Dopo la tecnocrazia: la comunicazione tra scienza, democrazia e società

Per Pietro Greco la comunicazione scientifica è vitale in una società della conoscenza sempre più tecnocratica. A che punto è in Italia la divulgazione della scienza?

Vorrei trovarmi su una comoda poltrona nel suo studio. Invece incontro Pietro Greco su Skype. Così va il mondo in questo momento. Così vanno le chiacchierate belle su scienza, arte, filosofia e comunicazione. Parleremo di scienza e comunicazione scientifica, ma anche di arte e fisica quantistica.
Greco è uno scrittore, giornalista scientifico, professore di Comunicazione scientifica, ha insegnato nei Master di mezza Italia, a cominciare dalla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste. Nell’ultimo quarto di secolo ha dedicato una trentina di libri alla “causa” della divulgazione scientifica in Italia, affrontando in tempi non sospetti i temi della pandemia (Contagio, Il ritorno delle malattie infettive, Editori Riuniti, 2003) o dello sviluppo sostenibile (Lo sviluppo insostenibile, Bruno Mondadori, 2003), con un “pallino” speciale per la fisica, da Galileo a Einstein e, più recentemente, i Quanti (Carrocci, 2020) . Tra tutti, , Einstein e il ciabattino. Dizionario Asimmetrico Dei Concetti Scientifici di Interesse Filosofico (Editori Riuniti, 2004) è una sorta di Bibbia per noi profani curiosi.  Insomma, una specie di Morpheus che in sei minuti ti spiega il caos o le “variabili nascoste”.


Una particolarità della tua “scrittura” è l’estrema chiarezza, il racconto semplice e sempre ricco di storie ed esempi. Vuol dire questo “divulgare” la scienza?
In ogni mio libro c’è sempre una tesi. Se mi chiedi “è un libro divulgativo?” e intendi un libro comprensibile a tutti, sì, perché io parlo la lingua di tutti. Se intendi una mera traduzione da un gergo specialistico all’italiano o una raccolta di dati, allora no, perché c’è sempre una mia personale interpretazione nella “traduzione” e tra i dati. 

Alla voce “Bellezza” del tuo Dizionario leggo:  “l’arte non è solo, come sosteneva J. Z. Young, un ‘modello del mondo’, è anche, come proponeva Jacques Monod, una ‘funzione di simulazione’: un modo per cercare di “pre-vedere” le evoluzioni del mondo reale. Di più: l’arte è un modo di comunicare ad altri le visioni, le rappresentazioni e le simulazioni del mondo.” Parto dalla  bellezza anche perché il tuo ultimissimo libro si chiama  Homo. Arte e Scienza.
La connessione tra scienza e arte (e filosofia) è rimasta indissolubile nei millenni. Questa interpretazione è in parte “trivial”, direbbero gli inglesi, ossia molto frequentata, nel senso che sembra ovvio oggi dire quanto e come arte e scienza si incontrino (anche se non è propriamente accettato da tutti).  Nel libro non descrivo soltanto questo rapporto, ma sottolineo la tesi di fondo e cioè che arte e scienza nascono con un obiettivo comune: muoversi in quello che Italo Calvino chiamava “il labirinto del mondo”. Ed è proprio questo obiettivo che, secondo me, fa la differenza rispetto a una storia lineare del legame tra i due campi.

In questo rapporto, la scienza, forse, è anche più consapevole del ruolo dell’arte. Penso ad esempio alle neuroscienze, che hanno indagato quel “modo di comunicare ad altri le visioni, le rappresentazioni e le simulazioni del mondo”.
Non c’è dubbio che oggi molta pittura e molta letteratura siano strumento di lavoro dei neuroscienziati. L’arte non è soltanto fonte di ispirazione per la scienza ma è un vero e proprio strumento scientifico. Per intenderci, quando un grande scienziato, Stephen Jay Gould, biologo evoluzionista, dice: “Io ho intuito molte delle cose che ho detto frequentando l’arte, in particolare l’arte italiana in particolare il Duomo di Milano e la basilica di San Marco a Venezia” vuol dire che ha visto certe cose e le ha utilizzate come metafore. Oppure Daniel Shechtman, premio Nobel israeliano per la chimica che ha scoperto i quasi-cristalli, ha detto di essersi ispirato all’arte islamica. Ecco questo, appunto, è un uso di immagini: ispirazione, intuizione. Nel libro analizzo esempi concreti come Galileo e la musica, Leopardi e il cosmo, Picasso e Einstein, relatività e cubismo. Non intuizioni ma studi pratici.

Torniamo alla comunicazione scientifica, oggi sempre più intrecciata – almeno nelle società avanzate – alle dinamiche politiche e di consenso della “tecnocrazia”.  Qualche anno fa in un libro [1] scritto insieme a Vittorio Silvestrini, osservate che “la dialettica tra scienza e società diventa dunque uno degli elementi fondanti della democrazia nelle società libere, e cioè un elemento politico. Questo comporta alcune conseguenze inedite: sia i politici che i cittadini chiedono di compartecipare al “governo della tecnoscienza” e di assumere decisioni rilevanti per il loro sviluppo”.
Oggi, in seguito alla crisi pandemica, ma anche all’allarme ambientale, siamo tutti molto più consapevoli dell’irruzione della scienza e delle nuove tecnologie nella società e della nostra dipendenza da esse. E una delle conseguenze di cui parlavate mi sembra l’ansia di informazione e di letture sulla scienza; vedi il caso editoriale di Spillover di David Quammen (Adelphi, 2017) uscito anni fa ma che balzato in testa alle classifiche con l’emergenza Covid-19.  Nel triangolo società, scienza e comunicazione a che punto siamo?
Io penso che tutti i fenomeni che avvengono nella società umana abbiano a che fare con l’economia. Viviamo in un periodo che ha avuto uno sviluppo enorme dopo la seconda guerra mondiale, la scienza è diventata il nucleo centrale, il primum movens dell’economia mondiale e lo è sempre più.  Che cosa ci scambiamo noi? Beni, possibilmente con un valore aggiunto. Oggi il valore aggiunto è la conoscenza. Il telefonino, per esempio, è oggetto della conoscenza, ma il valore di questo oggetto non è la materia prima, né il lavoro che ci è voluto per assemblarlo. Paghiamo la conoscenza informatica che c’è dentro. Viviamo in una società in cui la gran parte il Pil mondiale viene prodotto dalla conoscenza. Questo nuovo rapporto tra scienza ed economia, attraverso gli Stati, attraverso le industrie private, fa sì che esista un rapporto sempre più stretto tra scienza (comunità scientifica), Stati (politica), aziende private che sempre più investono a favore della scienza a livello mondiale (ad oggi 2/3 dei fondi) e infine opinione pubblica che molti tendono a sottovalutare, ma che invece ha un peso grossissimo e per fortuna dico io. Quindi tutto il gioco – non solo della scienza ma anche della società – avviene all’interno di questo quadrilatero.
Questa società della conoscenza ha prodotto una società che è la più ricca che sia mai esistita, ma ha anche prodotto una disuguaglianza inedita che il mondo non ha mai visto prima. Quindi è una società diseguale, che non ci piace. Quello che bisogna fare è creare una società democratica della conoscenza che non è un’aspirazione dell’anima, è una necessità.  Ci sono forze sociali che spingono verso il riconoscimento di nuovi diritti di cittadinanza. Come nel ‘700 si chiedevano diritti di cittadinanza civile (ci furono lotte e due rivoluzioni per ottenerli), come nell’800 i diritti di cittadinanza politica, come nel ‘900 i diritti di cittadinanza sociale, adesso c’è una domanda di diritti di cittadinanza scientifica che ovviamente presuppongono un conflitto enorme, inedito. Pensa soltanto al conflitto che c’è tra noi, utenti dei social, e i grandi proprietari degli algoritmi. Oppure pensa all’enorme conflitto che sta per nascere intorno alla vaccinazione. Si creerà il vaccino o più vaccini per curarci, ma chi lo avrà per primo? Avere uguali diritti di cittadinanza scientifica significa avere tante cose e diritto all’accesso all’informazione diritto da utilizzare per costruire un mondo così come noi lo desideriamo.
Pietro Greco Homo arte e scienzaEsiste un problema di democrazia in questa società della conoscenza, ma per far si che la democrazia si imponga rispetto agli oligopoli, occorre che gli umili e i meno abbienti diventino “intellettuale collettivo” ovvero che noi tutti possiamo accedere a tutte le conoscenze scientifiche che ci possono servire e a tutte le possibilità di utilizzare le conoscenze scientifiche per il nostro benessere, a cominciare da quelle mediche, sanitarie.
La comunicazione della scienza fino a 60… 70…100 anni fa era qualcosa di necessario ma agiva in seconda battuta, oggi ha un impatto diretto, immediato sullo sviluppo della scienza, sullo sviluppo della società che è in corrispondenza stretta con la scienza. La comunicazione della scienza non è più un passaggio intermedio, ma è un passaggio fondativo della democrazia.
Il ruolo di chi si occupa di comunicazione della scienza sia esso uno scienziato, un giornalista scientifico, un artista che interpreta queste cose, è assolutamente cambiato. Si trova in una posizione assolutamente primaria.

Però, nella pratica, mi permetto di cogliere l’aspetto più problematico di questa comunicazione: i comunicatori. Proprio in questa fase Covid, così simbolica per quello che hai appena detto, l’informazione si è fatta entropica e anche un po’ populista nel senso peggiore del termine.
Eehhh.. poi ovviamente c’è la pratica. Da questo punto di vista ci sono contraddizioni che sono omologhe alla “lotta di classe” di cui parlavo prima; una lotta per chi detiene i mezzi della comunicazione scientifica. Comunicatori di scienza ce ne sono tanti. In questi anni anche solo nei Master di comunicazione della scienza, dove ho insegnato, direi sono usciti dalle università italiane, almeno 1500 ragazzi e ragazze che poi sono diventati nel -70-90% dei casi comunicatori professionali di scienza. Quindi oggi in Italia i comunicatori scientifici non mancano, però non si vedono. Almeno sui grandi media, un po’ di più sui social. In Tv a parlare di Covid sono andati giornalisti di ogni genere: politica, economia, storia, sport, spettacolo. Per carità, va tutto bene. Ma specializzati a parlare, almeno saltuariamente, di scienza ne ho contati tre: Barbara Gallavotti, Roberta Villa, Alessandro Cecchi Paone. Sui giornali di carta si preferisce far parlare direttamente gli scienziati, e va bene. 

Per andare anche sul concreto, nel campo dell’editoria scientifica vedi una domanda o solo curiosità? I libri a tema scientifico si vendono? O funziona solo Rovelli che ha venduto milioni di copie in tutte le lingue ed è diventato un caso mondiale?
Nell’ambito dell’editoria italiana i libri che vendevano, anni fa, erano libri tradotti. Poi in maniera abbastanza importante è emersa una generazione di scrittori scientifici oggi piuttosto conosciuti, come Edoardo Boncinelli e Piergiorgio Odifreddi che vendono abbastanza bene. Boncinelli, per esempio, con i suoi libri più importanti ha venduto sicuramente 30-40 mila copie…
Rovelli funziona per la sua bravura e tutto il “mistero” che sta dietro alle esplosioni dei bestseller, certo. Sta di fatto che questa cosa è un “inedito” che dimostra quello che dicevo: la domanda di comunicazione della scienza è sempre maggiore. A parte Rovelli, in Italia c’è una buona classe di scrittori di scienza con una buona affermazione, ma si tratta in genere di poche migliaia di copie, i migliori vendono alcune decine di migliaia di copie. E’ così anche nel resto del mondo, la differenza è che in Italia le case editrici preferiscono comunque tradurre un titolo piuttosto che pubblicare un nuovo autore italiano, benché, considerando i diritti e i costi di traduzione, gli costerebbe molto meno.

Forse perché il libro, anche in questo campo, arriva come bestseller e vende di più?

No, anche gli autori stranieri più famosi si collocano nella stessa fascia di mercato di Odifreddi o Boncinelli,  forse addirittura cadono  un po’ più in basso . Se guardiamo solo ai numeri il fisico inglese, John Barrow, ha avuto un grosso successo e c’è stato un periodo in cui Gerald Edelman, un neuroscienziato americano, vendeva molto. 

Pietro greco Quanti

Oggi in quel campo, tra arte e scienza, c’è Semir Zeki che vende abbastanza bene ma parliamo sempre di letture rivolte a chi è già conosce ed è coinvolto in questi temi, bestseller alla Rovelli, dopo Stephen Hawking non ne ho conosciuti. In sostanza possiamo dire che in Italia gli scrittori italiani di divulgazione scientifica hanno conquistato una fascia di mercato che prima era appannaggio dei big stranieri. Ma fuori dall’Italia poi nessuno – tranne il caso Rovelli – traduce Odifreddi, oppure Boncinelli, in inglese o in tedesco o in francese. Non abbiamo ancora questa capacità sul mercato internazionale. Personalmente sono stato tradotto… in rumeno.

In Italia, a partire dagli anni ’80, il padre della divulgazione scientifica alla portata di tutti è stato Piero Angela, una sorta di “Non è mai troppo tardi” che in Tv e con i suoi libri ha accompagnato una generazione di italiani alla scoperta della scienza, fornendo una nuova grammatica per leggere il mondo.
Piero Angela ha avuto un ruolo altissimo, notevolissimo. Non mi stancherò mai di ringraziarlo. Su questo ho anche dibattuto a suo tempo con Franco Prattico (noto giornalista scientifico sul quotidiano La Repubblica n.d.r) che invece lo riteneva troppo semplicistico. Io invece penso di no. Non è affatto semplicistico, semplice ma non semplicistico. “Prova tu – gli dicevo – a fare una trasmissione così in prima serata che ti porti 4-5 milioni di spettatori. Ci vuole una bravura notevole che oggi possiede anche il figlio, Alberto. Ci sono anche altri comunicatori televisivi di scienza, Cecchi Paone o Tozzi. Però non raggiungono il generalismo di Piero Angela. Angela parla a tutti, soprattutto con uno stile pacato: il vero segreto della comunicazione odierna in questo rumore continuo che arriva da ogni parte dove lui impone un suo stile inconfondibile. Non a caso nessuno in Europa ha la sua audience, nemmeno la  BBC che ha molti più soldi. Se sei capace di fare televisione come Piero Angela riesci a superare anche il gap economico.

Vedere tanti libri di scienza sugli scaffali porta ad essere comunque più ottimisti. In che misura ha senso esserlo, per come la scienza viene comunicata, divulgata, “venduta” oggi?
Ti do la stessa risposta che ho dato ad Antonella Viola, una scienziata che va spesso in Tv, e che mi disse: “Non sono affatto soddisfatta dalla qualità della comunicazione della scienza sui grandi media. Questo perché non ci sono giornalisti capaci di fare buona comunicazione”.  Le risposi: “ Guarda che di giornalisti ce ne sono ormai migliaia in Italia ma non si vedono perché non li fanno vedere, perché i giornalisti scientifici, tranne rarissime eccezioni, hanno la mentalità dello scienziato e non gli piace fare le risse. Preferiscono argomentare.” 

[1] Vittorio Silvestrini , Pietro Greco La risorsa infinita. La comunicazione della scienza nella società della conoscenza”,  Editori Riuniti, 2009