Intervista a Mazen Maarouf

Abbiamo tutti presente i paesaggi urbani del vicino oriente dilaniato dalla guerra ormai da decenni. Edifici diroccati, animali che si muovono senza meta in una città che non esiste più neanche per loro. Rifugi di fortuna. Popolazione civile attonita e disorientata. Solo gli eserciti sembrano sapere cosa fare, dove andare. E i profughi a cui non rimane null’altro che fuggire.

Li conosciamo questi scenari e comprensibilmente li associamo al dolore e alla disperazione. Ma chi li vive dall’interno cosa ci può raccontare? Crediamo di sapere tutto dai corrispondenti occidentali che, per quanto si impegnino, rimangono sempre osservatori esterni.

Per fortuna, ancora una volta, ci viene in soccorso la scrittura. Quella di una persona che vive in equilibrio tra la condizione di profugo ben integrato in una terra lontana e straniera e quella di vittima di una serie di guerre assurde che si sono avvicendate nella sua vita da bambino, prima, e da giovane poi. Il suo nome è Mazen Maarouf, nato a Beirut da una famiglia di profughi palestinesi, oggi vive tra Beirut e Reykjavik. Ha una laurea in chimica e in fisica, ma oggi si occupa esclusivamente di giornalismo e di scrittura. Di recente Sellerio ha pubblicato un suo libro di quattordici racconti, tradotti dall’arabo da Barbara Teresi, la cui raccolta prende il nome di Barzellette per miliziani (pp. 160, euro 15,00).

Affrontare la lettura di questi racconti significa vivere del tutto originali, forte dimensione dell’assurdo, situazioni surreali, comicità, disincanto, cinismo involontario e dissacrante verso chi ha solo la forza da far valere. Un’esperienza letteraria e umana di tutto rispetto.

Abbiamo incontrato Mazen Maarouf a Roma durante Più libri più liberi, la fiera della piccola e media editoria che si svolge ogni anno a dicembre.
Si è vero – ci racconta – il Medio oriente è terra di disperazione, di odio, di violenza e di guerre.  Che fare allora? Cosa possono fare le popolazioni civili? Molti piangono. Ma molti altri ridono! Tutti pensano di non avere nulla da perdere. Alcuni si disperano, altri ridono. Io stesso rido mentre scrivo le mie storie. Voglio assolutamente uscire dallo stereotipo del palestinese sofferente e piangente. Il mio sforzo è quello di renderlo ironico, dissacrante a volte cinico per il suo desiderio di libertà.

Certamente però i racconti sono tutti attraversati da una buona dose di amarezza.
Sì è così. Non potrebbe essere diversamente. Nel mio caso commedia e amarezza vanno insieme. Io però non scrivo pensando all’ironia. Sono solo consapevole, dalla mia esperienza personale, che quando la morte arriva si ha solo bisogno delle barzellette.

Tra i tuoi racconti, specialmente nella prima parte del libro, si insiste molto sulla figura paterna, anche in senso polemico e conflittuale. Perché? Che ruolo ha nel contesto di non-sense in cui vivono tutti i personaggi?
Devo confessare che non ho avuto un buon rapporto con mio padre. D’altra parte lui non voleva sposarsi. È stato costretto dal contesto. Aggiungo anche che oggi è molto orgoglioso di me. Mi fa ridere quando vedo il suo orgoglio nel sapere che il mio libro è tradotto in molte lingue. Si sente internazionale, in qualche modo. A questo proposito voglio affermare che il libro è anche un atto contro il patriarcato. Come sappiamo anche le guerre sono il prodotto del patriarcato. Si tratta di un sistema che combattuto evitando anche il meccanismo  del passivo rinnovamento di riti e ruoli.

E perché hai scelto una famiglia così infelice e disastrata come protagonista dei tuoi racconti?
Perché è la mia famiglia.

Spesso la tua scrittura sembra attingere ai canoni del realismo magico sudamericano.
Si è vero. Per me la lettura di Gabriel Garcia Marquez è stata importante.

Il mondo culturale arabo ti ha attribuito un premio prestigioso come l’Al Multaqa Prize, il più importante premio arabo dedicato ai racconti. Ma tu sembri essere una figura eccentrica rispetto al resto della letteratura araba contemporanea.
Non amo lo standard tipico degli orientalisti. Non mi appartiene. A me piace vivere con una lingua aperta e mobile ma scrivere in una versione colta e controllata.

Cos’è per te l’autocommiserazione?
Un modo per nascondere la verità.