V’è stato un tempo uno scrittore che si chiamava Inisero Cremaschi. Con l’accento sulla seconda “i”, non era questo uno pseudonimo, a cui pure ricorse, firmando alcune opere come Erminio Casersich, Joseph von Koeln, Geremy Ryan. Era nativo di Fontanellato, in provincia di Parma, ma naturalizzato milanese; fu anche giornalista, critico letterario, redattore editoriale, divulgatore culturale e collaboratore della Rai, per la quale curò il programma Tuttilibri, rubrica letteraria della TV di stato trasmessa dal 1967 per un ventennio, e ridusse per la radio e per lo schermo drammi e sceneggiati televisivi – come si chiamavano allora – tra cui l’ammirato A come Andromeda (1972, dal romanzo omonimo di John Elliot e Fred Hoyle pubblicato nel 1962), dove anche comparve come attore.
All’epoca della sua scomparsa, avvenuta nell’aprile del 2014 (era nato nel 1928), i giornali lo salutarono come “uno dei padri della fantascienza italiana”, titolo meritato per l’attività creativa e per l’indefessa opera di divulgazione che lo impegnò per anni, tanto più lodevole poiché portata avanti in un periodo storico in cui da noi quel genere letterario godeva di ben fiacco credito, confinato com’era nelle rinnegate pieghe della letteratura cosiddetta “bassa”: il suo contributo fu notevole, in particolare nell’intenso ventennio Sessanta-Settanta, quando si giocarono parecchie carte per l’affermazione della letteratura fantascientifica in Italia.
Esordì come poeta (nel 1959 si aggiudicò il Premio Firenze), ma fu come narratore che si segnalò all’attenzione, con il romanzo Pagato per tacere, uscito nel 1962. In quello stesso anno pubblicò sulla rivista “Galaxy” (l’edizione italiana di “Galaxy Science Fiction”) il primo racconto di sf, e l’anno seguente un altro suo racconto, “Il quinto punto cardinale”, inaugurò il primo numero di una rivista bimestrale, “Futuro” (maggio-giugno 1963), nata con l’intento di dare visibilità agli autori italiani di quel genere negletto, e in quegli anni cominciò anche a farsi le ossa nell’editoria milanese.
Da quel momento si moltiplica l’impegno quale autore e divulgatore. La fantascienza doveva davvero amarla, poiché oltre a scriverne e diffonderla ebbe come prima moglie una scrittrice appunto di fantascienza, Gilda Musa, con la quale, oltre a firmare insieme opere di narrativa, curò nel 1964 la collana “I libri dell’Orsa maggiore”, per la Nuova Accademia Editrice, in cui apparve l’antologia I labirinti del Terzo Pianeta, che tra l’altro presenta un racconto fantascientifico di Mario Soldati (Un’inchiesta di Alfa Centauri) e un Racconto a sei mani, scritto dai due coniugi e Anna Rinonapoli.
Nel decennio successivo creò una collana editoriale a cui diede un titolo emblematico, “Andromeda”, portata avanti per l’editore milanese Dall’Oglio: tra il 1972 e il 1975 uscirono 18 volumi, di autori italiani e stranieri, compreso un romanzo di Philip K. Dick (Redivivi S.p.A., 1972, ossia Counter Clock-World, 1967, traduzione di Maria Silva). A questa si affiancò l’antologia Zoo-fantascienza (1973, Dall’Oglio), raccolta tematica con autori perlopiù anglosassoni, Futuro (1978, Ed. Nord), celebrativa della storica omonima rivista, con racconti ivi apparsi, quindi Universo e dintorni (1978, Garzanti), tutt’oggi considerata tra le più compiute antologie italiane di fantascienza, aperta da un notevole saggio critico in cui si propone una cronistoria della fantascienza italiana, inquadrata non come genere letterario ma come narrativa tout court, tipica dell’epoca moderna e rivelatrice della nostra società. A lungo collaboratore dell’Editrice Nord, nel 1980 Cremaschi varò poi il periodico “La Collina”, coniando il termine “neofantastico” per il genere di fantascienza in essa pubblicata.
Come narratore fu altrettanto prolifico, numerosi i romanzi e i racconti, questi ultimi riuniti in ben in cinque volumi. Scrittore colto e raffinato (vinse tra l’altro la prima edizione del Premio Urania, nel 1980), gli si riconoscono solidità compositiva e modernità autoriale, il merito di aver liberato la fantascienza dalle pastoie del genere, di aver fuso la narrativa fantascientifica “popolare” con forme “alte”, di aver eroso i confini tra letteratura di finzione e divulgazione scientifica o pseudo tale, di aver mostrato la sinergia tra fantascienza italiana e ufologia. A rifletterci, più d’un tema da lui affrontato si ritrova dall’ultimo romanzo di Wu Ming, Ufo 78 (2022), a riprova della fecondità del lavoro del nostro; il quale, tra l’altro, proprio nel 1978 diede alle stampe con Gilda Musa Dossier extraterrestri: insomma, un autore senz’altro da riscoprire.
Cremaschi era comunque intelletto dai molteplici interessi, firmò romanzi di genere più disparato (tra cui l’horror e la narrativa per ragazzi), e qui vogliamo ricordarlo per un testo apparso nel 1970, Cuoio nero, ascrivibile all’ambito del noir – o del poliziesco – alla Scerbanenco. Come molte delle storie dell’autore di origine ucraina essa prende corpo nel capoluogo lombardo, e vi si respira una caratteristica atmosfera anni Sessanta, nei temi, nel linguaggio, nelle ambientazioni. Di Scerbanenco questo romanzo ha anche il gergo asciutto, diretto e suggestivo, ma impreziosito da una letterarietà molto avvertita e condito da una gradevole ironia.
La vicenda, che si apre sotto un metaforico diluvio e scoperchia subito il primo morto assassinato, è presto detta: un giovane agente di polizia, Camillo Sandri, riceve una visita dall’avvenente Angela, che chiede il suo aiuto poiché un amico fraterno del Sandri, Giuliano, è nelle peste per qualche misterioso motivo che non viene rivelato. È l’inizio di un incubo, che come tale ha un tempo dilatato (“un paio d’ore che sembrano dei lustri”), narrato però con notevoli dosi di ironia e di autocommiserazione da parte del protagonista, che si getta a capofitto nella risoluzione del giallo, ormai anche per ragioni personali, spinto dalla scomparsa dell’amico presto ucciso e dall’invaghimento per la sfuggente Angela, che di Giuliano era la fidanzata non troppo innamorata. Nel sottobosco di una labirintica città, nella “giungla del centro” come in quartieri “fuori dazio”, in un panorama urbano degradato, fatto di periferie parzialmente edificate che somigliano “a una città investita dall’atomica” e dove “nascita e morte si toccano”, tra personaggi torbidi e disincantati, gang e clan criminali, frequentatori di bische clandestine – autentico segno dell’epoca in cui fu scritto il romanzo –, squallidi night ingannevolmente scintillanti frequentati da “prede in doppiopetto” cacciate da entraineuse che “conoscono il dizionario a memoria” ma lo recitano “incuranti del senso”, in un avvicendarsi di ricatti, corruzioni e attentati in stile Chicago anni Trenta, si svolge quasi con levità e ammirevole brio una trama nera, discretamente intricata, che mescola con mestiere gli elementi del giallo, del noir e del poliziesco, costruita attorno ad un personaggio “fuori scena”, la misteriosa Sabina, prima vittima, attorno a cui ruota l’intreccio. Non manca poi una cesura nell’ambientazione, con una parte che si svolge a Grado e nella “beatitudine dell’isola della Schiusa”, che aggiunge una nota di esotismo alla soffocante realtà cittadina.
Sandri è una sorta di antieroe piccoloborghese, “faccia da cuor tenero e maschera da questurino intransigente”, passionalmente dedito “al lavoro di scoperta e deduzione”, che ingaggia una “battaglia di uno contro mille”. Impegnato “in pedinamenti alla Maigret”, afflitto dal “vizio” di parlare da solo (“è ridicolo che un investigatore se ne vada in giro per la strada chiacchierando al vento le proprie faccende”), talvolta risibilmente goffo (non riesce a salvare la vita dell’amico che ha chiesto il suo aiuto, finisce egli stesso in gattabuia per “negligenza causata da ragioni personali”, tenta telefonate fantozziane in cui viene immediatamente scoperto, viene deriso dagli indagati), talaltra scisso tra Io e Super-Io, affianca le indagini portate avanti dalla Mobile e da un magistrato, che puntualmente relaziona sulle sue scoperte. A bordo d’una Volkswagen malandata, armato d’una volontà testarda, procede alla cieca, commettendo errori di valutazione e mescolando pericolosamente vita privata e lavoro, ma indomito procede nell’arruffata indagine personale che tra “sospetti, impressioni, congetture”, “schiuma davanti alla realtà dei fatti” da rimuovere per giungere alla verità, lo porterà a “dipanare l’intrico”.
Cremaschi alterna discorso indiretto a un dialogo dal netto sapore cinematografico (“Si può perdere il portafogli, l’ombrello, la testa. Non una pistola”), come a presentirne – a desiderarne – la trasposizione in pellicola, con scene icastiche dove lo sguardo la fa da padrone, con ficcanti scambi inframmezzati talvolta da soluzioni volutamente ricercate, rivelatrici della cultura dell’autore. A ciò si affianca un uso estensivo del lessico concreto del giornalismo – espediente impiegato per ricapitolare gli eventi –, l’introiettamento di termini della lingua inglese che conferiscono una dimensione di internazionalità alla vicenda. Siamo insomma al cospetto di uno scrittore dal solido mestiere, in grado di signoreggiare le risorse della narrativa di genere aggiungendovi sprazzi di accesa letterarietà.
La chiusa è secca, quasi affrettata, ma alla fine tutto torna in questo romanzo breve e di agevole lettura, che rimanda a un’epoca ormai lontana, della quale ci giungono echi suggestivi (commovente il riferimento alla Stipel, la società telefonica interregionale piemontese e lombarda, dal 1965 fusa e incorporata alla Sip, essa stessa altro reperto archeologico), anche tematici, con commenti di stampo sessantottino “sulla corruzione di gruppi che detengono imponenti capitali senza saperli usare a fini civili”, i motivi della “repressione sessuale” e del “disordine politico”, della “bimillenaria ipocrisia” della borghesia italica, il ritratto di un mondo criminale che oggi appare forse un po’ datato. Insomma, un testo che vellica la curiosità di indagarne più a fondo l’autore, in un viaggio nella memoria narrativa e culturale del nostro Paese che può riservare affascinanti sorprese.