Joyce Carol Oates, Il Collezionista Di Bambole, tr. Stefania Perosin, Il Saggiatore, pp. 272, euro 18,70 stampa, euro 10,99 ebook
recensisce RAFFAELE IZZO
Ancora una volta la Oates mette a segno un colpo ben riuscito: alla non più tenera età di ottant’anni, riesce a tenersi aggiornata meglio di scrittori assai più giovani. Attingendo a piene mani sia da classici come Lovecraft, sia da autori che stanno avendo un grande riscontro adesso, come Thomas Ligotti, riesce a dare un contributo innovativo al racconto in generale e al New Weird in particolare: e questo genere così complesso da definire, che ingloba correnti come l’orrore cosmico, il fantastico urbano, l’orrore metafisico, riceve nuova linfa.
Attraverso una manciata di racconti vediamo dispiegarsi davanti ai nostri occhi una realtà acida e corrosiva, tematiche anche socialmente impegnative. Ma chi ama il racconto horror classico resterà deluso: qui si lavora di fino, non si mira mai alla pancia del lettore. Con una maestria tecnica impareggiabile Oates trasforma sempre lievemente tutto quello che osserviamo durante il racconto, facendoci rendere conto della difficoltà di comprendere il reale. Noi crediamo di aver capito un contesto, la psiche di una persona o una filosofia: ma vedrete che a fine racconto con senso di amaro dovrete cambiare idea.
Già il primo pezzo della raccolta, «Il collezionista di bambole», è esemplare da questo punto di vista. Giocando sottilmente sul limite tra due realtà, quella di una mente maschile che colleziona bambole, e quella più realistica/poliziesca di una serie di misteriose scomparse di bambine, la scrittrice non mira al colpo di scena. Noi immaginiamo già il collegamento, ma esso non verrà mai messo completamente in chiaro, lasciandoci in un’ambiguità surreale e grottesca. Qui il riferimento al mondo dei manichini, in particolare a Ligotti, è manifesto. Il fatto che il finale resti aperto e ambiguo contribuisce a creare un’atmosfera che ricorda David Lynch.
Con uno stile di scrittura scarno ed essenziale, questi spaccati di vita si portano avanti quasi da soli, tra il detto e il lievemente accennato, degni eredi di quella tradizione minimalista che da Cechov a Carver ci ha dato tanti capolavori. Non potendo analizzare tutti i racconti, vogliamo concentrarci sul secondo della raccolta, «Soldato», che merita un posto nell’olimpo della Oates. Assistiamo all’odissea di un uomo bianco, ex militare, che per legittima difesa ha ucciso un ragazzo di colore. Il racconto è emblematico per due motivi. Innanzitutto ci mostra quanto sia duttile la scrittrice: se ne «Il collezionista» padroneggiava a menadito un contesto tipicamente letterario, di origine antichissima, qui ci mostra quanto si trovi a suo agio anche nella tradizione alla Stephen King, ambientata in un contesto realistico contemporaneo, in questo caso New York. Quindi la vera protagonista qui diviene la critica della società americana, e delle estreme patologie che ne derivano nella mente di tutti noi. In seconda battuta ritroviamo, a fine racconto, quel senso di smarrimento di cui parlavamo prima. L’uso sapiente delle prospettive ci guida ad un finale veramente inimmaginabile anche per il lettore più smaliziato.
Il racconto che chiude la raccolta, «Mistery Inc.», dimostra quante frecce la Oates ancora abbia da scoccare in termini di tematiche e tecniche. A parte il solito scambio di ruoli, che ha nel finale un ribaltamento imprevedibile, nella descrizione di un collezionista di libri molto particolare: e già questo basterebbe a renderlo una chicca. Ma qui l’interesse, il succo in più da spremere, diciamo, è rivolto al lettore scaltrito e colto, capace di apprezzare un apparato di citazioni da capogiro. Non solo vengono evocati capisaldi del noir e del giallo, nonché pittori del novecento, ma anche chicche da veri esperti del libro raro. Per chi, come me, adora l’atmosfera delle vecchie librerie d’antiquariato, dove cercare per ore un pezzo introvabile, queste pagine sono una gioia per il cuore (un po’ meno per il portafoglio, visto che si tratta di cifre da capogiro). Alla fine il bibliofilo s’identificherà, nonostante tutto, col protagonista di quest’ultimo racconto, che
a tredici anni aveva già cominciato a leggere romanzi criminali (come quelli del grande Roughead, che la maggior parte della gente scopre solo in età adulta). Nonostante la sua profonda e duratura passione per l’hard-boiled, i suoi imperituri amori erano Wilkie Collins e Charles Dickens, «scrittori che non hanno mai avuto paura di indagare l’importanza del ruolo giocato dalle coincidenze nelle nostre vite né le tragedie più terribili.»