Nel suo romanzo d’esordio Laura Marzi ci fa entrare nel mondo della scuola da quella che potrebbe sembrare una porta di servizio, ovvero attraverso il racconto di ciò che accade durante le ore della materia “che si definisce per il suo contrario”: la materia alternativa alla religione cattolica che dà il titolo al libro, appunto. Eppure, una volta dentro, ci accorgiamo di essere invece osservatori privilegiati, che possono beneficiare di un punto di vista tanto insolito quanto efficace. Tra i banchi improvvisati in aula–video, in palestra o in mensa, dove la professoressa approda insieme a chi non partecipa all’ora di religione, conosciamo da vicino Hossein, Amal, Safia, Maya, Meng e gli altri suoi alunni, che spesso sono stranieri, parlano poco l’italiano e fuori da scuola si ritrovano a vivere situazioni complesse, spacciano o devono fare da genitori ai propri fratelli.
L’io narrante è una donna di trentasette anni, tanto forte e decisa in aula quanto fragile e caotica nella vita privata, dove si ritrova, portando sulle spalle il pesante bagaglio del rapporto con una sorella tossicodipendente, e a praticare “la materia alternativa all’amore”: in un rapporto non cerca la stabilità ma una distrazione, e se esiste il rischio di un eccessivo coinvolgimento, tronca.
Precariato lavorativo e precariato amoroso vanno di pari passo per tutto l’anno scolastico in cui seguiamo la professoressa dentro e fuori dalla scuola, tra le lezioni su sessismo, razzismo e classismo in cui coinvolge i suoi alunni senza mai giudicarli, e gli incontri fugaci con gli uomini che invita nella sua casa-garage di diciotto metri quadrati per chiacchierare, starci insieme, fare sesso. Finché un incontro non la porterà a interrogarsi sul senso di una libertà strenuamente difesa che rischia tuttavia di diventare una prigione per la solitudine a cui porta, sull’età adulta e sulla (inevitabile?) trasformazione dei sentimenti.
Il romanzo ha un ritmo velocissimo, scandito da capitoli brevi che danno vita a un mosaico di istantanee, di immagini fuggevoli dai colori vivaci catturate da una voce al contempo ben definita e discreta, capace di restituire in una battuta, in un accento o nella precisa descrizione di un gesto le diverse personalità dei ragazzi che la protagonista incontra.
Un esordio, quello di Marzi, coinvolgente e capace di porre in modo attuale questioni antiche come quella del rapporto tra scuola e mondo reale, ma anche di far riflettere sulle specificità e i punti critici della scuola di oggi (dai contratti precari alla cronica mancanza di fondi) e, soprattutto, in grado di mettere al centro, senza mai usare toni giudicanti, le ragazze e i ragazzi. E se, con la sua persona irriverente e aperta, la professoressa di alternativa che sceglie di dedicare le proprie ore a parlare di tematiche come bullismo, razzismo e sessismo – vissute in prima persona dagli studenti eppure quasi per nulla affrontate in classe –, offre agli alunni risposte e una figura su cui contare, nel lettore il suo personaggio feconda una serie di domande che, pagina dopo pagina, fanno sì che il romanzo non si concluda con l’ultima riga, perché si ha voglia di parlarne ancora. Ecco, dunque, la conversazione di Pulp Libri con l’autrice.
***
Nel libro la protagonista, insegnante di materia alternativa, sceglie di dedicare le proprie ore a parlare con i ragazzi di temi come razzismo, sessismo, bullismo, classismo, generalmente ignorati o trattati con approssimazione dai suoi colleghi, mettendo in luce la distanza che separa il mondo della scuola da quello reale in cui vivono i ragazzi. La professoressa del romanzo occupa questo vuoto in maniera eccellente, ma del tutto personale. In che modo, secondo lei, la scuola può recuperare questa distanza in modo strutturato e organizzato – se può?
Attualmente a scuola c’è l’obbligo di insegnamento dell’educazione civica, attraverso un percorso trasversale, quindi condotto nelle varie discipline, con tanto di valutazione comune. Si tratta di una buona iniziativa, ma permane il rischio che gli alunni e le alunne vengano sommersi da imperativi morali (contro il bullismo o la violenza di genere, per esempio) o da rischi catastrofici (relativi al cambiamento climatico), senza essere mai davvero interpellati e quindi coinvolti. Ultimamente penso che la scuola più che colmare una distanza la debba ricostituire: se fosse un luogo di apprendimento e conflitti, di cultura e umanità, senza scivolamenti paternalisti, con margini ampi di protezione rispetto alle ingerenze dei genitori e quindi spazio per la sacrosanta ribellione dei giovanissimi sarebbe un miracolo. Nella letteratura, nella storia, nella matematica, nella fisica c’è tutto ciò che la prof di materia alternativa del mio romanzo insegna ai suoi alunni: il classismo, il sessismo, l’infondatezza del razzismo e delle discriminazioni religiose, la particella di Dio… Forse l’unica distanza che la scuola dovrebbe colmare è quella che la separa dall’obbiettivo di creare dei cittadini e delle cittadine consapevoli e non degli eterni marmocchi sotto controllo.
Nella sua biografia leggiamo che, come la protagonista, anche lei ha insegnato materia alternativa. Quanto c’è di autobiografico nel romanzo?
Ho insegnato materia alternativa alla religione cattolica e ho un dottorato in studi di genere. Ho lavorato davvero coi miei alunni e le mie alunne sulle tematiche che si trovano nel romanzo. E allo stesso tempo ho creato una donna, la prof, che condivide con me delle esperienze, l’insegnamento appunto, che ha una personalità diversa dalla mia e uno sguardo sul mondo che non mi appartiene e che per me è stato davvero interessante incontrare, scrivendo. E poi lei ha un gran successo con gli uomini!
I capitoli brevissimi sono come tante polaroid che costituiscono un mosaico di istanti, di parole catturate e di riflessioni fulminee, che nell’insieme danno vita a un coro di voci e di pensieri. Quali sono stati i suoi modelli letterari nella stesura di un’opera così diretta, che sembra quasi il negativo fotografico di un romanzo di formazione?
Amo la prosa stringata, la condensazione, la scrittura di Alice Munro, Ernest Hemingway, Flannery O’Connor, Valeria Parrella.
Sempre a proposito di modelli e riferimenti: la protagonista cita L’attimo fuggente, e in effetti la figura del professore/professoressa fuori dagli schemi che riesce a entrare in contatto con alunni difficili è un tipo di personaggio molto presente nel cinema come in letteratura. In cosa crede che la sua protagonista somigli e in cosa invece si discosta dai professori di quel filone narrativo?
C’è un dato di fatto che si impone come grande differenza: quegli insegnanti che sono diventati dei personaggi mitici non sono certo dei precari! L’insegnamento è la loro professione, uno status sociale raggiunto anche e soprattutto grazie al fatto che sono dei professori molto bravi. La protagonista del romanzo è preparata, è una buona docente, ma il sistema italiano la emargina. Ciò che è invece uguale in lei e in tutti gli insegnanti veri o immaginari che amiamo è l’equilibrio tra la capacità di accogliere il punto di vista e le esperienze dei ragazzi e quella di fornire limiti e confini, non arbitrari, ma fondati sullo studio e le conoscenze.
La libertà assoluta: traguardo o trappola?
Illusione direi. Non esiste la libertà assoluta, almeno in vita, poi non lo so… Certo la libertà è un’aspirazione da non tralasciare, che paradossalmente va perseguita con enorme disciplina, perché non diventi una trappola o peggio un’arma contro se stesse e gli altri, sapendo però che in una mappa immaginaria la libertà confina di certo con la terra della solitudine e con l’impero del dubbio.
La politica è sottesa in tutto il romanzo ma non è tra gli argomenti trattati esplicitamente dalla protagonista nella materia alternativa, eppure in tempi non lontani la scuola era un terreno più che fertile per le discussioni politiche. Perché la scelta di tenerla “in sottofondo”? Cosa è cambiato secondo lei nella percezione della politica da parte dei ragazzi, e dei professori?
È uno dei tasti più dolenti e significativi. I ragazzi e le ragazze hanno una concezione della politica che è figlia del loro tempo e conseguenza degli insegnamenti che hanno ricevuto in proposito. Molte persone in Italia, tanti genitori e docenti, credono che la politica sia malaffare, inciucio, ingiustizia. La politica è gestione della cosa pubblica, dovrebbe essere luogo di ideali e della loro messa in pratica, esercizio al confronto con persone diverse e all’ideazione del compromesso. Ecco, questo sì che andrebbe insegnato a scuola!
Quali sono i suoi prossimi progetti in ambito letterario?
Vorrei raccontare di una donna troppo seria e indagare la vita adulta.