Daniele Mencarelli, poeta e narratore capace di incantare con le profondità e le vette di un linguaggio puro quanto vivo, torna in libreria con l’ultimo romanzo della trilogia idealmente autobiografica iniziata con La casa degli sguardi (2018) e proseguita con Tutto chiede salvezza (2020), tutti pubblicati da Mondadori.
Sempre tornare è la storia di un viaggio che contiene molti viaggi e incrocia molte strade, reali e metaforiche: Daniele ha diciassette anni e, dopo una brutta serata in quella che avrebbe dovuto essere la sua prima vacanza con gli amici, lascia i compagni e parte, da solo e dimenticando il portafogli, dalla Riviera Romagnola in direzione Roma. Lo aspettano due settimane in autostop, senza soldi e senza documenti, attraverso l’Italia dell’estate del 1991. Due settimane in cui per spostarsi, mangiare e dormire dovrà chiedere aiuto alle persone che incontrerà lungo il percorso: donne e uomini diversissimi tra loro e tuttavia accomunati, nel gesto dell’offrire cibo e rifugio a Daniele, dall’impulso di mostrarsi a lui per quello che realmente sono, in un disvelamento intimo e spesso spiazzante.
A Pulp Libri l’autore racconta del suo rapporto con la scrittura, con l’ignoto e di qualche piccolo peccato di gola.
Sempre tornare è dedicato “Ai lottatori. Ai pazzi. Agli sconosciuti”. Non sempre, tuttavia, gli sconosciuti che Daniele incontrerà nel suo viaggio gli riserveranno belle sorprese. Vale comunque la pena tentare di andare incontro agli “sconosciuti” (intesi come persone, ma anche come idee o modi di vivere lontani dai nostri) o è un’impresa idealista riservata, appunto, ai “lottatori e ai pazzi”?
Sì, vale sempre la pena, perché è vero che l’incontro con ciò che è al di fuori del nostro perimetro umano può anche riservare sorprese negative, ma quella che emerge nei tre romanzi è un’umanità per lo più benigna, che spesso è semplicemente alle prese con una serie di problemi piccoli e grandi che riguardano un po’ tutti. Quindi secondo me sì, vale sempre la pena andare incontro a ciò che non si conosce. Purtroppo oggi troppo spesso partiamo da un presupposto totalizzante in senso contrario, in cui l’incontro con lo sconosciuto è già di per sé un evento negativo, ed è questa per me la cosa veramente grave.
Lei è, prima di tutto, poeta. Ne La casa degli sguardi scriveva che “la poesia lo testimonia il dolore, non lo cura”: cosa significa per lei essere poeta in relazione al dolore, alla sofferenza e al male che, come ha dichiarato in una recente intervista, “non è una condizione di normalità”?
Io credo che la letteratura, e in particolare la poesia, sia per l’uomo la forma più alta e più nobile di condivisione. Poco fa mi trovavo in un centro di salute mentale per un corso di scrittura; lì, al termine dei miei incontri, leggo sempre Camillo Sbarbaro, perché Sbarbaro, nell’offrire il suo dolore, consente, a me e a tutti i suoi lettori, di specchiarsi e di sentirsi meno soli. In fondo, la testimonianza del dolore è ciò che permette agli altri di ritrovarsi dentro una condizione condivisa e di uscire da quella solitudine che fa del dolore una specie di accanimento assolutamente singolare, quando spesso non è così. E, soprattutto, è ciò che permette di fare del dolore una lingua di scambio, qualcosa che non è solo mio o tuo, ma che appartiene alla natura dell’uomo. È questa per me la testimonianza più alta della poesia: fare del dolore un elemento comune che può essere condiviso e che, dal momento in cui è condiviso, può essere meno gravoso, meno feroce.
La poesia sembra affacciarsi anche nei suoi romanzi. C’è contaminazione per lei tra poesia e prosa o sono linguaggi totalmente diversi?
Ogni epoca in ambito letterario ha tessuto i suoi assolutismi, i suoi dogmi. Noi viviamo in un’epoca in cui narrativa e poesia sono discipline a sé stanti e divise. Per me non è così. Normalmente un poeta tende a credere più al particolare quando descrive, a essere più retorico, a lavorare più nella scelta della singola locuzione che dal suo punto di vista descrive molto più di pagine e pagine di narrazioni. Per me sono linguaggi che possono dialogare, almeno io umilmente provo a farli dialogare. C’è però qualcosa che secondo me non è lo scrittore a scegliere, ma che dipende dalla circostanza che ci è data da vivere. Io credo che dentro certe realtà la prosa e la narrativa non possano arrivare. Non è un caso che la guerra sia da sempre stata descritta più dai poeti: ci sono dei luoghi in cui la narrativa non arriva, e questi sono i grandi luoghi del dolore. A me piace pensare che non siano tanto gli autori a decidere i registri, ma che siano le circostanze che vanno a raccontare a scegliere per loro.
Sempre tornare è, tra le altre cose, anche un testo da cui traspare un impegno politico, dove il tema del lavoro è in primo piano. Cos’è cambiato secondo lei in questo senso dall’inizio degli anni Novanta in cui è ambientato il romanzo a oggi, e quale cambiamento auspicherebbe per i lavoratori?
Nel romanzo compaiono tanti lavori, da Annamaria che fa la sarta ad Amin che viene sfruttato da una ragazza ricca e viziata, fino a Veleno che fa forse il lavoro più bello, a contatto con la terra. E poi c’è l’esempio più negativo, più sconvolgente, che è quello di Manlio, un ragazzo divorato dal lavoro. Facendo un confronto col presente, oggi il mondo del lavoro vive mille nuove modalità di sfruttamento che ancora bisogna iniziare a raccontare veramente: penso ai rider ma anche a tutti coloro che vengono sfruttati in ambito di comunicazione e di scrittura. Io credo che l’uomo sia anche il lavoro che fa, e spero sempre che si torni un giorno a quella forma meravigliosa in cui un individuo possa vivere il proprio lavoro non come le otto ore che in qualche maniera sacrifica per la sopravvivenza, ma che quelle otto ore siano una forma di grande espressione del proprio io, di sé. Mi rendo conto che oggi è molto difficile, anche rispetto alle discipline che riguardano la scrittura, che è un ambito di grandi sfruttamenti: esplodono da tutte le parti migliaia di corsi e nessuno si pone l’obbligo morale di capire se queste figure che si vanno a formare avranno poi delle opportunità professionali. E invece questo ce lo dovremmo un po’ chiedere tutti quanti.
Il cibo è al centro di molte scene del romanzo: qual è il suo rapporto con il cibo e in che misura il modo in cui mangiamo si riflette sulla nostra vita, e viceversa?
Nel libro ci sono molti interni domestici, e i piatti raccontati sono semplici, niente che vada oltre quella meravigliosa normale amministrazione enogastronomica del nostro paese – una frittata alle cipolle, un piatto di pasta guanciale e peperoni… Più passa il tempo più credo che in fondo l’uomo sia anche governato e si governi rispetto a quello che mangia. Forse perché quello del cibo è ancora oggi il mio unico elemento di dismisura rispetto alle regole, e se c’è un ambito in cui ogni tanto lascio un po’ gli ormeggi e mi lascio andare è proprio questo. Siamo anche quello che mangiamo. Esistono cibi che raccontano meglio di mille parole la nostra estrazione, i nostri luoghi, i nostri interni familiari che emergono anche attraverso le pietanze: i piatti fanno parte del nostro lessico familiare e parlano del nostro territorio, che non a caso ci invidiano un po’ da tutto il mondo. Nel caso specifico, l’Umbria e tutto il centro Italia è un territorio che parla anche attraverso la cucina.
Daniele nell’ultimo romanzo è giovanissimo, appena diciassettenne, eppure appare molto sicuro di sé e del proprio sentire, anche più sicuro del Daniele protagonista dei due romanzi precedenti, in cui lui è più grande. Cosa si perde – se si perde – crescendo ed entrando nel mondo degli adulti?
Lui è pieno di una certezza che però è adolescenziale, fallimentare. È un ragazzino che si pone di fronte all’esistenza con una sicurezza e una determinazione che lo esporranno a tutti i fallimenti a cui andrà incontro nei libri successivi. Un uomo che pensi di poter arrivare a delle risposte definitive non che è un ragazzo: credo che la perdita delle certezze dell’adolescenza sia un passo necessario, iniziatico. Daniele parte da certezze illusorie che perderà nel corso di questo e degli altri due romanzi. Quello che manterrà, invece, è la grande domanda rispetto al mondo, al suo significato, e la certezza che da soli non si arriva da nessuna parte. Davanti ai grandi temi dell’esistenza, l’uomo è fatto per le domande.
Sempre tornare è l’ultima parte della trilogia. La conclusione di questo romanzo segnerà anche l’abbandono della narrazione in prima persona?
Sto iniziando a lavorare a cose nuove, forse mi congederò dalla prima persona. L’idea è quella di passare a una fase di scrittura che preveda la terza persona. Nei tre romanzi la sovrapposizione tra io narrante e io scrivente è assoluta, quindi sì, è probabile che dovrò fare i conti con nuovi registri. Credo nei segni e questa domanda arriva proprio quando mi sto interrogando sul da farsi. Lo prendo come un segno e vi farò sapere.