Intervista a Giulio Mozzi su “Le ripetizioni”

Giulio Mozzi, Le ripetizioni, Marsilio editore, pp.368, euro 17 stampa

Cominciamo dall’oggetto: l’immagine di copertina mi sfugge completamente. Perché il quadro del Grande Artista Sconosciuto (Gas, uno dei personaggi del libro) che peraltro è, secondo le tue parole, scritte in un post sulla genesi del romanzo, una delle due visioni che ti hanno accompagnato nella composizione e stesura del libro per ben 23 anni, non compare nella copertina e compare all’interno in un mortificante b/n?

Ti dirò: per molto tempo ho pensato al quadro di Claudio Laudani Discorso attorno a un sentimento nascente come all’unica immagine possibile per la copertina del romanzo. Addirittura, nel punto del testo in cui arrivavo a nominare il quadro c’era un inciso: “(che vedete riprodotto nella copertina di questo libro”). Mi divertiva, confesso, il gioco sul “dentro” e il “fuori” del libro. Ma poi accaddero tre cose. Uno: l’editore trovò quel quadro poco adatto alla copertina, per motivi squisitamente grafici: e la copertina, si sa, è territorio dell’editore. Due: mi ricordai di un passaggio del primo romanzo di Daniele Del Giudice, Lo stadio di Wimbledon, nel capitolo cinque, dove il protagonista-narratore (che nei capitoli precedenti si è addormentato in vari luoghi) dice: “Più tardi apro un romanzo pieno di puntini di sospensione tra una parola e l’altra; ogni tanto quei puntini sono un vuoto allo stomaco, come superando una cunetta in macchina. Ad uno di quei dossi non torno più giù, e per la prima volta in questo libro mi addormento anche in un letto”; e mi ricordai che quel “per la prima volta in questo libro” mi aveva infastidito, come una leziosità. Tre: mi interrogai – forse per la prima volta seriamente, essendo ormai in vista della pubblicazione – sulla natura precisa della relazione tra alcuni personaggi del romanzo e le persone reali dei quali tali personaggi sono, più o meno manifestamente, trasfigurazioni. Queste tre cosette mi persuasero che il quadro doveva stare dentro al romanzo, non fuori; e dopo qualche tentativo decisi che la posizione giusta era quella, per così dire, dell’esergo. Quanto al bianco e nero, allargo le braccia: non me la sono sentita di chiedere all’editore una pagina a colori.

La copertina effettiva, poi, ha una sua storia. L’editor, Chiara Valerio, scelse inizialmente un quadro di Lucian Freud, uno dei tanti autoritratti, apparentemente incompiuto, bellissimo e azzeccatissimo. Poi si scoprì che non lo si poteva usare – gli eredi non concedono i diritti se non per libri che parlino espressamente di Lucian Freud – e si ripiegò su un quadro di Francis Bacon: bello, ma non il miglior Bacon, e non mi convinceva in pieno. Proposi un dettaglio di un quadro del Giorgione, il cosiddetto Autoritratto come Davide. La cosa restò un po’ in sospeso. A pochi giorni dalla stampa si scoprì che anche acquisire i diritti del Bacon era complicato – Claudio Panzavolta, l’ottimo redattore, mi accennò a un misterioso problema con titolari di diritti australiani – e forse avrebbe richiesto troppo tempo. Allora tornò alla ribalta il Giorgione; ma qualcuno, in casa editrice, non so esattamente chi, forse il grafico Stefano Bonetti, tirò fuori questo giovinetto, non di mano del Giorgione ma della sua cerchia o scuola, ancora più appropriato dell’Autoritratto proposto da me. Ci domandammo per qualche secondo se non avremmo potuto indurre il potenziale lettore in confusione – c’è sempre l’effetto “romanzo storico” in agguato – e poi decidemmo serenamente di correre il rischio. Per di più l’opera è di proprietà di un museo col quale l’editore ha costanti e buoni rapporti, e quindi l’acquisizione è stata facile.

Naturalmente mi sono interrogato, diciamo ex post, sul senso di quella copertina. L’autoritratto incompiuto di Freud era parlante: rappresentava l’incompiutezza, e la drammaticità, del protagonista Mario. Ma il giovinetto? Eh, il giovinetto è inquietante. Qualche lettore l’ha identificato con Santiago. Io non ho fatto identificazioni. È inquietante, quello sguardo, e tanto mi basta.

E poi il bel titolo, Le ripetizioni, azzeccatissimo per il romanzo per come è costruito e il ritorno di ossessioni e di personaggi – a cominciare da Mario – già comparsi nei tuoi racconti, il numero 17… Hai trascinato dentro tutto?

È dagli anni Novanta che convivo con un certo immaginario. E sì, hai usato la parola giusta: ho trascinato dentro tutto. Volevo, quell’immaginario, metterlo intero dentro una forma, e poi staccarlo da me. Se la scrittura per vent’anni è rimasta in sospeso, se per vent’anni ho proceduto a tentoni, è perché non avevo ancora avuta l’intuizione della forma. La ripetizione, appunto.

Una cosa spettacolare del libro è sicuramente il montaggio dei vari capitoli con tutte le variazioni linguistiche, piccoli spostamenti e ripetizioni di cui sopra, che ha qualcosa della composizione musicale. A me fa venire subito in mente Einstein on the Beach di Glass, ma viene in mente anche Perec, ad esempio, e i suoi montaggi impeccabili. Insomma mi ricorda quel tipo di romanzi lì.

Guarda: la mia prima passione è la musica, non la letteratura. Solo che per la musica non ho alcun talento produttivo, e quindi mi limito ad ascoltarla. Fin dagli anni Ottanta mi ha molto attratto quella musica che allora si chiamava “ripetitiva” e che poi è stata nobilitata in “minimalista”: più Steve Reich che Philip Glass, a dire il vero, ma siamo da quelle parti. Ho comunque ascoltato molta musica “classica” del Novecento – i primi dischi che acquistai, a diciannove anni, furono Le sacre du printemps di Stravinskij, Trans di Stockhausen e …sofferte onde serene… di Luigi Nono. E per “capire” la musica del Novecento, c’è poco da fare, bisogna avere un po’ di curiosità per i processi compositivi: se non altro perché sono processi diversi da quelli della musica “classica classica”, che per così dire fin dalla nascita impariamo a cogliere istintivamente. Un libro che mi guidò a lungo nelle mie esplorazioni fu la Guida all’ascolto della musica contemporanea di Armando Gentilucci, lodevolmente pubblicato da Feltrinelli: che proprio sulla descrizione dei processi compositivi fondava la propria potenza divulgativa. Come lettore frequentai molto, fin da ragazzo, la cosiddetta neoavanguardia: e, si sa, il lavoro delle avanguardie (letterarie o no) è consistito in buona misura nell’inventare, o nel proporre, nuove procedure compositive. Tu citi Perec, giustamente, e io lo amo molto; ma piuttosto, nella mia mente, si sono sedimentate negli anni, e si sono attivate mentre lavoravo alla rifinitura delle Ripetizioni, le letture dei romanzi di Edoardo Sanguineti (Capriccio italiano, e soprattutto Il giuoco dell’oca) e di Nanni Balestrini (soprattutto il Tristano). E non sarà un caso se, in poesia, mi affascinano le forme chiuse, anche le più complicate come la sestina…

Ti dico subito una cosa: le parti di violenza (peraltro quasi interamente legate al sesso e forse anche questo non è secondario e mi piacerebbe ne dicessi qualcosa) non mi fanno davvero paura. Nel libro si lascia al lettore decidere se sono “vere” o se sono proiezioni e immaginazioni di Mario. Propendo decisamente per l’immaginazione, e – ti chiedo – l’immaginazione, anche quando è spaventosa, è “male”? Cosa ha a che fare con la realtà e con il male “vero”? 

Tu lo sai che, a proposito di un romanzo, domandarsi che cosa sia “vero” e che cosa sia “non vero” in ciò che viene raccontato – è una domanda folle. Eppure è una domanda naturale. Nei racconti che ho scritti e pubblicati tra il 1993 e il 2001 ho spesso messo in scena dei personaggi deliranti: vedi il racconto Il bambino morto (in La felicità terrena), dove una madre, dopo la morte del figlio, continua a vivere come se il bambino fosse lì con lei: gli prepara da mangiare, lo porta all’asilo, riuscendo a imporre il proprio delirio anche ai nonni, alle maestre, eccetera. Nelle Ripetizioni non ci sono, che io sappia, segnali testuali che autorizzino il lettore a decidere che certi episodi sono “veri” mentre altri sono “immaginari”, e tuttavia vi sono episodi la cui “esistenza” è incompatibile con quella di altri. Per esempio: quando Bianca si sottrae a Mario, sparisce per sei anni – come si racconta in un capitolo – o rimane in contatto con lui – come si racconta in un altro? Il tenore realistico delle due narrazioni è il medesimo. Insomma: qui non abbiamo un personaggio che trasforma una “realtà” in un “delirio”: abbiamo una narrazione che in sé è delirante. O, se preferisci, abbiamo una “realtà” che si presenta come un fascio di variazioni (e siamo di nuovo alla musica).

Il sesso è uno dei luoghi della massima intimità e della massima fiducia reciproca; ed è il luogo nel quale le persone si riconoscono, si donano, si accettano pienamente. Ma Mario (e Santiago, e in parte anche Bianca, e in parte anche Viola) è un personaggio che, per così dire, non ha nemmeno accesso a sé stesso: nonostante il suo continuo riflettere, riflette su di sé come su una cosa estranea. Niente da stupirsi, quindi, direi, se la sessualità vera gli resta inaccessibile.

“Discorso intorno a un sentimento nascente” di Claudio Laudani (nel romanzo GAS – Grande Artista Sconosciuto)

Oltretutto quando nel romanzo compare la figura di uno che il male l’ha fatto davvero, il generale Cadorna, quello della prima guerra mondiale, Mario conclude, “che nella testa del generale Cadorna, in realtà, non si è mai prodotto nessun pensiero”.

 Una delle forme del male è la stupidità.

Mario è un personaggio sempre uguale, entra nel romanzo così un po’ vile un po’ pedante ed esce uguale. L’esperienza non lo tocca. Qualunque siano le sue esperienze reali o immaginarie. A parte due cose che mi paiono invece più significative per lui: il rapporto con i genitori e con il “mistero” del loro amarsi e il suo lavoro. La meticolosità così affettuosa che Mario ha con il lavoro e con l’apprendimento artigianale, proprio concreto, della scrittura che poi gli serve per creare i suoi mondi che di concreto non hanno nulla perché comunque lui rimane nella sua bolla. E forse anche quando è morta Lucia…

Nel corso del romanzo Mario incontra spesso la possibilità di uscire dal suo essere-sempre-uguale, ossia dal destino di ripetizione. Un lettore mi ha detto: è stato il trauma della morte di Lucia a “bloccare” Mario. Io sono poco propenso alle spiegazioni psicologistiche. Ma certamente l’amore per Lucia è, nel romanzo, una chance di uscita dalla ripetizione. Che Mario non coglie. Così come non coglie la chance che gli offre il Capufficio, l’uomo che avrebbe potuto scegliere come maestro – e non ha scelto. Così come non coglie il dono del Gas, il Grande Artista Sconosciuto, che con il quadro Discorso attorno a un sentimento nascente gli crea davanti agli occhi una grande scena di rinascita – e che comunque, nelle loro fitte conversazioni, gli propone una visione del mondo e della vita completamente diverse.

Dicevo che l’immaginazione di Mario non mi fa paura ma invece fa paura e anche un po’ ripugna un flâneur delle passioni come Mario, uno che costruisce mondi di parole e proietta fuor di sé le proprie parti oscure (e tanti dei personaggi sembrano sue proiezioni, in particolare la figlia che ha anche lo stesso argomentare di Mario) senza riuscire a entrarci in connessione, senza la capacità di empatizzare neanche con la propria immaginazione.  Senza passioni. Lo stesso Santiago che, mi viene da dire, fa la parte del “diavolo” sembra esente da passioni, anche quelle negative. Il rapporto fra Mario e Santiago, di sottomissione e dominazione sessuale, è formalmente “perfetto” ma in un certo senso “purificato”, decisamente freddo da tutte e due le parti. È una cosa voluta?

Certo: la sottomissione di Mario a Santiago (ma attenzione: anche quella di Mario a Bianca, o il badare ai genitori…) è semplicemente un comportamento, una pratica. Una cosa che si fa. L’unica relazione nella quale Mario sembra un po’ lasciarsi andare, ma appena un poco, è forse quella con Viola, la donna che potrebbe sposare. Viola ha pure lei la sua “parte oscura”, ma riesce a tenerla quasi perfettamente separata. Mario invece non ce la fa, mentre vive una delle sue vite ne ha un’altra che ci trabocca dentro, tutto è confuso. Ma, en passant: chi te l’ha detto, che la lettera al padre che tu attribuisci ad Agnese sia effettivamente di Agnese? Il testo non lo dice, e questa attribuzione scatena alcune contraddizioni: com’è possibile, se l’autrice della lettera è Agnese, che Mario incontri casualmente un’Agnese ventenne in treno, senz’essere sicuro che sia lei e senza che lei lo riconosca; e com’è possibile che – in un tempo indeterminato – una Bianca, madre di Agnese, ormai completamente fuori di testa, si presenti a casa di Mario e racconti che Agnese è stata messa in un istituto e poi data in adozione? Altri lettori hanno attribuito la lettera a Viola, ma anche questa attribuzione presenta dei problemi. La realtà è variabile, la realtà è un fascio di variazioni.

L’altra cosa che mi colpisce della tua indagine sul male ne Le ripetizioni, è che il male in un certo modo non ha una valenza universale, non vuole suscitare indignazione, e quindi un moto di “ribellione”, viene semplicemente mostrato e offerto su un piatto è come se fosse senza significato e senza uscita, sarebbe questo quello che tu chiami “il male naturale” (titolo di una raccolta di racconti)?

Io racconto storie. Il mio scopo non è affermare qualcosa che abbia valenza universale, non è suscitare indignazione, non è educare e istruire. Il mio scopo è: far arrivare chi legge fino in fondo alla storia.

L’altro grande tema che attraversa il tuo romanzo è quello della fotografia – presente in parecchi capitoli (con la significativa idea che “ritorna” che nella fotografia si rappresenti solo colui che rappresenta…) e che credo sia legato anche a ciò che dà il via al romanzo, che è innestato su un falso ricordo (il profumo del bosso), quasi una madeleine proustiana ribaltata di segno. 

Ti ricordi i “replicanti” di Blade Runner? I fabbricanti di umanoidi li fornivano, per dare loro un certo equilibrio psichico, di falsi ricordi; e di “prove” della loro illusoria vita precedente, consistenti in fotografie. Il quotidiano il Giornale ha fatto, credo inavvertitamente, un gesto interessante: ha pubblicato una recensione delle Ripetizioni corredandola di un mio ritratto del 1993, scattato dal fotografo Basso Cannarsa: che è descritto nel romanzo, con tanto di nome e cognome del fotografo, come ritratto di Mario. Ma spacciare una mia fotografia del 1993, cioè di ventotto anni fa, come se fosse un mio ritratto attuale – il lettore del quotidiano, com’è ovvio, considererà quel ritratto come attuale – è un falso bello e buono. “Non son chi fui, perì di noi gran parte”. Ma il bello è che quella fotografia appare solo nell’edizione digitale del Giornale: l’edizione a stampa ne riporta un’altra, un mio autoscatto del 2018 (in cui ho un sacco di rughe in più, naturalmente). La realtà è un fascio di varianti: uno che veda entrambe le edizioni del Giornale dovrebbe porsi il problema di quale sia il Giulio Mozzi giusto; e chi vedesse la fotografia del 1993 dopo aver letto il romanzo inevitabilmente si domanderà (domanda “folle” anche questa) che cosa ci sia di “vero” e che cosa di “inventato” nel romanzo stesso… Se, come avviene nel primo capitolo delle Ripetizioni, una percezione può suscitare un ricordo “falso” che ne fa emergere molti altri “veri”, allora dico: e se l’intero romanzo fosse, semplicemente, una macchina il cui scopo è suscitare nella mente di chi legge una storia che non è quella scritta nel romanzo stesso? (Ossia, una storia “falsa”).

In un tuo post dici che hai finito di scrivere il libro mentre guardavi compulsivamente la serie tv BoJack Horseman: mi incuriosisce davvero molto questa cosa, come è entrata nel tuo libro questa serie tv?

BoJack Horseman è una serie pregevole per molte ragioni, non ultima l’eccellente montaggio. Che ci porta talvolta a non sapere esattamente che cosa sia accaduto davvero. Ti ricorda qualcosa? E il protagonista, BoJack, per settantasei puntate cerca insistentemente di cambiare senza mai cambiare davvero. Ti ricorda qualcosa? Anche la conclusione – l’ultima, commovente conversazione con Diane sul tetto, sotto a un cielo pieno di stelle – non dà alcuna certezza.

Un’ultima domanda. Questo è il tuo primo romanzo e ci hai messo, come detto sopra, ventitre anni a portarlo a compimento. Una domanda sorge spontanea: perché uno scrittore di racconti scrive un romanzo? Con quella chiusa “Adesso basta”…

Nel 1970 Nelo Risi pubblicò nello Specchio di Mondadori un libro intitolato: Di certe cose che dette in versi suonano meglio che in prosa. Io ho fatto: dei libri di racconti-racconti, alcuni dei quali peraltro (nel Male naturale) in versi; dei libri che mischiano alla prosa il verso (Fantasmi e fughe, La stanza degli animali); dei libri tutti in versi; un libro che mescola versi, fotografie, e riproduzioni di testi (Il mondo vivente), un libro come Favole del morire che mette insieme di tutto, dal teatro al teatro musicale alla novella alla profezia. Ogni immaginario ha bisogno di trovare la forma adatta a contenerlo. Avevo un immaginario che poteva stare in un romanzo meglio che in una serie di racconti: quindi ho fatto un romanzo. Che è – non è che non lo sappia – un romanzo assai poco conforme, ma è pur sempre, e ci tengo tantissimo a dirlo, un romanzo. La forma-romanzo è una delle forme più plastiche inventate dalla civiltà europea, e sono romanzi tanto l’ennesimo giallo o rosa da edicola quanto il Farabeuf di Salvador Elizondo o il Super-Eliogabalo di Arbasino. Anche Le ripetizioni è, orgogliosamente, un romanzo.