Intervista a Carlo Modesti Pauer su La storia criminale del cristianesimo di Karlheinz Deschner

La Storia criminale del cristianesimo è un’opera monumentale: dieci volumi che analizzano i delitti compiuti dalla “religione dell’amore” dalle origini in Palestina e dopo la presa di potere a Roma, fino al XVIII secolo e alla progressiva separazione fra Stato e Chiesa. Come hai scoperto il libro e perché hai deciso di curarne la traduzione e la diffusione in Italia?

Seppi dell’opera attraverso la traduzione in spagnolo dei primi due volumi, che mi sono stati raccomandati da conoscenti catalani e italiani. All’epoca, intorno al 1996-97, in Germania le pubblicazioni avevano appena superato il giro di boa e la Spagna rincorreva. Dal mio punto di vista, la questione cattolica in Italia è sempre stata politicamente sottovalutata dalle forze progressiste e laiche, le quali hanno sempre operato all’interno di una visione ideologica deformata, in un senso o nell’altro, del cattolicesimo. Per dialogare e collaborare con i preti di strada, così come per combattere la gerarchia vaticana e le sue ingerenze, si dovrebbe conoscere almeno un po’ la lunga storia della Chiesa, un argomento appannaggio di pochi addetti ai lavori e qualche appassionato divoratore della divulgazione. Così, ho pensato che in vista del 2000, mentre Roma si preparava al Giubileo del Terzo millennio, supportata dalla lettera apostolica di Wojtyla del 1994 (Tertio Millennio Adveniente), lo scenario sarebbe stato un momento irripetibile per provare a pubblicare in Italia il lavoro di  Karlheinz Deschner. Dopo aver bussato alle principali case editrici, che dietro a motivazioni pretestuose celavano la paura di un titolo così urticante per il potere clericale, e quindi rifiutavano, sono arrivato ad Ariele, un piccolo editore milanese. Con un po’ di fatica, siamo riusciti a essere presenti nelle librerie proprio nel 2000 con il primo volume, recensito positivamente sul Corriere della Sera e su La Repubblica. Da quel momento, volume per volume, fino al 2014 ho girato l’Italia come “vicario di Deschner” per decine di presentazioni che hanno aiutato il progetto, concluso con successo e senza finire in rosso. La strategia ecclesiastica, una volta ottenuta la censura dei grandi editori – una censura riscossa senza doverla esplicitamente esigere -, è stata quella di sempre in questi casi: il silenzio. Eravamo quasi invisibili e tali dovevamo rimanere; se fossero intervenuti con un attacco diretto su L’Osservatore Romano o su Avvenire, sarebbe stata pubblicità comunque positiva. Una scelta che avrei fatto anch’io al loro posto, ovviamente. Per questo, abbiamo scelto “il tour”, riprendendo la forma della controinformazione anni Settanta. Inoltre, Deschner aveva avuto un infarto e il medico gli aveva vietato di viaggiare e sostenere accesi dibattiti, così – ancorché autorizzato da lui – ne ho fatto indegnamente le veci in Italia. Quando è uscito il primo volume da noi, aveva già 76 anni. Se ne andrà a 90, lasciando incompleto l’ultimo capitolo.

Chi era Karlheinz Deschner? L’hai mai conosciuto di persona? Di che tipo di studioso si trattava e che metodologia seguiva sulle fonti? Oltre a questo immenso lavoro, quali altre opere ha prodotto?

Sì, certo l’ho conosciuto. Sono stato da lui per presentarmi e organizzare il lavoro. Viveva in una piccola villetta dalle parti di Haßfurt am Main saturata di libri, un accumulo “mostruoso” – direbbe Fantozzi – da studioso illuminista del XIX secolo. All’epoca era un sessantenne piccolino, gentilissimo, molto lontano dallo stereotipo dell’intellettuale tedesco. Aveva cominciato come scrittore e ricercatore in campo filosofico e letterario, ma negli anni Sessanta si ritrovò – un po’ come da noi Pier Paolo Pasolini – trascinato in una vicenda di blasfemia per certi suoi scritti. Di formazione cattolica, perduta la fede, decide di ricostruire da un punto di vista critico la storia del cristianesimo. Già alla fine degli anni Cinquanta aveva pubblicato Was halten Sie vom Christentum? (Cosa ne pensi del cristianesimo?) una raccolta commentata di contributi critici tratti da intellettuali suoi contemporanei, ma l’inizio dell’impegno che lo caratterizzerà per tutta la vita è segnato dall’uscita di Il gallo cantò ancora (Massari, 1998) del 1962, che oggi appare quasi una sorta di compendio precedente alla Storia criminale. Come dicevo, ha scritto romanzi, collezioni di aforismi, saggi teologici e diversi “spin off” della Storia criminale, perché dopo aver firmato per Rowohlt nel 1970 il contratto per i dieci volumi, durante gli anni di preparazione, tutto il materiale che non rientrava nel “format” concordato con l’editore (sostanzialmente il numero di pagine), ha dato corpo a una serie di libri in tema, più o meno collaterali e complementari. Dico per tutti La politica dei papi nel XX secolo (Ariele, 2009) e Der Moloch, un saggio critico sull’imperialismo americano del 1992 e non tradotto in Italia.

La questione delle fonti è molto complessa. Come dicevo prima, l’approccio è quello da enciclopedista dell’illuminismo di Diderot, inoltre Deschner si è formato studiando profondamente i filosofi tedeschi, in particolare Kant (e poi Schopenauer e Nietzsche). La sua è una visione volta alla comprensione del Mondo con una presunzione olistica, del tutto coerente nel Diciottesimo secolo e tuttavia oggi difficilmente sostenibile da un singolo autore. Per questo, in un lavoro sulla storia del cristianesimo che copre duemila anni e riguarda una cultura oggi rappresentata da due miliardi di seguaci, è impossibile non avvalersi di fonti secondarie (e non solo), in un rinvio continuo di bibliografie, spesso materialmente possedute. Questo è un limite oggettivo, che tuttavia non significa una caduta di valore scientifico.

La prospettiva del suo sguardo, si può riassumere in quello che mi disse al primo incontro: “Le chiese cristiane hanno goduto il monopolio della narrazione per quindici secoli e ancora oggi la potenza agiografica di penetrazione nell’immaginario è enorme. Ribaltando il punto di vista, io racconto tutto quello che ho trovato nello studiare il loro passato; metto insieme una storia del rimosso, delle censure, delle falsificazioni, delle mitizzazioni”.

Oltre l’originale tedesco e la tua curatela italiana, esistono altre edizioni in altre lingue? Com’è stata accolta l’opera nel contesto internazionale?

Che io sappia, oltre alla nostra e a quella in spagnolo di cui s’è detto, la Storia criminale è pubblicata non integralmente in greco, polacco e russo. Il lavoro di Deschner ha avuto una discreta eco in patria e in generale è stato accolto positivamente, perché la Germania è la terra delle due confessioni cristiane, costrette a coesistere dopo lo scisma della Riforma; è un Paese storicamente segnato dalla Guerra dei Trent’anni, e perciò abituato alle critiche reciproche ben più dure dei libri di Deschner. All’estero, dove è conosciuto, Deschner è un fenomeno letterario per un pubblico molto piccolo, ahimè spesso già d’accordo sul taglio e in cerca di conforto scientifico, un bias di conferma. Certo, l’esistenza nei cataloghi della Storia criminale è già di per sé un fatto positivo, perché un giovane ricercatore che vi si imbatte non può ignorala e ciò arricchisce il dibattito. Come diceva un tuo omonimo televisivo ormai trentacinque anni fa: “meglio ora che la Storia criminale c’è, che prima quando non c’era…”

Credi che qualche obiettivo sia stato raggiunto e che il pubblico italiano degli studiosi e degli specialisti o quello dei semplici lettori interessati, abbia acquisito ora una prospettiva storica diversa sulla Chiesa e che la visione agiografica di tutto quanto attiene alla religione, al Papa e alle gerarchie ecclesiastiche sia stato in qualche, anche minima, misura corretto ?

È raro e difficile che un credente decida di leggersi dieci volumi con un titolo del genere. E se lo fa, è molto probabile che il sistema difensivo della fede faccia il suo lavoro sulla mente del lettore, schermandola. Come accennavo per l’estero, anche il pubblico italiano di Deschner è sostanzialmente già molto critico verso il cattolicesimo, con vari gradi di acribia e risentimento. Ciò detto, dopo la lettura – completa o parziale che sia – questi lettori diventano portatori di informazioni più precise, che entrano in circolo nei discorsi quotidiani, al lavoro, tra amici, sul tram o in treno, al bar o in pizzeria. Anche se può sorprendere, l’argomento religioso non è così infrequente nei discorsi dell’uomo della strada. In particolare, va ricordato che durante i quattordici anni in cui abbiamo pubblicato i dieci volumi, è morto un papa ingombrantissimo come Woytjla, gli è succeduto il suo ghostwriter che ha fatto la storia con l’improvvisa e sorprendente abdicazione, il tutto in un momento drammatico per il Vaticano sottoposto a un fuoco di fila internazionale per gli scandali sessuali, in crisi profondissima di vocazioni e sotto attacco da aggressive chiese “riformate” in America latina e in Africa. Dunque, a tutti i livelli sociali, non si è mai parlato così tanto di “religione” come in questo inizio di millennio, ovviamente con i dovuti limiti del caso.

Nel suo piccolo, sono certo che la nostra edizione italiana ha avuto una sua circolazione, perché mi è capitato spessissimo di leggere scontri accesi tra i commenti in calce ad articoli on line d’argomento religioso, nei quali qualcuno evocava Deschner come sineddoche di un cattolicesimo impresentabile. Spesso sono citazioni “a orecchio”, certo, ma vuol dire che i roghi di eretici, i massacri dei nativi, le violenze sull’alterità, l’inquisizione, sono “oggetti” entrati in qualche modo nell’immaginario collettivo, bilanciando parzialmente la vulgata cattolica che ha resistito con pochissime scalfitture fino alle soglie del Ventunesimo secolo.

Infine, vorrei ricordare un episodio importante. Nel 1998, l’allora Prefetto della congregazione per la dottrina della fede Joseph Ratzinger (ex Inquisizione, già Sant’Uffizio) convocò una Commissione Teologica Internazionale per stilare un documento che sarà pubblicato il 7 marzo 2000 col titolo Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato. Una parte della Chiesa non condivideva questa scelta, che pure veniva da “destra”, sbagliando; perché il futuro “Pastore tedesco” conosceva – come connazionale “informato dei fatti” – assai bene Deschner fin dagli anni Settanta, dunque era in grado alla fine del secolo di valutare l’impatto del suo lavoro, e quello di tanti altri storici, che andava disinnescato per affrontare il Terzo Millennio. Un’operazione astuta e raffinata giacché si tratta di un’autoassoluzione, ça va sans dire, storicamente piuttosto reticente e lacunosa. La ragione dei detrattori di quella scelta, sta nel fatto che la Chiesa – di là del linguaggio clericale – ammetteva di aver commesso nefandezze orribili in nome di Dio e questo le si sarebbe ritorto contro.

L’idea era “mettiamoci una pietra sopra”, ma la Storia ormai procede su binari che Roma non controlla più come prima, perfino nella “ridotta italiana” dove ancora ha una potente rendita di posizione. È la fatale “entropia” che caratterizza la Chiesa nella sua configurazione di “potere assoluto”, cioè il dover tenere insieme il Mito e la Storia, il Sacro e il Profano, Dio e Mammona, il diavolo e l’acqua santa. Ovvero la complexio oppositorum di cui parla Carl Schmitt nella sua teorizzazione della Teologia Politica. La divaricazione degli ossimori è lenta e inesorabile, non voglio scomodare le leggi della termodinamica, ma la materia di cui è fatto il Mondo è l’antidoto più efficace per una teologia strutturata nel Tredicesimo secolo dal Doctor Angelicus. Infatti, quando Ratzinger scrive l’enciclica Fides et Ratio, firmata da Woytjla nel settembre 1998, l’impianto tomistico è ancora quello della “philosophia ancilla theologiae”. Un ferrovecchio nell’epoca dell’intelligenza artificiale in cui il dibattito filosofico-antropologico affronta il tema del Postumano e dell’Antropocene. Ratzinger è un fine intellettuale, ma da giovane teologo negli anni Sessanta non ha letto Philip K. Dick e Guy Debord.

Il lavoro di Deschner ha avuto però critiche non solo dagli ambienti direttamente coinvolti nella polemica. Alcuni studiosi imparziali hanno messo in dubbio l’obiettività e l’equilibrio di giudizio dell’autore, uno storico tedesco, per esempio, ha scritto, più o meno, che ci sono romanzi che raccontano molto meglio l’ipocrisia e la malvagità dei chierici. Come replichi a queste accuse?

Non si sono letti la sua introduzione al primo volume uscito nel 1986 in Germania. Deschner lo dice chiaramente: per opere agiografiche sono stati vergati fiumi d’inchiostro, io scrivo la prima sul cristianesimo analizzando con la lente solo “i crimini”. Il netto giudizio critico, l’intento polemico, è dichiarato fin dal principio e il lettore è avvertito. Si presuppone adulto e capace di usare le informazioni raccontate nei dieci volumi nel modo corretto, credente o meno. Quando gli era posta la domanda, Deschner rispondeva che la posta in gioco non era la fede in un dio, ma la storia degli uomini che in nome di quel dio avevano agito. Ricordando che era convinto vegetariano, in questo senso aveva scritto: “Chi lascia la chiesa: un raggio di speranza per me; chi non mangia più animali: mio fratello”.

Abbiamo visto prima come, seppure nei limiti di un’opera con qualche fragilità epistemologica, la Storia criminale sia un poderoso e concretamente fondato lavoro scientifico, che s’inserisce a pieno titolo nel dibattito storiografico. Leggendola tutta, di là dai fatti inanellati, si comprende il funzionamento della teologia cristiana, in particolare quella cattolica, imparando quindi le ragioni profonde della manipolazione operata dalle gerarchie sugli stessi testi sacri, noti come “Nuovo Testamento”. Un romanzo può certamente fornire informazioni sugli orrori commessi dai cristiani, ma ritengo che il medium è il messaggio. A un certo livello di complessità, il tipo di conoscenza che veicola non è più sufficiente a sostenere una disputa intellettuale e la Chiesa Cattolica è la macchina culturale più raffinata e complessa mai prodotta dall’umanità. Perché? Hanno ideato quelli che con felice sintesi lo storico Adriano Prosperi ha definito “Tribunali della coscienza”. Il cardinale Bellarmino ha potuto così mandare sul rogo il frate domenicano Giordano Bruno: per il suo bene e per il bene della cristianità, in nome di Dio. Lo stesso Dio che nella dottrina cristiana detta a Mosè il quinto comandamento: non uccidere. Sono coloro i quali hanno fondato il relativismo, tanto avversato dalla crociata di Ratzinger, ma solo perché non ne aveva più il monopolio. Quando nel Quinto secolo i ricchi mercanti alessandrini desideravano convertirsi, provavano sconcerto scoprendo Matteo che riportava le parole inequivocabili di Gesù: “è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli”. I padri della chiesa, primo fra tutti Agostino, elaborarono l’interpretazione relativistica per cui i ricchi non avevano di che preoccuparsi, a certe condizioni da loro definite, il regno dei cieli sarebbe stato garantito. In barba al Fondatore…

Non si tratta solo della malvagità dei chierici e delle nefandezze ecclesiastiche, la critica deve confrontarsi con un linguaggio potentissimo. Per fare un esempio di questa “potenza”, dirò che quando sono stato invitato a un talk show nel quale era presente un noto vescovo teologo, ho gentilmente rifiutato perché conosco bene i tempi televisivi e per controbattere a un’affermazione clericale di pochi secondi, servono almeno dieci minuti, se davvero si desidera essere genericamente compresi dagli spettatori a casa. In TV al quarto minuto la soglia di attenzione crolla, nessun conduttore ti lascia parlare per dieci minuti, per di più di teologia cattolica e da un punto di vista scientifico. Per esperienza ventennale, direi che una conoscenza “romanzata” dei crimini cristiani, alla fine può fatalmente diventare controproducente. Ma è un discorso molto complesso, che richiederebbe un’intervista a parte.

Vuoi tracciare un bilancio finale sull’impatto che questa impresa intellettuale ha avuto sulla cultura storica, sulla sensibilità religiosa e, magari, anche sulla tua vita personale?

Mi sembra di aver risposto – qua e là – alla prima parte della domanda. Per il resto, posso dire che la curatela e il tour italiano sono stati un’avventura entusiasmante, un incentivo alla conoscenza del tema negli aspetti a me poco noti. Tante letture intraprese per soddisfare le innumerevoli curiosità scatenate dal lavoro di controllo su ogni volume, che – ricordiamolo – copriva circa duecento anni. Ho imparato moltissimo, durante e dopo, dalle domande dei partecipanti agli incontri, ai dibattiti, alle conferenze, che ho tenuto in quindici anni. Un’esperienza antropologica che mi ha certamente migliorato come studioso e sul piano privato. Soprattutto ho imparato a pensare come loro, impadronendomi del linguaggio per usarlo contro di loro. Dico “contro”, perché ormai, come si vede per esempio nel dibattito sull’eutanasia, è un conflitto radicale e la posta in gioco è ancora la Libertà. Siamo individui autonomi, o dobbiamo delegare la normatività a qualche essere umano “speciale” misteriosamente incaricato da Dio? Ricordiamo la disputa tra Erasmo e Lutero sul libero arbitrio, allo stato attuale si vede come la libertà di coscienza davanti alla scelta sul fine vita dovrebbe essere sospesa e obbedire al diktat di Roma: la vita non è tua fino in fondo, è un dono di Dio. Senza entrare in un complicato discorso filosofico, diciamo che è uno strano dono, poiché si dovrebbe infine restituire. La sottomissione a un’Autorità è evidente. E da dove viene quell’autorità? Dal dio cattolico e SOLO da lui, secondo i suoi “vicari”. Quello luterano è male interpretato, sono “fratelli che sbagliano”; figuriamoci il dio di coloro che credono abbia inviato l’arcangelo Gabriele a rivelare la Verità all’orecchio di un mercante arabo quasi certamente analfabeta. In realtà, conoscendo le Scritture “come loro” e la teologia che ne ricavano, ci si accorge rapidamente che i sedicenti vicari si sono rapidamente trasformati in sicari di Dio…

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