James Purdy, A casa quando è buio, tr. di Floriana Bossi, Racconti Edizioni, pp. 128, euro 16,00 stampa
Ogni volta che leggo un lavoro di James Purdy mi sento un po’ come il figliol prodigo che ritorna a casa. Dopo un periodo più meno lungo speso su altre pagine, dietro altre penne, la scrittura di Purdy mi accoglie sempre a braccia aperte, sebbene le sue non siano pagine da scorrere a cuor leggero, sono tuttavia garanzia di qualità letteraria. Bisogna contestualizzare il background dell’autore e ricordare che non veniva letto né era particolarmente apprezzato dai suoi colleghi, dalla sua America; quella della Grande Depressione, e che fino agli anni ’50-‘60, è sì presente ma non in maniera preponderante. Lo stile dello scrittore risiede dell’accompagnare il lettore nelle storie mano nella mano, senza eccessive ingerenze, e in men che non si dica questi si ritroverà coinvolto nella narrazione. Anche perché tutto quello che riguarda la sua scrittura non assomiglia a nulla di mai letto.
I rebbi delle trame si dipanano come una sinusoide immorale, sebbene a un primo approccio il suo lavoro possa non apparire particolarmente spiccato, e necessita di molteplici letture per cogliere le svariate sfumature che compongono la struttura narrativa e il fil rouge che collega l’insieme. Emerge, a una lettura più attenta, un pensiero moralizzatore dietro i dialoghi – quasi sempre a due – che evidenzia l’ossessione del giudizio altrui come in “Guarda pure senza problemi”, racconto in cui due colleghi spettegolano senza ritegno a proposito di Milo e delle sue esibizioni da culturista sulla spiaggia pubblica. L’invidia che permea le loro parole è paragonabile solo alla critica sprezzante sottintesa da Purdy nel trovare infantile e disdicevole questa loro attitudine comportamentale. Evidenzia un voyerismo particolarmente attuale, ma in fondo a chi importa?
In “Prendi il cappello”, scenario simile: le due protagoniste chiacchierano amabilmente nel salotto di casa, gozzovigliando tra torte e tazze di tè mentre emettono una sequela di aspre sentenze nei confronti di una non ben precisata cugina. La decisione di Purdy di non entrare nei dettagli del gossip in questo preciso caso vuol confondere il lettore che segue il discorso arzigogolato per giungere alla conclusione che, forse, farsi i fatti propri allunghi la vita!
Un altro tema caro all’autore è la ricerca delle proprie origini, o più precisamente il ricucire legami ormai disgregati con i propri familiari, attraverso le figure archetipe di figli alla ricerca di padri e similari. “Perché non posso dirti il perché “ e “Mrs. Benson“ sono incentrati su questo tema. Nel primo caso Paul non sa nulla del padre fino a quando non trova alcune fotografie in una scatola e inizia a custodirle gelosamente fino a rimanerne ossessionato. La madre, che non ha un legame profondo col bambino (che significativamente le si rivolge col nome proprio, Ethel), cerca di sottrargliele senza successo attraverso un sottile tiro alla fune psicologico riduce il figlio allo stato di animale storpio e morente che, per sfuggire al dolore, rimane accovacciato a terra e piegato in due sopra la scatola che la donna minaccia di gettare nel fuoco.
Nel secondo racconto, Wanda e la madre si ritrovano a Parigi dopo anni di assenza di contatti, a disquisire a proposito di Mrs. Carlin, che la madre, Mrs. Benson, aveva conosciuto anni addietro, e che, prendendola sotto un’ala benevola, le aveva svelato la propria sfera privata, senza i luccichii e lo sfarzo a cui aveva abituato tutti gli ospiti delle feste che usava dare in stile Grande Gatsby.
I personaggi di Purdy, o meglio le persone, come riporta correttamente Giordano Tedoldi nella precisa postfazione, citando a sua volta David Means, sono “deformi e traumatizzate, orrendamente bizzarre, si innamorano e si disintegrano e non sembrano muoversi dentro la cornice di una psicologia normale.” Perché Purdy è così: lo si odia o lo si ama, senza sfumature. Senza dubbio rimane la recente ma tardiva scoperta di una mente geniale che sapeva osservare l’ambiente circostante e coglierne al volo il reale contesto, come si intuisce perfettamente in “Sermone”, il racconto che chiude egregiamente la raccolta. Qui parrebbe una figura religiosa di riferimento a parlare dal pulpito a un pubblico che si trova nella stanza per ascoltare le sue parole, nella trepidante attesa di una “parte buona” del discorso.
Ma come scrive l’autore: “E adesso state aspettando il messaggio, la soluzione di tutto il mio discorso. In tutto questo tempo avete pensato Quello che Lui dice è terribile e spaventoso, ma ora verrà la Parte Buona, la parte con il significato… Signore e signori, ascoltate. Io non ho una parte buona da darvi. Il mio unico messaggio, il messaggio che vi porto è che non c’è alcun messaggio. Voi andate da qualche parte perché credete di poterci andare… è questo che state facendo, e quindi non potreste fare altro che sbagliare. Continuate ad agire e non avete niente con cui agire se non le azioni. Quindi alla sera siete condannati alle conferenze e ai libri sperando di salvarvi.”
Grazie a questa stoccata finale si requilibria la bilancia narrativa, facendo tornare magicamente i conti.