Forse stiamo assistendo, a proposito di Inès Cagnati, a una di quelle naturalizzazioni letterarie attraverso la traduzione che puntualmente segnano la storia della ricezione dei testi tra Francia e Italia. Non solo perché Cagnati, naturalisée française – come lei stessa teneva a precisare – francese non si era mai sentita; ma anche, forse soprattutto, perché le traduzioni della sua opera che Adelphi sta sfornando sono dei capolavori. Ena Marchi, con Génie la matta, aveva svelato un anno fa ai lettori italiani la trama di una prosa “laconica e bruciante, a tratti intensamente lirica”. Lorenza Di Lella e Francesca Scala, adesso, ci consegnano questo Giorno di vacanza “di insolente intensità”.
Si tratta del primo romanzo di Cagnati, pubblicato in Francia nel 1973 con il titolo Le jour de congé. Parigi era in quegli anni un calderone in cui si rimestava l’ultima grande stagione culturale del Novecento. Il magma sociale si cristallizzava nelle pagine di Bourdieu, Foucault satrapizzava al Collège de France, Annie Ernaux era di là da venire. Caldo di stampa, Le jour de congé attira l’attenzione della critica e vince il premio Roger Nimier. Ci si interessa a questa transfuge des classes, figlia di contadini veneti nata nel sud-ovest della Francia, professoressa di Lettere al prestigioso Lycée Carnot, esemplare incarnazione della meritocrazia repubblicana. Tre anni dopo esce Génie la folle, nuovi plausi e premio dei Deux Magots. Qualche intervista, poi un nuovo libro, Mosé ou le lézard qui pleurait (Denoël, 1979), poi un silenzio di dieci anni, poi una raccolta di racconti, Les pipistrelles (Julliard, 1989), ancora un’intervista – per la televisione svizzera – e poi, per quanto è dato sapere, silenzio fino alla morte, avvenuta nei pressi di Parigi nel 2007. La Francia se ne è dimenticata.
Le jour de congé, romanzo d’esordio, è il giorno in cui una routine si spezza e un vuoto viene a crearsi. Giorno di vacanza, appunto, in questa duplice accezione. Galla ha quattordici anni. Allieva interna di un liceo di città, torna a casa due volte al mese, il sabato. Ma questa settimana “è un caso del tutto eccezionale”. Per appianare un litigio con la madre, avvenuto la settimana precedente, Galla inforca la bicicletta e percorre i trentacinque chilometri che la separano da casa. Dove non la vedremo mai entrare. Siamo noi, invece, ad entrare nella sua testa, trascinati nel gorgo dei suoi pensieri attraverso la scrittura in prima persona. Il tempo si dilata, rarefatto, sulla soglia di casa, in un allucinato paraclausithyron. Galla svolge il suo racconto, Galla la stracciona, figlia di emarginati, di gente che vive in una terra di sassi circondata da paludi, lontano dalla valle del fiume che scorre in città. Galla che si vede brutta, convinta che se avesse avuto genitori ricchi e amorevoli, anche lei sarebbe stata bella come la sua amica Fanny. Galla l’affabulatrice, che racconta una bugia perché “avrebbe potuto essere la verità”. Galla, figlia di una madre che piange dando alla luce figlie, perché sono figlie. Figlia di un padre che impicca cani, che le ordina di andarsene. Galla che resta tuttavia nella notte umida, accucciata accanto alla cagna Daisy e al suo cucciolo.
Ancor più che in Génie la matta, dove un acceso lirismo irrora saltuariamente il racconto, lo straniamento legato alla focalizzazione interna si esprime qui in una lingua essenziale: è la prosa del Verismo magico, che è la cifra stilistica di Cagnati. Daisy, la cagna, è la vera figura materna del romanzo. Gli oggetti hanno una loro personalità: “il primo lampione” della città, il preferito, quello che “non appartiene del tutto né alla città né alla campagna”, con il suo “sguardo chino sui passanti”; il grembiule verde, per il quale Galla è capace di provare compassione, “vedendolo così inverosimilmente verde e brutto” – ma “non è colpa sua”; la bicicletta, soprattutto, che è vista come una persona. Anzi, “meglio di una persona”.
Ed è proprio quando Galla riprende la bicicletta che il tempo riprende a scorrere e ad accelerare. Il giorno di vacanza è il lunedì, che si stringe nelle ultime venti pagine. L’interna è tornata al liceo, da cui uscirà “senza dire niente a nessuno”, dopo aver recitato una poesia di Éluard: “Oltre l’attesa / Oltre me stesso ti chiamo / E non so più tanto t’amo / Chi di noi è l’assente”. Al suono di questi versi apparirà il Vero e cadrà l’illusione nella torpida acqua delle paludi, l’acqua stagnante della memoria, lontano dal croscio del fiume, là cederà l’infanzia e tornerà l’eco dei versi di Saint-John Perse citati in esergo: “Infanzia, mio amore, non era che quello? / Infanzia, mio amore! Non c’è che cedere”.