivo, il fatto di aver insegnato per anni in un conservatorio nel quale, da studente, mi ero trovato ad avere più di qualche problema per via della mia scelta di suonare del jazz. Da questo punto di vista stiamo vivendo nel migliore dei mondi possibili, ma forse è presto per dire se tutto questo ci regalerà qualcosa di artisticamente rilevante.
Dietro la stesura di Il silenzio alla fine si percepisce un’approfondita ricerca storica. L’ha impegnata molto ricostruire la vita newyorkese degli anni Trenta del Novecento, i trend culturali e artistici, il complesso milieu di quella metropoli?
Trovare le parole per raccontare è stato impegnativo ma preparare lo sfondo, prestando attenzione ai riferimenti storici e cronachistici, lo è stato di più. Per quattro anni ho saccheggiato librerie e papers di ricercatori (e diciamo grazie alla rete e alla sua generosità anche se a volte ci pare sospetta), poi la memoria di qualche amico. Alla fine, forse, vale quello che canta Billy Joel in una vecchia canzone: “New York State of Mind”.
Un tema importante presente nel libro è l’ebraismo, la condizione ontologica del sentirsi esule, legato in qualche modo all’esperienza del migrare. Da dove deriva questa sua sensibilità verso tale aspetto?
Ho il fondato sospetto che questi mesi di pandemia rappresentino degnamente la conclusione del secolo ventesimo, della cui brevità ci eravamo illusi; come diversamente si potrebbe leggere la mostruosa malattia che infettò l’Europa del nazifascismo, la pandemia della morale che condusse al tentativo di sterminio di un popolo intero? Ne riconosciamo lo stigma nei barconi affondati in queste ore, ma lo avremmo potuto già prevedere nel Medz Yeghern degli armeni, lo ritroviamo nei massacri delle guerre civili africane e nelle carneficine disposte dagli autocrati dell’oriente vicino o lontano. L’olocausto ci ha messo di fronte alla rivelazione della capacità umana di pianificare il male con la sollecitudine e l’impegno abitualmente impegnato dai nostri simili nella gestione di un’industria o un negozio di ferramenta. Non posso immaginare qualcosa di più spaventoso, va testimoniato ogni giorno.
Ha in progetto di continuare questa “incursione” nella scrittura narrativa?
Mi piacerebbe.