Non esisto è il nuovo romanzo di Alberto Schiavone, che inaugura anche una nuova collaborazione con le Edizioni Clichy. Un connubio felice tra un’attenta cura editoriale e l’alta qualità letteraria dello scrittore torinese. La vicenda raccontata è quella di Maria, donna ancora giovane che ha appena trascorso in carcere un periodo di pena indefinito per un crimine che non viene rivelato. Ma, alla ritrovata libertà, si contrappone la difficoltà di reinserirsi in una società non pronta ad accogliere chi – per motivi vari, in questo caso una detenzione – ha necessità di ricominciare da capo.
Nel tuo nuovo romanzo, Non esisto, uscito per Clichy, la protagonista è Maria, una giovane donna che noi incontriamo nel momento in cui esce dal carcere. Dovrebbe essere un momento bello, la riconquista della libertà, ma capiamo subito che per lei le cose non saranno così facili. Perché hai voluto raccontare la storia di Maria? Che cosa ti ha ispirato la scrittura di questo romanzo?
La libertà, se così vogliamo definirla, è un momento e uno spazio virtuoso per chi ha strumenti. Ci sono persone spaventate da quello che c’è lì fuori. Mi interessava proprio indagare lo stato d’animo di chi si trova smarrito, di chi non sa dove andare. Il carcere è un pretesto, questo non è un libro sul carcere.
A un certo punto tu scrivi “il carcere è un’isola che affonda”. Che cosa vuoi dire con questa frase?
È una forzatura poetica. Ho sentito dire che Manhattan sta lentamente affondando a causa del peso dei grattacieli che la occupano. Ecco, il carcere forse subisce il peso delle anime, dei torti, del dolore. E questo lo tira verso il basso. Così come lo tira in basso l’opinione generale che si ha delle persone che ci stanno dentro: sono altro da noi. Ma non è vero.
Maria è stata in carcere, un luogo dove si è privati della propria libertà, dove ci sono cancelli e sbarre. Ma, una volta fuori, si ha come l’impressione che alle sbarre vere se ne incontrino altre, invisibili ma altrettanto limitanti. In realtà, anche fuori dal carcere Maria non è libera di vivere come vorrebbe. Questo è dovuto al solo fatto che lei sia un’ex carcerata, oppure siamo tutti, bene o male, limitati nelle nostre libertà (ovviamente, tenendo conto che essere liberi di fare quel che si vuole non vuol dire prevaricare gli altri)?
Il patto sociale è difficile da mantenere per chi subisce sgambetti sin da piccolo. Maria è un personaggio volutamente lontano dallo stereotipo della ragazza segnata dalla gioventù, non è una di quelle che ha scritto in fronte la propria sorte già mentre è bambina. Eppure sappiamo che la statistica a volte racconta più della letteratura, e le statistiche ci dicono che il carcere è una discarica sociale, e spesso un passaggio breve, obbligato, o perenne, per chi proviene da alcuni contesti. Di fuori c’è la libertà, appunto. Ma anche nel mondo di fuori esistono individui che possiedono le chiavi, e altri che non ce l’hanno e vengono continuamente chiusi o lasciati andare.
Nel romanzo, non viene detta la ragione per cui Maria è stata condannata. Per quale motivo?
Raccontare la sua colpa, il suo reato, avrebbe connotato l’intero romanzo. Invece io voglio che chi legge finisca per incontrare il baricentro emotivo di Maria, cada dentro la storia. E ad un certo punto smetta di chiedersi che cosa abbia combinato quella donna. Anche perché le sue istanze, le gioie, le paure, le voglie, sono quelle di chiunque. Inoltre c’è una sottotraccia di legge. Il carcere serve per estinguere la pena, e se una persona per sempre viene connotata da ciò che ha commesso allora è un fallimento. Tu non sei il tuo reato. Puoi essere sicuramente migliore. Lo sporco e il nero lo possediamo anche noi che ci definiamo normali. I colpevoli sono una parte di noi.
Lo stile di scrittura del romanzo è molto particolare, prosciugato fino a renderlo quasi ermetico, con capitoli che contengono paragrafi brevi, spesso frasi isolate in mezzo alla narrazione. Come sei arrivato a questo modo di narrazione e perché lo hai scelto?
Questa è una storia molto particolare, che chiede molto al lettore, così come ha chiesto moltissimo a me. Avevo bisogno ancora di più che nei libri precedenti di raggiungere un mio stile, forse anche esagerando nella direzione. Citando una brava, ho trovato una stanza tutta per me, dove il linguaggio che ho scelto serve a ipnotizzare chi legge. Almeno questa è la speranza! La ricerca della parola, del ritmo, del tempo sospeso, è stato un processo lento e anche questo abbastanza doloroso. Il procedere di Maria non poteva abbandonarsi a una struttura classica, necessitavo una rottura, anche con le cose che avevo scritto fino ad ora. Non so se questa stanza tutta per me è il mondo stilistico che abito solo adesso o per sempre. So che è era la maniera giusta per raccontare Maria.
Anche nel romanzo precedente, Dolcissima abitudine, pubblicato da Guanda nel 2019, la protagonista è una donna dalla vita difficile. Come mai questa predilezione per personaggi femminili che vivono esistenze dolorose, da emarginate? Inoltre, secondo me, possiedi una sensibilità letteraria notevole nell’immedesimarti in loro e creare empatia con i lettori e le lettrici. Come riesci a raggiungere questo risultato?
Parto dal fondo: non lo so. Credo di avere un’attitudine, ma non saprei descriverne la causa, a meno di non scivolare in banalità quali la mia particolare sensibilità o capacità di ascolto. Tutto finto, o tutto vero. In effetti gli ultimi romanzi hanno come protagonista una donna, e una donna dalla vita affaticata. Il pretesto che li muove però è sempre diverso. Ad esempio Dolcissima abitudine è figlio di un incontro. Ho conosciuto questa donna che ha svolto il mestiere di prostituta per più di cinquant’anni, a Torino, dal dopoguerra fino ai giorni nostri. Mi pareva un punto di vista incredibile e raro per raccontare una città e un intero paese. Lei mi ha accolto, ha capito che non mi interessava entrare sotto le lenzuola, non avevo morbosità. Questo mi è servito per avere il suo rispetto, e le sue storie. Forse la mia posa, che non è mai giudicante, si traduce poi in quello che scrivo. Ai miei personaggi voglio bene, anche se spesso sono creature difficili. Laura Bosio, che è stata la mia editor in Guanda per due libri, mi disse che a volte non sembravano libri scritti da un uomo. L’ho sempre conservato come un bel complimento, anche se io sono un tifoso delle differenze e tutto sommato calzo bene nella mia condizione di uomo. Una risposta migliore però credo la potrebbe dare la mia analista.
Nel 2020, per Edizioni BD, hai pubblicato una biografia di Georges Simenon sotto forma di graphic novel, Alfabeto Simenon, illustrata da Maurizio Lacavalla. Perché questo omaggio allo scrittore belga? Questa non è la tua prima graphic novel, cosa pensi del fatto che il fumetto stia avendo un grande successo, tanto da essere considerato il genere “del momento”?
Considero Georges Simenon uno dei più grandi scrittori mai esistiti. Uno scrittore senza genere, anche se il giallo gli è sempre rimasto addosso. Uno scrittore insofferente. Ecco, nella biografia disegnata che ho scritto mi interessava molto anche questo aspetto, che è il motivo per cui ho ritratto in altri libri John Belushi e Diego Armando Maradona. Sono personaggi che hanno vissuto al centro del mondo, ma che nascondevano, chi meglio chi peggio, un grande dolore. Visto che su Simenon si è scritto davvero tanto, volevo fornire al mondo un lavoro diverso, così ho creato un alfabeto che parte da suggestioni diverse. Personaggi dei suoi libri, temi letterari o biografici. I disegni di Maurizio Lacavalla hanno potuto dare corpo e materia a queste lettere. È stato di sicuro il libro più faticoso che ho costruito finora. In generale abbiamo bisogno di storie. Scritte o disegnate o parlate.
Non esisto è stato proposto per lo “Strega” da Annalena Benini. Cosa può significare una candidatura di questo tipo e che cosa pensi dei premi letterari?
Quella proposta di candidatura è stata per me un premio. È stata la prima volta che mi sono affacciato allo “Strega”, e anche se non sono entrato in sala, ma mi sono fermato a leggere le locandine da fuori, ammetto di esserne stato felice. Un piccolo riconoscimento del mio percorso, anche vista l’autrice della proposta, una professionista di cui ho grandissima stima. Quanto ai premi in generale, è chiaro che ci sono dinamiche editoriali che li guidano e indirizzano. Ci sono pressioni e forze in campo spesso non controllabili da chi non appartiene ad alcuni contesti. E ci sono editori che fanno fatica ad ottenere la benedetta visibilità. Bisogna però sempre ricordarsi, almeno come autori, che non si scrivono i libri per vincere i premi. Quello diventa un gioco, una ulteriore carezza al proprio ego.
Cosa vuol dire, per te, essere uno scrittore? Cosa vorresti comunicare, con i tuoi romanzi, a chi ti legge?
Voglio toccare alcune corde dell’anima di chi legge. Non voglio banalità. Preferisco l’indecenza e la scomodità, preferisco fare arrabbiare, o piangere, o ridere. Riesco ancora a emozionarmi quando chi mi legge testimonia anche solo un piccolo o grande cambiamento del proprio sguardo, un dubbio, una nuova pedata al proprio orizzonte. Ammetto di avere spesso e sempre più una feroce crisi interna rispetto al ruolo della letteratura nel mondo contemporaneo. Spesso ci parliamo tra pochi intimi, pensando di muovere montagne, e invece fuori dai saloni in cui siamo non arriva nemmeno una vocina. Ci sono persone che hanno smesso di pensare ai libri come un traguardo, o una cosa bella. Ci sono soprattutto persone che non hanno nemmeno accesso a questo pensiero. Tanto è vero che le istanze contemporanee, quelle che nel mondo ricco chiamiamo lotte, interessano a poche persone rispetto alla totalità del mondo. Come cantava il poeta, mi interessano quelli che non sanno nemmeno parlare. Quelli a cui è negato anche il lusso di essere individui. Ecco, vorrei comunicare a queste persone l’importanza di imparare e poi conservare un immaginario, un linguaggio, una capacità di elaborare storie. Contro il mondo imposto, i sogni di plastica, la noia. Sembra una folle fantasia, ma se non ci abbandoniamo alla possibilità e all’imprevisto, scriviamo solo libri silenziosi, partecipiamo a vite tristi scritte da altri.