Nella premessa al tuo libro Il ginocchio sul collo, alle soglie dell’elezione del nuovo Presidente statunitense, scrivevi che “non è in gioco una normale alternanza politica, ma la natura e il futuro stesso di un paese che ha ancora un peso decisivo nel resto del mondo”. I drammatici eventi che hanno segnato il passaggio da Trump a Biden confermano questa analisi: com’è stato possibile che la cultura democratica statunitense sia arrivata ad uno stadio che alcuni analisti considerano terminale?
Ti racconto un episodio. A metà anni Sessanta accompagnavo un gruppo di scelti studenti americani che venivano a trascorrere un anno in Italia. Gli tenni un piccolo corso di orientamento, durante il quale spiegai come funzionava il sistema politico italiano. Alla fine del corso feci una piccola verifica che capire quanto ero riuscito a trasmettere. Alla domanda “Quali sono le principali differenze fra il sistema politico degli Stati Uniti e quello italiano”, la più intelligente e impegnata del gruppo rispose: “L’Italia è una repubblica parlamentare, gli Stati Uniti sono una democrazia”. Segno che neanche lei sapeva esattamente che cosa volesse dire “democrazia” (in quel momento, migliaia di statunitensi stavano uccidendo e facendosi uccidere in Vietnam in nome di questa cosa che non avrebbero saputo definire). Democrazia, insomma, era semplicemente sinonimo di eccezionalismo americano; di qui anche il nesso con il “Make America great again” di Trump. Anche per questo, molti degli assalitori del Campidoglio statunitense erano convinti di essere lì non per attaccare ma per restaurare la “democrazia”, violata dal “furto” delle elezioni “truccate” (ancora oggi due terzi degli elettori repubblicani, sono gli estremisti delle milizie, sono convinti che l’elezione sia stata falsata. Un po’ c’entrano le false informazioni che ricevono da media disonesti, ma anche il fatto che si sentono – come in tutto l’Occidente – privi di potere e di rappresentanza, e ne danno la colpa alle élite al potere).
Malgrado la situazione incendiaria creata ad arte, Donald Trump ha perso le elezioni: ha prevalso la “generalità ragionevole” di Biden che, contrapponendosi alla “chiarezza criminale” di Trump, si è sempre rivolto a un centro sempre più “fantasmatico”, come notavi in un articolo prima delle elezioni, o sono anche altre le cause di questo risultato?
Io credo che in tanti avrebbero votato “chiunque ma non Trump”, e che parecchia gente che in altri momenti è indifferente si sia mossa per andare a votare. In questo ha contato moltissimo la mobilitazione afroamericana.
La destra trumpista ha seminato la paura nell’elettorato moderato, prefigurando terrore, disordine e anarchia se il Paese fosse finito nelle mani dei “democratici radicali”. Quest’ultimo è chiaramente un ossimoro, così come, fai notare in un passo del libro, lo era da noi “comunisti badogliani” nel famigerato comunicato nazista su via Rasella. Da un punto di vista storico, le tattiche cui ricorre il Potere per continuare a esercitare il suo dominio sono ovunque le stesse, e in ogni tempo?
Io ricevo parecchi notiziari della destra americana in cui parlano direttamente di Biden come cavallo di Troia di comunismo e socialismo. D’altra parte, queste parole sono diventate mere etichette prive di contenuto, semplici negativi di un’idea di “libertà” anch’essa indefinita se non, a volte, in termini di pura antipolitica di destra. Ma ha fatto la stessa fine persino “liberalismo”, diventato sinonimo di intrusione statale nelle vite personali: di qui l’ossimoro “democratici radicali”. Nel senso che se è “senso comune” un individualismo estremo, allora qualunque attività di governo diventa estremista e antiamericana (e bisogna correre a Washington a fermarla prima che distrugga la “democrazia”).
Riguardo al modo di trattare certe notizie provenienti dall’America da parte dei nostri giornali appare esemplare quello di Flores D’Arcais sull’intervento delle forze federali a Portland nello scorso luglio. Con una singolare inversione di segno, scrisse su La Repubblica che esso si giustificava con lo scopo di evitare sparatorie per le strade, mentre è noto che gli agenti federali furono schierati su ordine di Trump per impedire le manifestazioni di protesta contro la violenza della polizia organizzate dal movimento Black Lives Matter. Le banalità – se non castronerie – scritte da non pochi “intellettuali bipartisan” nostrani sono frutto di letture ideologizzate o di scarsa conoscenza dei fatti e dei contesti?
La Repubblica si è distinto per una lettura degli avvenimenti in termini di “opposti estremismi”, si è indignato più per una statua di razzista danneggiata che per un essere umano assassinato. Per qualche ragione, molti dei nostri media sono succubi di un’idea che lega la democrazia agli Stati Uniti in modo, se non esclusivo, certo privilegiato, come modello. Mi faceva effetto la sera del 6 gennaio sentire continuamente l’endiadi “democrazia americana” – nessuno parla, che so io, di “democrazia irlandese” o di “democrazia maltese”, anche se pure lì ci sono le stesse libertà civili, un sistema elettorale più moderno, meno disuguaglianze, e nessuno dà l’assalto al palazzo del governo.
Nel libro istituisci di continuo un parallelo tra le vicende statunitensi e quelle nostrane. In effetti, anche qui da noi si ripete il medesimo macabro rituale del pestaggio e dell’omicidio: Aldrovandi, Cucchi, Magherini, Sandri, per non citare i fatti di Genova del 2001 e, indietro nel tempo, i casi di Serantini e di Pinelli. Non è un atteggiamento ipocrita e miope stupirci di ciò che avviene sull’altra sponda dell’Atlantico, e dispensare lezioni di civiltà?
Così come da tempo non credo che gli Stati Uniti siano più in grado di insegnare niente a nessuno, sono convinto anche che nessuno di noi ha niente da insegnare a loro. Credo che se sostituissimo questa idea concorrenziale di modelli e insegnamenti potremmo provare a ragionare in termini di dialogo, di confronto e di scambio, riconoscendo che i problemi sono gli stessi e cercando soluzioni condivise e riviste alla luce delle situazioni specifiche. La sensazione di non avere nessun potere sulle proprie vite, di non avere rappresentanza nelle istituzioni – e la tentazione di ricorrere a facili capri espiatori – può assumere forme più o meno drammatiche in diversi luoghi e momenti, ma è presente in tutto l’Occidente.
Nel libro e nei tuoi articoli hai ripetutamente lanciato un grido d’allarme, sostenendo che la situazione italiana non è meno grave di quella americana: ormai, scrivi, siamo diventati l’Alabama. Il fascismo da noi è divenuto “senso comune”, a tal punto che nessuna legge potrebbe “cambiare la testa ormai infetta e il cuore incallito di questo paese”. Dunque, come si esce da questa purulenta situazione? Come ingaggiare una “battaglia di civiltà” che abbia una qualche probabilità di vittoria, visto che le forze politiche cosiddette di sinistra appaiono assuefatte e persino impaurite davanti ad un simile pericolo?
Se io sapessi rispondere a queste domande farei davvero un altro mestiere! Io in realtà ho scritto che era meglio l’Alabama – sia perché comunque in Alabama c’è lo ius soli e anche Rosa Parks era una cittadina statunitense che rivendicava i suoi diritti costituzionali. Una differenza, dunque, è che negli Stati Uniti è sempre esistito, fin dai tempo dell’abolizionismo, un movimento organizzato a direzione afroamericana che si opponeva al razzismo; questo in Italia è ancora in forma embrionale, anche perché le persone che lo subiscono non hanno i diritti di cittadinanza, non votano, non sono rappresentati. Quindi secondo me lo ius soli da una parte (che è esattamente il corrispettivo delle lotte dei neri americani per il diritto di voto), e un serio, fondamentale rilancio della pubblica istruzione per ricostruire una generazione di cittadini critici e consapevoli sono un paio di elementi che potrebbero aiutare
Perché in Italia si fa così fatica a bollare come criminali quelle politiche securitarie che cercano di fondare le politiche statuali sulla paura dell’altro (migrante, straniero, zingaro, clandestino che sia), portate avanti da squallidi politicanti di bassissimo profilo?
Noi siamo ancora in regime di negazione rispetto alla presenza del razzismo nel nostro paese, e in tutta Europa. Per troppo tempo ci siamo convinti di esserne immuni, così anche in casi in cui la componente “razziale” è evidente spesso le istituzioni si affannano a negare che di razzismo si tratti. Aggiungerei l’ipocrita campagna contro il “politically correct” che sdogana il peggio delle banalità conformiste e reazionarie, magari contrabbandandolo per ironia, esercizio della libertà di parola, trasgressione … quando in concreto significa esattamente il contrario.
Analizzando il fenomeno delle statue abbattute, fai notare che il compito delle persone colte non è quello di accentuare l’allarme ed echeggiare il pensiero dominante, ma “di aiutare tutti, protagonisti e pubblico, a distinguere, riflettere e ragionare”. Si può dire che il modo in cui è stata affrontato da molti commentatori questa vicenda sia l’ennesima dimostrazione che il ruolo dell’intellettuale – inteso come colui che non rinuncia al senso critico, all’argomentazione e al dissenso – sia ormai scomparso, sostituito da quello dell’opinion maker che serve questo o quell’interesse?
Mi colpisce il fatto che in queste settimane escano decine di articoli e supplementi, e programmi televisivi, sul centenario del Pci, in cui parlano sempre giornalisti e politici, mai gli storici. E guarda caso, invece che “nascita del Pci” la formula dominante è “scissione della sinistra”. In altre parole, un uso strumentale della storia ai fini di polemiche politiche di corto respiro. Anche sulla questione dei monumenti, la reazione alla resignificazione della statua di Indro Montanelli è stata una unanime risposta di un ceto professionale a difesa delle proprie prerogative e identità. Quindi da un lato un appiattimento della storia sul presente; dall’altro un’idea di storia congelata, letteralmente pietrificata, affidata a simboli intangibili per il solo fatto di esistere. L’idea della storia, e della memoria, come processi in perenne evoluzione fatica a prendere piede.
Recensione del libro Alessandro Portelli, Il ginocchio sul collo. L’America, il razzismo, la violenza tra presente, storia e immaginari, Donzelli Editore