Ingeborg Bachmann lavorò a lungo sui diversi cicli poetici componenti il suo secondo libro di versi (dopo Il tempo dilazionato) che conosciamo col titolo di Invocazione all’Orsa maggiore. Quando venne dato alle stampe dall’editore Piper, era il 1956, la scrittrice trentenne aveva già attirato l’attenzione critica e del pubblico. Seguendo la minuziosa ricostruzione editoriale da parte di Luigi Reitani veniamo a conoscenza di numerosi particolari riguardanti il continuo tira e molla fra Klaus Piper e Ingeborg sui tempi di consegna del manoscritto, fin da quando l’editore, dopo averla contattata personalmente nel 1951 (su suggerimento del critico letterario Hans E. Holthusen, personaggio controverso per il suo passato da SS), sembrò molto ben disposto sull’opera in divenire che gli era capitata sottomano. Tuttavia Bachmann replicò quasi sempre prendendosi tempo su offerte e proposte (e anche questioni di pagamento) pur rallegrandosi gentilmente del vincolo che con fatica stava costruendosi. I rapporti fra i due furono sempre cordiali, nonostante disappunti e tempistiche. L’attesa dovuta ai vari annunci fatti circolare dall’editore aumentava l’interesse da parte del pubblico, ma i lavori di redazione e correzione si protrassero a lungo, fino a che finalmente il 3 ottobre 1956 l’opera uscì nelle librerie. Piper organizzò una campagna promozionale in grande stile, cura grafica di punta e doppia edizione con copertina rigida e in brossura. Nel giro di vent’anni il volume vendette 22.000 copie.
Questa edizione deve la sua importanza all’enorme lavoro di Luigi Reitani (che ci ha lasciati nell’ottobre 2021), riguardante il commento critico compreso nel sesto volume dell’Edizione salisburghese delle opere complete di Bachmann. Leggerlo nell’edizione italiana, come scrive Hans Höller nella sua nota finale, consente ancor di più la custodia dell’eredità sia critica che poetica di curatore e poetessa. La multiforme sostanza della poesia di Bachmann, soprattutto in quest’opera, non ha categorie facili a cui avvicinarla, né d’altronde sarebbe opportuno “inchiodarla” a situazioni la cui data di scadenza è avvenuta già da tempo. Persino del risvolto datato 1956 l’autrice ebbe di che lamentarsi, e con lei alcuni “lettori” di chiara fama. La “classicità” della seconda raccolta di Bachmann probabilmente (e di questo possiamo accorgercene meglio nell’epoca attuale) non è la parola chiave per interpretarla, né la sbandierata “bellezza” dei versi. Se mai si tratta di un malinteso che porta a oscurare la disperazione per la crescente cattiva coscienza della modernità: gli avvenimenti della Seconda guerra mondiale non le sono estranei. Höller per esempio si è occupato, nel 1982, della componente utopica della lingua inserita nelle poesie attraverso natura, arte e religione, contro le nuove avversità di un mondo estraneo. Sulla poetica di Bachmann, così come sull’importanza della toponomastica italiana presente nell’Invocazione occorre tornare alle 150 pagine del commento di Reitani, tanto assumono le qualità di una storia esistenziale e editoriale, vera epopea del dolore, del sacrificio.
Nei due decenni successivi Ingeborg virò nel regno della prosa, addentrandosi nelle vaste pianure del mondo desolato che abbiamo con lei percorso. Nell’incompiuto Malina (1971, Adelphi 1973) fatti e deliri viaggiano a braccetto. In una sera del 1973 in via Giulia a Roma la scrittrice prese fuoco nel suo letto. Morì il 17 ottobre.