Intervista a Massimo Carlotto

Massimo Carlotto, Il francese, Mondadori, pp. 211, euro 17,00 stampa, euro 9,99 epub

La scena “nera” di Padova non ha posto per romanticismi, i suoi abitanti vanno e vengono nella città metropolitana in una miscela di sensazioni miste a arte & lavoro, studi universitari, vini, bora, e generazioni di malfattori a cui da un paio d’anni s’è aggiunta l’invisibile creatura virale. E il Francese, cerca di tenersi stretta la sua maison fatta di dodici prostitute di provincia, trattate con mano ferma e in qualche modo “gentile”. Toni Zanchetta – questo il vero nome del protagonista – è fatto così, ritiene che la forza lavorativa a lui sottoposta debba guadagnare il giusto ed essere assecondata almeno quanto i clienti: nessuno deve sgarrare, e lui sa come punire quando lo ritiene necessario. Non vuole più pensare alla tratta degli Albanesi con cui, anni addietro, era iniziata la sua carriera. I colpi delle inchieste avevano messo fine a quel commercio, e la prostituzione s’era spostata dai marciapiedi ad appartamenti e camere di hotel. Il Francese tiene alla sua clientela medio-alta, lontano dalla violenza gratuita non esita a investire i molti soldi guadagnati nella “creazione” e nella “gestione”. E Padova risponde bene, piena com’è di anime morte e vive che approfittano di competenze d’ogni genere, dalla malavita alla giustizia. Ma quando una delle sue protette scompare, quasi sotto i suoi occhi e nel buio del quartiere dove i clienti attendono, le cose cambiano speditamente. Sospettato e messo con le spalle al muro da una commissaria aggressiva e agguerrita, il macrò (così ama definirsi) vede sfaldarsi quello spazio che fino a poco prima si ostinava a rendere perfetto e inattaccabile. A suo modo di vedere, certo, ma con temeraria e faticosa capacità manageriale. Malavita e sbirri gli si concentrano addosso e il materiale scenico viene distrutto. L’intero romanzo di Massimo Carlotto è costruito sulla débâcle di un uomo alle prese con nemici di molteplici specie, mentre il consueto nero cittadino si stringe sempre più intorno alle donne della maison e al loro pappone. La provincia ricca mostra la violenza sconcia che sta dietro i muri, perentoria e insolubile. Tutto il racconto ruota intorno alle modalità di gestione, pressoché rituale, della secchezza omicida. A cui la giustizia guarda con celerità maniacale e priva di articolazioni emotive. Questo romanzo, come molti altri di Carlotto, individua l’enorme tappeto sotto al quale ama nascondersi la polvere criminale e la polvere lasciata alle spalle da coloro che agitano il male senza saperlo, o peggio, nelle spire più truci del bigottismo. Un materiale greve dove il tratto economico segna dannati e stupidi nell’identico groviglio.

Carlotto, a Nordest esiste un territorio vario, frequentarlo vuol dire passare attraverso numerose tappe, differenti fra loro, con storie e storiacce multiformi e derive: Padova è sì o no provincia?

Sì, ma anche metropoli. Un vecchio progetto denominato Patreve prevedeva strutture per trasformare Padova, Treviso e Venezia in un’unica entità territoriale. Non ha funzionato ma i veneti possono essere considerati soggetti metropolitani nel senso che abitano in un luogo, lavorano in un altro e per coltivare la socialità macinano chilometri. Il tutto all’interno di un intreccio di strade perennemente intasate da TIR perché dedicate alla circolazione delle merci. Padova ha l’università che la rende una città europea però la provincia intesa come cultura, pratica del quotidiano e del controllo sociale domina su tutto.

L’Alligatore avrebbe da dire sicuramente la sua in proposito, sulla scena nera e forse anche sulla “bianca”, ammesso che possa interessarlo. Nel Francese non ci sono felicità, e nemmeno momenti sereni. Mi chiedo quanto gli eventi lì narrati influenzino gli abitanti (no vax compresi) di Padova. La città nel suo romanzo appare avvolta in una specie di fuliggine, i luoghi vengono trasfigurati in una specie di Los Angeles in miniatura dominata da puttane e malavitosi, non certo da Santi che lì hanno uno dei loro massimi “leader”.

L’Alligatore e soprattutto Rossini avrebbero risolto in modo diverso la faccenda. Il territorio vive una contraddizione evidente. Da un lato c’è la Los Angeles in miniatura fatta di puttane e brutti ceffi, ma anche di imprenditori spregiudicati che si arricchiscono con il caporalato, che evadono le imposte, che smaltiscono illegalmente i rifiuti nocivi delle loro fabbrichette, che riciclano i soldi sporchi delle mafie e delle bande. Dall’altro ci sono i buoni. Il Veneto è la regione italiana con il maggior numero di associazioni di volontariato. E poi l’università, una vera eccellenza. E la cultura. L’elenco è ancora lungo ma il problema fondamentale è che questi due mondi convivono e non confliggono, nel senso che il secondo ignora l’esistenza del primo a cui concede il saccheggio.

Sarà banale chiederlo, ma quanto la città, di provincia o meno, ha messo nelle sue vene la radici del blues e le modalità di movimento assunte dal Francese – magnaccia passionale e protettivo, non certo terrapiattista – nelle sue gesta contro chi vuole fotterlo? Lui si definisce macrò, con un gusto retrò che lo rende a tratti perfino simpatico.

Si definisce macrò perché è furbo e conosce bene i clienti, danarosi, privi di cultura e di gusto che amano la trasgressione kitsch. Ficcando il naso nell’ambiente ho scoperto delle “offerte” che perfino in un romanzo sarebbero apparse incredibili. Più che retrò è convinto di essere profondamente moderno, un innovatore del settore. Non so se il Francese possa risultare simpatico. Quelli come lui devono essere dei manipolatori straordinari e quando li conosci, capisci che tendono a manipolare chiunque, in ogni situazione. Nel romanzo ho voluto mettere in relazione i lettori con la manipolazione, in fondo il Francese cerca di fregare anche loro. D’altronde usa ogni mezzo possibile per salvarsi. Conosce le regole e le adatta a seconda del nemico che deve affrontare.

Protettivo verso le sue pin-up, per ragioni di moneta e istinto manageriale: la morale non abita qui, malaffare e incroci forzati con i poliziotti mostrano situazioni che presuppongono angoli buissimi, e corruzioni che forse non si possono raccontare. I criminali lo tengono in vita solo per ricattarlo, e la commissaria che indaga non gli dà tregua senza (all’apparenza) nessun distinguo tra sfruttamento sessuale e assassinio.

La commissaria è un personaggio controverso che divide i lettori. Rappresenta quei poliziotti che, quando si trovano di fronte criminali di cui hanno l’intima certezza della colpevolezza ma non le prove per sbatterli in galera, pur di toglierli di mezzo, non si fanno troppi problemi a truccare le carte. Che oggi significa molto più banalmente appoggiarsi ai media, alle trasmissioni specializzate e ai social per irrobustire casi debolucci sul piano probatorio. Da punto di vista del diritto la pratica è condannabile ma alla maggioranza degli italiani, sempre di più affetti da giustizialismo come i partiti che votano, piace l’idea di ripulire le strade. Gli angoli buissimi si sprecano ma non è quello il problema. È la scelta delle politiche di repressione del crimine che non funzionano. Come accade nella prostituzione dove si è scelto il contenimento del fenomeno e non la liberazione delle donne vittime di tratta o di papponi come Toni Zanchetta.

Nel Francese tutto è avvolto in una schiuma maleodorante dove pochi riescono a tracciare qualche percorso minimamente volto a scrollarsi di dosso ambiguità e polvere. Lei di certo riesce a mettere a fuoco intelligenze restie e stanche, e realtà criminali (lo sfruttamento) che andrebbero smascherate scontrandosi con industrie forti e pericolose. Il Francese persegue un’attività minore, quasi privata, che solo il bigottismo (trasversale nella nostra Italia) preserva. Ma quando entrano in campo le forze “industriali” della droga e del commercio sessuale si fa tabula rasa di diritti e esistenze, contano solo i soldi della ricca provincia che passano di tasca in tasca e transazioni fulminee. Lei racconta tutto questo, e si capisce che vorrebbe prendere una posizione ancora più radicale all’interno della letteratura italiana. Accadrà?

Sì, nel senso che è il mio obiettivo. Poi bisogna vedere se riuscirò nell’intento. Il fatto è che nel tempo mi sono convinto di due cose. La prima è che non ha senso rivendicare un percorso nella letteratura noir se ricerca, sperimentazione, scrittura, produzione non sono lo sviluppo di un approccio teorico profondamente ancorato all’idea che viviamo in una società criminogena che sviluppa fenomeni criminali e leggi e strutture di contrasto in una spirale senza fine. La seconda è che la cultura deve essere radicale, autonoma e ribelle. Questa visione mi obbliga a lavorare in un certo modo e a immaginare un percorso “altro” che mi pone sempre più all’esterno di un ambiente letterario, pur rimanendo all’interno delle dinamiche editoriali più consolidate.

L’Alligatore perseguiva la giustizia con tutti i mezzi, leciti e illeciti, in epoca di lockdown cosa è cambiato nella sua Padova che si è trovata proprio al centro dei primi focolai? Nel territorio della criminalità, intendo, e non solo all’interno delle facoltose casate cittadine, ma anche nelle ricche e potenti comunità stabilitesi in luoghi come Abano Terme, per esempio, dove turismo e illeciti certamente la fanno da padrone.

La criminalità globalizzata è moderna, istruita e in grado di adattarsi positivamente a ogni situazione. Così è stato con la pandemia che ha creato anche in Veneto nuovi mercati, ma la manodopera della prostituzione ha vissuto un periodo veramente difficile. La maggior parte delle prostitute vive normalmente in hotel che cambiano di frequente. All’improvviso si sono ritrovate senza casa e senza clienti. Più di un capannone abbandonato è diventato rifugio (anche per i travestiti), allestendo stanzette con pareti di compensato. E a portare il cibo ci hanno pensato gli operatori di strada delle associazioni di volontariato. Ovviamente nessuno ci ha fatto caso. Gli spacciatori invece non hanno mai interrotto la fornitura con un servizio domiciliare. La storia “criminale” del lockdown deve essere ancora raccontata, le truffe dei ristori, delle produzioni farlocche di mascherine, e altro materiale medico, stanno emergendo solo ora. Tornando alla prostituzione pare che la provincia ne abbia sentito la mancanza. Nessuno vuole approfondire ma circola una voce che ritengo attendibile che diversi club di scambisti abbiano continuato l’attività durante il lockdown…

Si sa che il noir, da sempre (anche se sembra più evidente in quest’ultimo periodo) rivela e narra situazioni reali, esistenze private e socialità come forse nessun altro genere, ma davvero non esiste un altro metodo per aprire un varco e addentrarsi sotto la superficie? E occorre un profondo amore, come il suo, per la propria terra per oltrepassare certi confini sotterrati per sempre?

L’amore per il territorio alimenta il rigore nel mantenere un equilibrio tra verità e finzione nei romanzi. Per molti anni ho sostenuto che solo il noir era in grado di esplorare il reale. Oggi ho maturato un’altra convinzione e cioè che la società è diventata così complessa che un solo genere non è in grado di affrontare il compito di raccontarla. Nel noir significa iniziare a mescolare stili diversi per abbattere le gabbie imposte dal genere. Il fatto è che gli autori di noir sono più propensi a scavare sotto la superficie mentre gli altri non solo sono restii a usare in questo senso la propria letteratura ma sono contrari. Una letteratura sempre più distante dalla società e dai problemi che è impossibile evitare come l’ambiente e la sopravvivenza della specie.

Lei sta lontano dalle griffes spesso presenti nei cataloghi della narrativa nostrana, di genere o camuffata tale, la sua storia letteraria ha il respiro lungo della saga e la concentrazione della poesia quando s’incrocia alle allucinazioni quotidiane e appare la sua personale sonda, quella che sviscera i segreti della lingua e affonda lo sguardo dell’autore nei protagonisti. Teatro e sceneggiature come influiscono nella stesura di un romanzo? Lo sguardo fino a dove può spingersi?

Quando scrivo tengo sempre in mente l’immaginario del lettore, che come il mio è “nutrito” da stimoli di diversa natura: fotografia, cinema, pubblicità, televisione e molto, molto altro. Per questo fin dall’inizio della mia produzione ho voluto appropriarmi degli strumenti di altre forme narrative che poi non ho mai smesso di praticare: il teatro, il fumetto, la sceneggiatura. Oggi ognuna è al servizio delle altre e quando scrivo impongono la loro presenza arricchendo ma pretendendo anche possibili spazi autonomi di sviluppo.

Tempo presente e tempo futuro in ogni suo romanzo sono disposti in modo che possano risalire alle coscienze fatti e storie dimenticate per cui il destino è stato inchiavardato: come pensa che il parlarsi torni a livelli accettabili togliendo di mezzo le follie che quotidianamente ci invadono? Parlare e leggere hanno un punto d’incontro?

Sì, ma solo in quel mondo ristretto e privilegiato che usa l’oggetto libro per comprendere e crescere ponendo l’umanità al centro dell’esistenza. Gli altri mondi vivono con altre regole e praticando altri approcci alla vita propria e collettiva. Le follie prosperano ed è troppo tardi per contenerle. Con la pandemia ci siamo resi conto per la prima volta che il dialogo è impossibile tra gruppi che esprimono convinzioni apparentemente basate su certezze scientifiche. Il confronto è solo “interno”, con persone che condividono le nostre stesse idee. Tribù con tratti antropologici più o meno privi di senso. Un livello accettabile di confronto è un obiettivo lontano, da costruire con pazienza e badando ai rapporti di forza per non essere spazzati via. E la letteratura avrà il suo bel daffare.