La recente uscita di una serie di testi importanti riguardanti la figura affascinante del mistagogo caucasico Georgi Ivanovic Gurdjieff ed il suo insegnamento di “sviluppo armonico” dell’essere, la cosiddetta Quarta via, è l’occasione per presentare la delicata “questione gurdjieffiana” attraverso una dettagliata e, per quanto possibile, approfondita introduzione. L’ articolo è composto da materiali in parte tratti da un precedente libro dell’autore (Walter Catalano, ‘Applausi per mano sola: dai sotterranei del Novecento’, Edizioni Clinamen, 2008), al quale si rimanda per maggiori dettagli.
L’UOMO
“Non è impresa da poco sintetizzare la vicenda terrena di colui che da bambino era chiamato “Tatah”, nell’adolescenza “il Moretto”, più tardi il “Greco Nero”, negli anni della maturità “la Tigre del Turkestan”, e che oggi non è uno qualsiasi ma “Monsieur” o “Mister” Gurdjieff in persona, o anche il “nipote del principe Mukhransky”; o, semplicemente, il “Maestro di Danza” – così, quasi scherzando, ha scritto di sé lo stesso Gurdjieff.
Quest’uomo multiplo ed inafferrabile fa la sua prima, documentabile comparsa sulla scena del mondo occidentale a Mosca intorno al 1911: la sua data di nascita e la storia dei suoi primi quarant’anni sono del tutto congetturali. Sebbene esistano un passaporto ed un’autobiografia, il primo (che reca l’anno di nascita 1877) è quasi sicuramente falso, la seconda, Incontri con uomini straordinari (Adelphi, 1977), troppo vera e perfetta in senso allegorico, simbolico e mitico per esserlo anche in quello banalmente storico.
Ammesso che abbia davvero importanza, l’anno più probabile della sua venuta alla luce sembra essere, in base a recenti studi condotti dal biografo James Moore (Gurdjieff: Anatomia di un mito, Il punto d’incontro, 1993,1999,2015) il 1866. Il luogo, invece, è certo: Alexandropol, per i turchi Gumru, città di confine contesa fra i due imperi e, a secondo della data, ancora appartenente a quello Ottomano o già a quello Russo. Il padre è greco, la madre armena: il cognome Gurdjieff è la versione russa del greco Georgiades, in armeno Gurdjian. Forse proprio da questa promiscuità linguistica e culturale egli saprà trarre la base su cui elaborare la più efficace sintesi fra le civiltà dell’Oriente e dell’Occidente.
Quel lembo conteso d’Asia, alle falde del monte Ararat, era ancora un luogo assiale della terra, in cui i popoli si confrontavano e si mischiavano: turchi, russi, assiri, curdi, persiani, georgiani, armeni e greci. Con essi si intrecciavano e convivevano anche le loro tradizioni religiose: il cristianesimo ortodosso, l’islam sciita, il sufismo, il parsismo, il buddismo sciamanizzato dei pastori tartari, fino ai culti gnostici degli Yezidi curdi.
La famiglia Gurdjieff è povera e numerosa, ma di saldi principi: Ioannas, il padre, è un ex proprietario di armenti impoverito da una pestilenza e costretto per vivere a fare il falegname. È però anche un “ashokh”, un bardo, cantastorie e poeta dell’area transcaucasica, capace di recitare a memoria versi che rimandano ad un passato remoto di quelle regioni: addirittura frammenti in lingua turco-tartara, dell’Epopea di Gilgamesh, il poema epico sumero. Il giovane Georgi, primogenito di tre fratelli, è un bambino intelligente e precoce e la famiglia lo avvia alla carriera ecclesiastica sotto la guida del pope della guarnigione russa di Kars: si conta in seguito di fargli studiare medicina. Il ragazzo, da parte sua, è affascinato dalla scienza e dalla tecnica da un lato e dai fenomeni occulti e dalla“metapsichica” dall’altro. Con l’adolescenza inizia un periodo turbolento e misterioso durante il quale Georgi vaga da un luogo all’altro dell’Asia Centrale, del Nord Africa e dell’Europa, cambiando mille lavori, leciti e meno leciti: da operaio per la Società Ferroviaria Transcaucasica, ad agente del Partito Rivoluzionario Sociale Armeno, a venditore fraudolento di passeri truccati da canarini. Chi ama gli aneddoti può divertirsi a collezionare le “voci” e le leggende su quel periodo, che i buontemponi reputano cose significative: come quella per cui sarebbe stato compagno di scuola e confidente di un altro seminarista georgiano che farà parlare di sé, Josip Vissarionovici Djugasvili, in arte Stalin; o quella che vuole l’ormai anziana Madame Helena Petrovna Blavatsky, fondatrice della Teosofia, perdutamente innamorata del bel ventenne baffuto conosciuto in India… e via di questo passo. In quegli anni egli compie il suo apprendistato spirituale: entra a far parte, o fonda egli stesso, i “Cercatori di Verità”, gruppo interdisciplinare di giovani alla ricerca di se stessi. Il nome coincide con quello dato ai primi gradi iniziatici in certe confraternite sufi centro asiatiche, come i Naqshabandi o i Qalandri e si può ipotizzare che il gruppo nascesse in quell’ambiente.
Con i suoi compagni, secondo l’auto-mitologia descritta in Incontri con uomini straordinari, Gurdjieff intraprende una serie di viaggi ed esplorazioni alla ricerca di una Tradizione Primordiale che unifichi e dia senso ai frammenti sparsi nelle varie religioni. Sempre a proposito di leggende: i candidati ad impersonare il ruolo di altri ipotetici membri del gruppo, cui Gurdjieff avrebbe alluso sotto nomi cifrati in quel libro, sarebbero, secondo congetture più che fantasiose, Pavel Florensky, Karl Hausofer, Sven Hedin ed Hermann Hesse. È una sorta di mitica cerca del Graal. Le sue peregrinazioni lo portano dalle città sepolte del Kurdistan e della Mesopotamia, alle regioni desolate del deserto di Gobi; dalla valle di Giza, presso Il Cairo, dove segue le tracce di un’enigmatica mappa dell’Egitto “prima delle sabbie”, ad un remoto monastero del Kafiristan, dove si arriva solo guidati per mano, ad occhi bendati: la sede centrale della confraternita di Sarmoung, “scuola di saggezza fondata a Babilonia nel 2.500 a.C.”. Secondo alcuni ricercatori, la scuola di Sarmoung esiste davvero, in Afghanistan ed è un ordine sufico. Simbolica o reale che sia, è da questa fonte che Gurdjieff riceve molte profonde intuizioni sulle Danze Sacre e su tutta la simbologia, la psicologia e la cosmologia che costituiscono il suo insegnamento. Scrittori spesso fin troppo fantasiosi come Louis Pauwels (Monsieur Gurdjieff, Mediterranee 1983) o storici più attendibili come James Webb (The Harmonious Circle, Putnam 1980), si sono scervellati per delineare, al posto di questa mitica epopea, un più prosaico romanzo di formazione. Gurdjieff avrebbe vissuto in realtà buona parte di quegli anni a Lhasa, come agente del Servizio Segreto Zarista, cercando, presso il Dhalai Lama, di favorire la penetrazione russa nel Tibet: parafrasando Kim, dunque, avrebbe giocato il Grande Gioco, dalla parte opposta a quella di Kipling (questo in parte giustificherebbe la diffidenza del governo inglese che, per tutta la sua vita, negò a Gurdjieff il visto d’ingresso). La somiglianza del suo nome con quello del Lama Agwhan Dorjieff, precettore del tredicesimo Dhalai Lama, e la testimonianza di un avventuriero che aveva combattuto in Tibet con gli inglesi contro il Lama, crearono un’altra leggenda. Il testimone, Nadir Khan, incontrò Gurdjieff a New York negli anni ’20 e lo scambiò per Dorjieff, i due si salutarono come vecchi camerati ed iniziarono a parlare in tagico: “Siete davvero Dorjieff?” – chiese Nadir Khan. Gurdjieff gli strizzò l’occhio. In realtà, come attestato, fra gli altri, da Alexandra David-Neel che lo conobbe, Dorjieff aveva almeno vent’anni più del suo presunto alter ego ed era un Buryat mongolo: i tratti somatici di Gurdjieff avevano invece ben poco di mongolico. Più sensata pare invece l’ipotesi di Webb che identifica Gurdjieff con un collaboratore di Dorjieff, Ushe Narzunoff, coetaneo di Gurdjieff e che scompare senza lasciare traccia dal panorama storico, più o meno negli stessi anni in cui questi fa le sue prime apparizioni a Mosca. Narzunoff avrebbe avuto una moglie tibetana e due figli, uno dei quali divenuto abate in un monastero buddista. Secondo numerose testimonianze anche Gurdjieff avrebbe ricordato spesso, nei suoi anni tardi, la moglie lasciata in Tibet e i due figli, uno dei quali monaco.
Se anche non fu un agente segreto, la vita di Gurdjieff in quel tempo deve essere stata comunque piuttosto movimentata visto che, come racconta lui stesso, in ben tre occasioni viene raggiunto da “pallottole vaganti” che lo riducono in fin di vita. La prima volta a Creta nel 1896 dove partecipa a fianco della Ethniki Hetaria, una società filoellenica, ai moti anti turchi; la seconda volta nel 1902 in Tibet, presumibilmente durante la guerra anglo-tibetana, e la terza nel 1904 durante la rappresaglia fra Cosacchi e Gouriani in Transcaucasia. Tutte e tre le volte sfiora la morte, tutte e tre le volte si riprende fortunosamente. In quelle occasioni ha modo di riflettere su se stesso. Nonostante abbia raggiunto un certo grado di “poteri” (si vanta di prodezze evidentemente improbabili come “uccidere uno yak a 10 Km di distanza” o “addormentare un elefante nel giro di cinque minuti”), la sua ricerca non l’ha condotto molto lontano, basta un momento di lucidità per scoprire che in fondo: “il fattore determinante delle mie associazioni era soprattutto la rivendicazione del soddisfacimento relativo al cibo, al sesso, oppure… dell’amor proprio, della vanità, dell’orgoglio, della gelosia, dell’invidia e delle altre passioni”. L’unico modo per spezzare la catena risiede nella “forza dell’attenzione permanente e questa forza non si produce nell’uomo se non per mezzo di un fattore che mi inciti costantemente, qualunque sia il mio stato ordinario, a richiamarmi a me stesso”. I cilici, le privazioni e le regole non sono che palliativi, bisogna in realtà rinunciare ad una parte della propria natura. Per Gurdjieff si tratta, in quel momento, proprio della rinuncia a quei presunti “poteri”, tanto faticosamente conquistati: “Faccio giuramento di ricordarmi di non utilizzare mai il potere che possiedo e per mezzo di ciò di impedirmi il soddisfacimento della maggior parte dei miei vizi: così, che io lo voglia o no, mi ricorderò costantemente di richiamarmi a me stesso”.
Testimone di troppe scene di violenza: l’eccidio degli armeni da parte del Sultano, la guerra anglo-tibetana, la tentata rivoluzione russa del 1905, Gurdjieff intuisce i processi sottostanti all’isteria collettiva e si propone di fare qualcosa. “Devo scoprire a tutti i costi un metodo o un mezzo per distruggere la predilezione delle persone per la suggestionabilità che le porta a cadere facilmente sotto l’influenza dell’ipnosi di massa”. A questo scopo, raccoglie materiale ed esperimenta: le cavie sono i suoi pazienti, tossicomani ed alcolizzati che disintossica con l’ausilio dell’ipnosi e della suggestione, nella provincia di Tashkent, massicciamente funestata dall’abuso di oppio, hashish e vodka. In quegli stessi luoghi si presenta come “professore-istruttore” in scienze soprannaturali ed ipnotizzatore professionista, con modi ed atteggiamenti ostentatamente da ciarlatano: una foto di quel periodo lo ritrae in foggia di “mago” da circo o da teatro di paese, con tanto di quinta variopinta dietro le spalle. Nel frattempo accumula anche considerevoli ricchezze con il commercio del petrolio, del pesce, del bestiame, dei tappeti e delle antichità orientali e decide di spostarsi verso occidente: verso la Russia metropolitana.
A Mosca o a Pietroburgo, Gurdjieff viene forse presentato a corte, dove la presenza di maestri spirituali, veri o pretesi, era ormai una consuetudine gradita per lo Zar e la sua famiglia. Anche il “Principe Ozay”, nome che pare avesse assunto all’epoca, figura ipoteticamente in qualche ruolo minore nella serie dei “guru” cortigiani compresa fra Papus e Rasputin. Ovviamente il “Monaco Nero” non permise che venisse minacciata la sua indiscussa egemonia.
Nel 1912 il “Principe Ozay” si sposa a Pietroburgo con Jula Ostrowska, giovane contessa polacca e dama di compagnia della Zarina o, secondo altre versioni, ragazza dal passato torbido “salvata” dal suo maturo compagno: lei ha ventidue anni, lui quarantacinque. In quegli stessi anni Gurdjieff inizia le prove di un balletto a sfondo iniziatico, “la lotta dei magi”, ed affida ad alcuni anonimi allievi la redazione del primo testo divulgativo sul suo insegnamento, Bagliori di verità. Un trafiletto di presentazione del balletto stampato su un giornale moscovita attira l’attenzione di un personaggio che avrà presto una certa importanza: Piotr Demianovich Ouspensky. Per inciso, Ouspensky (1878-1947) resterà con Gurdjieff per tutto il periodo russo. Si stabilirà in seguito a Londra dove svolgerà un importante ruolo di divulgatore e propagatore delle idee gurdjieffiane. Tutti gli intellettuali ed i futuri discepoli inglesi dell’epoca passarono per gli incontri che Ouspensky teneva a Warwick Gardens, prima di attraversare la manica per essere accolti da Gurdjieff stesso. Intorno al 1923 i rapporti tra i due si guastarono irreparabilmente per motivi rimasti oscuri. Ouspensky proibì formalmente ai suoi allievi di vedere Gurdjieff e solo dopo la sua morte, la moglie Sonia Ouspenskaia, cancellò il divieto. Da parte sua Gurdjieff, interrogato sulle pretese di Ouspensky al ruolo di maestro, rispondeva sarcastico: “Ouspensky è un ottimo giornalista”. Comunque sia, tutti i libri di Ouspensky, ed in particolare il suo classico, Frammenti di un insegnamento sconosciuto (Astrolabio, 1978), sono una lettura raccomandabile per chiunque sia interessato a questo insegnamento. Ouspensky è già da tempo uno scrittore e giornalista apprezzato nei circoli intellettuali della Russia zarista: ha scritto novelle e corrispondenze dall’estero sui più noti periodici dell’epoca, un saggio filosofico-scientifico sulla quarta dimensione e soprattutto Tertium Organum (Astrolabio 1983), il libro che in seguito gli aprirà le porte del mondo anglosassone.
Nel 1915 è appena tornato, a causa dello scoppia della guerra mondiale, da un lungo viaggio, alla ricerca del miracoloso, in India e a Ceylon. Non è un uomo che si accontenta facilmente: il mito del misticismo orientale ha aperto scarse brecce nella sua corazza. Né l’ashram di Aurobindo, né la Società Teosofica, né i mille guru e dervisci vaganti lo hanno convinto, non può avere maggiori speranze “questo uomo dal viso di raja indiano o di sceicco arabo, che mi immaginavo meglio in burniùs bianco o in turbante dorato”. Per di più Gurdjieff tiene il cappello in testa, ostenta modi bruschi, parla un russo scorretto con forte accento dialettale: è facile immaginare la diffidenza di un sofisticato membro dell’intellighentsia. Inoltre, non manca di specificare il maestro, gli allievi versano un contributo annuo di mille rubli per le spese, perché “le persone deboli nella vita si rivelano altrettanto deboli nel Lavoro”. La cifra infatti non è indifferente, ma come Ouspensky potrà verificare da lì a poco, ben pochi dei membri effettivi del gruppo, in gran parte artisti o studenti, si possono davvero permettere una tale spesa. Gurdjieff sta ancora recitando ed Ouspensky è abbastanza intelligente da capirlo e da tenere duro: per otto anni sarà un allievo fedele, fino alla frattura dolorosa e irrevocabile. A lui si deve il libro forse più noto sull’insegnamento, Frammenti di un insegnamento sconosciuto, pubblicato nel 1949 con piena approvazione di Gurdjieff ma, paradossalmente, senza quella definitiva dell’autore, morto nel ’47 nella vana attesa di una rivelazione da parte dei maestri del suo ex-maestro, la cui via egli considerava ormai un “ramo degenere”. Oltre ad Ouspensky si ritrovano, fra Mosca e Pietroburgo, una trentina di allievi, fra i quali il compositore e pianista ucraino Thomas de Hartmann (1885-1956). Per inciso, questi fu il talento musicale che formalizzò in termini musicali “colti” la creatività naturale di Gurdjieff. Questi di solito fischiava o cantava una melodia, o la improvvisava su un organetto a pompa, o sulla chitarra e de Hartmann la armonizzava al pianoforte. In questo modo furono composti almeno un centinaio di brani più o meno lunghi.
Esistono diverse pregevoli edizioni discografiche di queste opere. Altri musicisti fortemente influenzati dalle idee di Gurdjieff sono stati, in anni recenti, il jazzista americano Keith Jarrett, il chitarrista inglese Robert Fripp ed il cantautore italiano Franco Battiato.
Thomas de Hartmann fu, quindi, trascrittore e raccoglitore delle numerose opere musicali di Gurdjieff e la moglie Olga, per anni segretaria e “redattrice” di quelle letterarie (Thomas e Olga de Hartmann, La nostra vita con il Signor Gurdjieff, Astrolabio 1974). Altro allievo illustre fu il dottor Leonid Styoernval, eminente psichiatra.
La guerra prima e lo scoppia della rivoluzione poi, ostacolano l’attività del gruppo. Il maestro pensa bene di abbandonare le città ormai preda del caos, per condurre chi è disposto a seguirlo in un luogo più tranquillo: Essentuki, a nord del Caucaso. Lì inizia una serie di esperimenti psicosomatici intensivi con un gruppo di circa tredici allievi ed organizza piccole attività commerciali come la vendita di filati di seta per il sostentamento della comunità. La necessità primaria è quella di convivere con le Guardi Bianche, le Guardie Rosse e perfino gli squadroni verdi degli anarchici di Nestor Machno, tutti molto attivi in quella zona e poco inclini alle discussioni filosofiche. Durante una breve occupazione bolscevica il gruppo viene prudenzialmente battezzato con un nome del tipo “Società Idealistica Internazionale dei Lavoratori”: il “compagno” Gurdjieff decide però che è ora di spostarsi di nuovo. Con il pretesto di una spedizione scientifica e mineraria nelle montagne del Caucaso, tutta la “società idealistica” (escluso Ouspensky che abbandona il gruppo e che fuggirà dalla Russia per proprio conto) parte alla volta di Tiflis, vicino al confine turco. L’avventurosa traversata della catena del Caucaso si svolge in costante pericolo di vita, fra briganti, pattuglie armate di opposte fazioni e condizioni climatiche proibitive. Per ben cinque volte vengono attraversate le linee dei diversi schieramenti: mostrando un lasciapassare sbagliato si rischia l’immediata fucilazione. A Gurdjieff spetta il delicato compito di segnalare agli altri quali credenziali è il caso di esibire: se si attorciglia il baffo destro si parteggia per Denikin, se il sinistro per Lenin. Fortunosamente il gruppo arriva a destinazione. Anche a Tiflis, al momento menscevica, la situazione è pericolosamente fluida. In quell’atmosfera caotica nasce l’”Istituto per lo sviluppo armonico dell’Uomo” e nuovi allievi entrano a farne parte: i coniugi Alexandre e Jeanne de Salzmann (quest’ultima diventerà la maggiore esperta nei movimenti sacri insegnati da Gurdjieff e sarà la sua erede spirituale nonché conduttrice a livello mondiale della “Fondazione Gurdjieff”). I due nuovi membri si distinguono subito, rispettivamente come scenografo e prima ballerina, nell’allestimento di una dimostrazione pubblica dei Movimenti Sacri, elaborati da Gurdjieff sulla base, almeno parziale, delle danze dervisce. Nella primavera del 1920 l’Istituto si trasferisce a Batoum, sul Mar Nero e da lì, finalmente, riesce a lasciare la Russia imbarcandosi per Istambul. Sfuggiti ad una rivoluzione, i profughi, si ritrovano nel bel mezzo di un’altra: Kemal Ataturk sta conducendo la sua opera di massiccia occidentalizzazione, vieta ai cittadini turchi di indossare il fez e lo shador e fa chiudere di forza molte confraternite sufiche. Gurdjieff, che intrattiene relazioni più che cordiali con i Mevlevi, i dervisci ruotanti, e che continua a lavorare all’allestimento della sua opera iniziatica La lotta dei Maghi, non si sente troppo a suo agio. Nel giro di un anno, regolarizzati i passaporti, tutta la comunità entra in Europa. La prima tappa è Berlino, dove Gurdjieff intenta una causa legale per entrare in possesso dell’Istituto Dalcroze a Hellerau, ma la perde e resta senza una sede per il suo gruppo. Tenta allora di ottenere un visto per l’Inghilterra, dove Ouspensky si è già stabilito da tempo e gli sta spianando il terreno, ma l’accesso gli vene risolutamente negato per motivi non noti. Opta alla fine per Parigi, dove acquista, con una generosa somma fornitagli in buona misura dai discepoli inglesi di Ouspensky, il Prieuré des Basses Loges a Fontainbleu-Avon: il luogo che sarà la sua residenza per vari anni e che diverrà universalmente noto come il “Prieuré”. Il gruppo di esuli russi si apre anche all’esterno accogliendo vari personaggi pubblici, in gran parte reclutati nel mondo degli artisti e degli intellettuali, quasi tutti inglesi o americani: fra questi, Alfred Richard Orage, fondatore di New Age, la migliore rivista letteraria d’avanguardia britannica; Margaret Anderson, direttrice di The Little Review, che aveva introdotto le avanguardie storiche negli Stati Uniti; l’ex analista junghiano Maurice Nicoll; e la scrittrice neozelandese Katherine Mansfield.
Quando arriva al Prieuré, nel 1922, la Mansfield ha poco più di trent’anni, è tisica all’ultimo stadio, ha appena lasciato il marito e sta cercando, più che altro, il posto giusto per morire. Dopo le iniziali perplessità, intuendo le sue disperate condizioni di salute, Gurdjieff la accoglie. La fa alloggiare nell’ala nobile del castello, ma, dopo qualche tempo, la trasferisce nelle stalle, in un soppalco appositamente costruito per lei e stupendamente affrescato da de Salzmann. Le esalazioni calde del fiato delle mucche – dice – sono salutari per la sua malattia. Katherine è contenta. Le ultime pagine del suo diario e le lettere al marito testimoniano un’estrema lucidità: non l’illusoria speranza di vivere, ma la serena accettazione della morte. Ouspensky ci riporta un frammento dell’ultimo dialogo avuto con lei: “Ho compreso che questo è vero e che non vi è altra verità. Voi sapete che da un lungo tempo ho considerato tutti noi, senza eccezione alcuna, come naufraghi perduti su un’isola deserta, ma che non lo sanno ancora. Ebbene, quelli che sono qui lo sanno. Gli altri, là, nella vita, pensano ancora che una nave arriverà domani e che tutto ricomincerà come ai bei tempi. Ma coloro che sono qui sanno già che non ci saranno bei tempi. Sono molto felice di essere qui”.
Tre settimane dopo, l’ennesima, più forte, emottisi la stronca. Questa morte non giova alla reputazione di Gurdjieff: i periodici scandalistici inventano le storie più turpi e da più parti gli si muovono accuse di plagio, di esercizio abusivo della medicina, di omissione di cure, ecc… Secondo Ouspensky la sua generosità fu ripagata “con menzogne e calunnie”.
Scandali a parte, la vita al Prieuré scorre semplice e regolare, divisa fra lavoro spirituale e lavoro manuale. Si sperimenta il “super-sforzo”: portare ai limiti estremi la capacità di attenzione in situazioni di tensione fisica e mentale. “La giornata cominciava alle sei – racconta Fritz Peters, allora undicenne (La mia fanciullezza con Gurdjieff, SE 2003) – con una colazione a base di caffè e pane tostato. Dalle sette in poi, ognuno svolgeva i compiti assegnatigli, il che occupava l’intera giornata con la sola interruzione dei pasti: pranzo alle dodici (solitamente minestra, carne, insalata e un dolce); tè alle quattro del pomeriggio; una cena semplice alle sette di sera. Dopo cena, alle otto e mezza, c’era ginnastica, o danza, nel cosiddetto study-house. L’orario era identico per sei giorni alla settimana, con l’unica eccezione del sabato pomeriggio, quando le donne si recavano al bagno turco; all’inizio della serata si svolgevano nello study-house saggi di danza per gli ospiti che di frequente venivano in visita il fine settimana; dopo il saggio gli uomini si recavano al bagno turco, e dopo il bagno si svolgeva una festa, o un pranzo particolare. I bambini prendevano parte a queste cene notturne come camerieri o aiutanti di cucina. La domenica era giorno di riposo”.
In quegli anni e nei seguenti anni ’30 si moltiplicano le influenze del pensiero di Gurdjieff sui maggiori alfieri dell’avanguardia artistica francese e internazionale. René Daumal, reduce dalle sperimentazioni patafisiche e parasurrealiste del Grand Jeu e studioso di sanscrito (e proprio Daumal scriverà le pagine più belle e illuminanti su questo insegnamento: dall’alpinismo trascendentale del Monte Analogo, al fulminante poema in prosa La Guerra Santa, alla rievocazione visionaria dell’agapè alcolica gurdjieffiana di La Gran Bevuta – tutti editi da Adelphi). Attraverso Daumal, Antonin Artaud concepirà l’utopia del Teatro della Crudeltà, dai Movimenti Sacri in cui sensazione, sentimento e pensiero si equilibrano – le danze dervisce di Gurdjieff che tanto scalpore fecero a Parigi ed a New York nel 1924 – al tentativo di riappropriazione del sacro da parte di certe avanguardie teatrali che non dimenticarono mai la lezione del “maestro di danza”. Attraverso Artaud, fino a Jerzy Grotowsky, a Peter Brook, ad Alejandro Jodorowsky. L’architetto Frank Lloyd Wright la cui moglie Olgivanna Hinzenberg, ex allieva di Gurdjieff, li fece incontrare nel 1934. Il gruppo, chiamato “La Cordata”, perché i membri dovevano aiutarsi come gli scalatori in montagna, composto interamente da donne, tutte lesbiche tranne una, donne talentuose, dall’intelligenza fuori dal comune: Jane Heap e Margaret Anderson, fondatrici della rivista Little Review; Kathryn Hulme, autrice del libro Storia di una monaca; Solita Solano, scrittrice, editrice e la sua compagna Janet Flanner; Georgette Leblanc, attrice, amante e ispiratrice di Maeterlinck e intima amica di Jean Cocteau; Dorothy Benjamin, vedova di Enrico Caruso.
Da sfatare infine il mito scandalisticamente diffuso dal celeberrimo Il mattino dei maghi, (Mondadori, 1963), di Louis Pauwels e Jacques Bergier, riguardante i pretesi contatti fra Gurdjieff ed il nazismo. Dal momento che “Monsieur Bon Bon” – come era chiamato nel suo quartiere per l’abitudine di distribuire caramelle ai bambini – visse sia l’occupazione che la liberazione di Parigi, se avesse avuto anche solo qualche responsabilità minore, o gli fosse stato attribuito concretamente il minimo sospetto di collaborazionismo, difficilmente sarebbe sfuggito alla vendetta dei liberatori che non ebbero certo la mano leggera in quei giorni. La sua unica conseguenza giudiziaria dopo l’arrivo degli Alleati, fu un fermo di pochi giorni per ‘traffico di valuta estera’, reato candidamente confessato dallo stesso Gurdjieff a Fritz Peters con queste parole: “A me non interessa chi vince la guerra. Non ho patriottismo né grandi ideali di pace. Gli americani, con gli ideali, uccidono milioni di tedeschi; i tedeschi, con gli ideali, uccidono inglesi, francesi, russi…Tutti hanno ideali…tutti uccidono. Io ho un solo scopo: l’esistenza per me stesso, per gli allievi e per la mia famiglia – anche questa grande famiglia…Perciò…tratto con i tedeschi, con i gendarmi, con tutti questi esemplari pieni di ideali che fanno ‘mercato nero’. Risultato: mangio bene…e posso aiutare anche tante persone” (Fritz Peters, I miei anni con Gurdjieff, Adea, 1994).
Un’altra maldicenza ricorrente, questa volta meno fumosa, è quella che riguarda i costumi sessuali di Gurdjieff. In generale i gurdjieffiani preferiscono sorvolare sulla natura esplicitamente tantrica delle relazioni avute dal maestro almeno con alcune delle sue allieve. È raro che, sull’argomento, si raggiunga l’obbiettività di John Bennett, unico memorialista gurdjieffiano ad ammettere: “Certe volte conduceva una vita rigorosa, pressoché ascetica, senza avere alcun rapporto con le donne. Altre volte, sembrava che la sua vita sessuale si sfrenasse e bisogna dire che i suoi periodi di scatenamento erano più frequenti di quelli ascetici…Non poche donne sue allieve gli partorirono dei bambini…” (John G. Bennett, Gurdjieff: Un nuovo mondo, Roma, Ubaldini, 1996).
L’INSEGNAMENTO
Nell’agosto del 1944 un vecchio signore dall’aspetto vagamente orientale uscì dal suo appartamento al numero 6 di Rue des Colonels-Renard ed attraversò le vie concitate di una Parigi in cui gli occupanti tedeschi si preparavano a fare i bagagli. Era diretto alla camera d’ospedale dove un giovane di poco più di trent’anni stava morendo per le conseguenze dell’infezione ad una ferita procuratagli da un bombardamento americano. Il giovane si chiamava Luc Dietrich, aveva scritto due romanzi ed era indubbiamente un allievo molto dotato – sconvolto dalla scomparsa dell’amico René Daumal si era ritirato in Normandia a studiare il comportamento dei pazzi in un manicomio ma il villaggio in cui risiedeva era stato bombardato dagli Alleati durante lo sbarco. La ferita alla testa riportata da Luc produsse un ascesso cerebrale che lo condusse alla morte dopo tre giorni di agonia. Il vecchio signore invece si chiamava Georgi Ivanovic Gurdjieff e sotto molti aspetti lo si sarebbe potuto dire un maestro.
Maestro e allievo si guardarono senza parlare: non c’era molto da dire. Poi il maestro depose nelle mani tremanti dell’agonizzante il dono che aveva portato con sé: un’arancia. Molti uomini intelligenti, come lo scrittore, utopista e filosofo Lanza del Vasto, amico di Dietrich, che si auto investì del ruolo di testimone dell’incontro, volendo troppo capire non compresero un gesto semplice e riferirono scandalizzati dell’atteggiamento meschino ed insensibile che quel gesto esprimeva. In realtà un gesto è uno specchio: sugli specchi Gurdjieff aveva costruito il suo apostolato.
“Per via della sua reputazione – ha scritto Fritz Peters – le persone raramente venivano a contatto con un individuo chiamato Gurdjieff; esse incontravano piuttosto l’immagine che si erano precedentemente create nella loro mente”. E perché questa immagine infrangesse sempre e comunque le aspettative più ovvie, perché l’incauto postulante non si trovasse di fronte un clichè ma un essere autentico, capace di dare o di togliere ma soprattutto di disseminare conoscenza, Gurdjieff fu costretto ad indossare spesso una maschera di apparente fraudolenza per percorrere una via aspra e difficile, quella che i sufi chiamano la “via di malamat”: la “via del biasimo”. Per esempio – testimonia Henri Tracol (La vera domanda vive. G. I. Gurdjieff un richiamo vivente, Psiche 2010) – non ha mai esitato a far sorgere dubbi su se stesso con il tipo di linguaggio che usava, con le sue contraddizioni calcolate e col suo comportamento, ad un punto tale che la gente intorno a lui, in particolare chi aveva la tendenza ad idolatrarlo ciecamente, fosse finalmente costretta ad aprire gli occhi sul caos delle sue reazioni”: da qui la necessità di confondere le acque, di camuffarsi, di barare su tutto quello che riguardava la sua identità personale: quasi a ricordare che quel che davvero contava non era la sua persona, ma l’insegnamento di cui era portatore. Dice un motto zen: se qualcuno vi indica la luna dovete guardare la luna, non il dito puntato ad indicarla. Chiunque sia stato quindi quest’uomo certamente straordinario, che molti hanno cercato di classificare in qualche categoria, ma che ad ogni categoria è sfuggito: autore di libri senza essere scrittore, di musiche senza essere musicista, “maestro di danza” per vocazione, cuoco raffinato, attore situazionista se mai ve ne fu uno, esseno, tantrista, sufi o “incrocio fra uno gnostico ed un dadaista” – come disse di lui Henry Miller – poco importa. Esiste un insegnamento, preciso e raggiungibile, e questo è un dato di fatto.
“Gli uomini non sono uomini”, dice in sostanza Gurdjieff, e quando si riferisce all’uomo “così com’è” mette sempre la parola fra virgolette. Il problema essenziale si riduce a questo: uscire dalle virgolette.
Il primo ostacolo, quello fondamentale, è la nostra stessa illusione: illusione di essere, di avere un io unico, di poter fare. “Tutto accade. Tutto ciò che sopravviene nella vita di un uomo, tutto ciò che si fa attraverso di lui, tutto ciò che viene da lui, tutto questo accade… L’uomo è una macchina. Tutto quello che fa, tutte le sue azioni, le sue parole, pensieri, sentimenti, convinzioni, opinioni, abitudini, sono i risultati di influenze esteriori… movimenti popolari, guerre, rivoluzioni, cambiamenti di governi, tutto accade… L’uomo non ama, non desidera, non odia, tutto accade”, afferma Gurdjieff (Frammenti di un Insegnamento sconosciuto). Per poter fare bisogna prima essere e per poter essere bisogna prima aver preso coscienza della propria fondamentale inesistenza. La dichiarazione può suonare sostanzialmente scandalosa ad un orecchio occidentale, ed ecco sollevarsi comode accuse, da parte di molti, a denunciare una dottrina inumana e crudele, laddove si dovrebbe parlare piuttosto di “obbiettiva imparzialità”. In Gurdjieff il concetto di benevolenza e di misericordia non si associa con quello di dolcezza: qualcuno giustamente lo disse “uomo di spietata compassione”. Un altro uomo venuto a portare non la pace, ma una spada. D’altronde l’unica cosa simile ad una definizione che Gurdjieff abbia mai dato di sé, oltre a “maestro di danza” o “commerciante in energia solare”, è stata quella di “esoterista cristiano”; ma prontamente aggiungeva: “Il Cristianesimo dice esattamente questo, amare tutti gli uomini. Impossibile. Allo stesso tempo è assolutamente vero che è necessario amare. Ma prima bisogna essere, solo dopo si può amare. Sfortunatamente, col passare del tempo, i moderni Cristiani hanno adottato la seconda metà, amare, ed hanno perso la prima, la religione che avrebbe dovuto precederla. Sarebbe stupido da parte di Dio chiedere all’uomo ciò che questi non può dare”.
La nostra vita, così com’è, è solo reazione meccanica a stimoli esterni: quello che chiamiamo io è un groviglio confuso di piccoli io in perenne conflitto fra loro. Non c’è unità in noi: “l’uomo è un plurale. Il nome dell’uomo è legione”. Da qui la necessità di costruirsi un Centro di Gravità, o Centro Magnetico, costituito dall’Insegnamento, intorno al quale agglutinare un certo numero di io e procedere dalla molteplicità verso l’unità. La via è data dallo sforzo cosciente e dalla sofferenza volontaria. Lo sforzo cosciente è attenzione, presenza, ricordo di sé; la sofferenza volontaria è invece l’abbandono delle proprie certezze, delle proprie opinioni, della propria affermazione meccanica di se stessi, del desiderio di rassicurazione, del conforto intellettuale del proprio senso di sé con le sue pretese di importanza e di onniscienza. Lo sforzo consiste anche nello smascheramento delle emozioni negative – ansia, rabbia, autocommiserazione, vanità, amor proprio, ecc. – dell’immaginazione, cioè il credersi ciò che non si è, e dell’identificazione, concetto non dissimile da quello che i Buddhisti chiamano “attaccamento”. I fini di questo sforzo non sono morali o moralistici: si può parlare con freddezza ed efficacia di controllo della dispersione energetica nel contesto generale della “macchina” umana. Viene dichiarata interiormente quella che René Daumal chiama la Guerra Santa (La conoscenza di sé, Adelphi 1972): la nostra “essenza” – ciò che è innato e “naturale” in noi – cresce nutrendosi della “personalità” – ciò che è indotto, acquisito dall’esterno – che normalmente la soffoca. In questa guerra – e non si può non pensare a Krishna ritto sul cocchio accanto ad Arjuna nel Baghavad gita – sono abbattute spietatamente tutte le illusioni: prima fra queste, l’assai poco utile convinzione di avere “in dono” un’anima. Niente è in dono, tutto si paga: se una tale possibilità esiste, anche questa va pagata ed il prezzo è alto. “Se in un uomo vi è qualcosa capace di resistere alle influenze esteriori, allora proprio questo qualcosa potrà resistere anche alla morte del corpo fisico… Se in un uomo vi è qualche cosa, questo qualcosa può sopravvivere; ma se non vi è niente, allora niente può sopravvivere”.
La condizione umana reale e consapevole è il riconoscimento di quello che Gurdjieff chiama “l’orrore della situazione”, ma la maggioranza degli uomini preferisce essere blandita e proseguire indisturbata il suo sonno. Frasi come “beato chi ha un’anima, beato chi non l’ha, ma sventura e dolore a chi ne ha solo l’embrione”, noto aforisma di Gurdjieff, raggelano i facili entusiasmi degli apologeti del New Age, disturbano i dispensatori di balsami consolatori ed i confezionatori di manuali su “come ottenere l’Illuminazione in 20 lezioni”. Così come suona sgradevole al sentimentalismo del tipico uomo religioso, il concetto che “Per essere capaci di aiutare gli altri, occorre innanzi tutto imparare ad aiutare se stessi… Quando un uomo si vede realmente quale è, non gli viene in mente di aiutare gli altri – si vergognerebbe di questo pensiero… Soltanto un egoista cosciente può aiutare gli altri”.
Né il sentimentalismo, né il moralismo appartengono all’insegnamento: “Ciò che è necessario è la coscienza. Noi non insegniamo la morale. Insegniamo come si può trovare la coscienza. Alla gente non piace sentirselo dire. Dicono che non abbiamo amore, solo perché non incoraggiamo la debolezza e l’ipocrisia ma, al contrario, rimuoviamo tutte le maschere. Chi desidera la verità non parlerà mai di amore o di cristianesimo, perché sa quanto ne è lontano”.
La via di Gurdjieff è una via religiosa nel senso più propriamente etimologico del termine: religare, cioè riconnettersi, ricollegarsi. Negli ambienti gurdjieffiani l’applicazione dell’insegnamento viene chiamato “il Lavoro”. La scelta del nome chiarisce la natura del processo che si vuole mettere in atto. Ouspensky, il divulgatore più noto delle idee di Gurdjieff, chiama questo percorso “Quarta Via”, contrapposta alla via del “fakiro”, che lavora solo sul corpo; del “monaco”, che lavora solo sulle emozioni; e dello “yogi”, che lavora solo sulla mente. Queste vie sbilanciate possono produrre solo “stupidi santi” (che sono in grado di fare tutto ma non sanno cosa fare) o “deboli yogi” (che sanno cosa fare ma non possono farlo). La Quarta Via invece è la “Via dell’Uomo Astuto”, quella che equilibra il lavoro delle prime tre, sviluppando armonicamente tutti gli aspetti dell’essere e permettendo al praticante di non abbandonare la sua vita ordinaria per rinchiudersi in un monastero, ma, come dicono i sufi, di “essere nel mondo ma non del mondo”.
Negli scritti di Gurdjieff in realtà non viene mai menzionata una Quarta Via, si parla piuttosto, nel suo monumentale romanzo di fantascienza esoterico Racconti di Belzebù al suo nipotino, di antiche vie basate su “fede”, “speranza” e “amore”, impulsi di origine divina ma ormai talmente distorti e sviliti dall’uomo attuale, da essere inservibili. L’immaginario profeta Ashiata Shiemash scopre una nuova via basata sulla “coscienza morale obbiettiva”, anch’essa di origine divina ma così rara nel mondo da essersi preservata incorrotta ed essere quindi ancora “attiva”: tale coscienza è divenuta inconscia e deve quindi essere risvegliata. Interessante il racconto fantastico di questo Belzebù, un alieno che, con la sua nave interplanetaria, intraprende una missione nel tempo-spazio per salvare gli esseri della Terra e che, al suo ritorno in patria, racconta al nipotino cosa ha visto e vissuto durante la sua esperienza tra i terrestri. L’uomo è un essere tricentrico o “tricerebrale”; i tre centri o “cervelli” devono funzionare in modo armonico e non sbilanciato come di norma. Stomaco (e tutto quel che si trova al di sotto di questo), cuore e testa o, se si preferisce, corpo, emozioni e intelletto, devono equilibrare le loro funzioni e non interferire fra loro. Non bisogna quindi sacrificare o mortificare nessuna delle parti dell’uomo, ma bilanciarle e restituirle alla sfera appropriata: “Meriterà il nome di uomo e potrà contare su ciò che è stato preparato per lui dall’Alto, solo colui che avrà saputo acquisire i dati necessari per conservare indenni sia il lupo sia l’agnello che gli sono stati affidati”.
Se tipi diversi di uomini, guidati solo da uno dei loro centri – l’intellettuale, l’emozionale, il sensitivo-motore – sono imprigionati in uno schema prestabilito, il quarto tipo di uomo, che ha equilibrato i tre centri, può cominciare ad assaporare i primi barlumi di libertà. Un’idea fondamentale collegata con questa è la differenza fra conoscenza e comprensione: la prima è fondata su un solo centro, abitualmente il centro intellettuale; la seconda è tricentrica, passa cioè per tutte le facoltà. Ciò che è compreso, cioè contemporaneamente capito, sentito e percepito, ci appartiene davvero; la semplice conoscenza è invece del tutto strumentale e aleatoria. Da qui la scarsa considerazione di Gurdjieff per l’uso puramente intellettuale, teorico delle idee dell’Insegnamento: senza la comprensione e quindi la pratica, non si può che fraintendere.
Per tentare di controllare la macchina però, bisogna prima studiarne il funzionamento. Tutto comincia da un’osservazione “obiettivamente imparziale” di se stessi. Per usare le parole di Margaret Anderson (L’inconoscibile Gurdjieff, Gremese 2008): “I primi passi verso la libertà sono l’auto osservazione ed il ‘conosci te stesso’. Il sistema di Gurjieff inizia con l’osservazione scientifica neutrale di se stessi – con l’esame del proprio corpo in modo scientifico: inizialmente, basandosi sul centro fisico; più tardi, facendo osservazioni sul centro mentale e sul centro emotivo… il corpo è l’unico strumento col quale lavorare. Fatene un buon strumento. Non tollerate che sia esso a controllarvi… I nostri corpi sono dei ‘fertilizzanti’ per l’anima”. Anche nell’insegnamento di Gurdjieff, l’idea di base è quella dell’identità fra il micro ed il macrocosmo: l’uomo è l’immagine dell’universo e segue le stesse leggi. Alla complessa psicologia, la sola aperta alle nostre possibilità esplorative, che abbiamo appena cercato di tratteggiare, si connette una ancor più complessa cosmologia. Uno storico delle religioni, in termini tecnici, la etichetterebbe probabilmente come “emanazionista” e “gnostica”. A fondamento della manifestazione vi sono due leggi cosmiche universali: la legge del Tre (Triade) e la legge del Sette (Ottava). La prima legge postula come ogni fenomeno risulti dall’incontro di tre differenti forze: il pensiero scientifico osserva invece solo la presenza di due forze (positivo e negativo magnetici; cellula maschio e femmina, ecc…), ma è ignaro della terza. Gurdjieff chiama queste forze: 1) Santa- Affermazione, 2) Santa-Negazione, 3) Santa-Riconciliazione, oppure 1) forza attiva o positiva, 2) forza passiva o negativa, 3) forza neutralizzante.
Le tre forze sono osservabili all’esterno ed all’interno di noi, ma non è affatto facile riconoscerle, specialmente la terza forza. In termini più ordinari si potrebbe parlare anche di impulso, resistenza, conciliazione. Le triadi si succedono in “catene” in cui “il maggiore si fonde con il minore per realizzare il medio e così diviene o maggiore per il precedente minore o minore per il successivo maggiore”. Inutile dilungarsi sulle analogie con altre tradizioni: la Trinità cristana di Padre, Figlio e Spirito Santo in cui, non a caso, quest’ultimo è il “Paracleto”, l’intercessore; la Trimurti indù di Brahama, Shiva e Vishnu; i tre Gunas del Sankhya, Rajas il principio dinamico, Tamas il principio statico e Sattva l’equilibrio; il Sale, Zolfo e Mercurio dell’Alchimia; lo Yin e lo Yang unificati nel Tao; i tre triangoli della Quabbalah. La legge del Sette, invece, fornisce la sistematizzazione del corso dei movimenti di una forza nello svolgere il processo di completamento di un qualsiasi fenomeno: lo sviluppo della frequenza delle vibrazioni, ascendente o discendente, della forza passa attraverso sette gradi, fasi o “note” disposte lungo una scala armonica, con due prevedibili punti di stallo (proprio dove mancano i semitoni tra mi-fa si-do nella scala maggiore mi-re-do-si-la-sol-fa-mi). Questa legge si può chiamare “legge della discontinuità delle vibrazioni”. Nell’universo tutto è vibrazione, ma in ogni scala di trasmissione di queste, ci sono sempre due punti dove le vibrazioni rallentano e richiedono uno shock esterno per poter continuare nella stessa direzione. Senza shock esterno il percorso deraglia e cambia traiettoria: questo succede all’inizio (mi-fa) ed alla fine (si-do) dell’ottava. In tal modo si spiegano, per esempio, il rilassamento dello sforzo e le deviazioni dallo scopo originale in ogni impresa umana: una stessa perversa transizione porta dal Sermone della Montagna all’Inquisizione o dalla “libertà, fratellanza ed uguaglianza” rivoluzionarie a Napoleone e a Stalin. Se “ciò che è in alto è come ciò che è in basso”, anche questa legge si applica sia all’esterno che all’interno di noi: sul piano cosmico l’ottava discendente del cosiddetto “Raggio della Creazione”, che dall’Assoluto porta allo sviluppo progressivo dei mondi, colma il primo intervallo do-si con il “Fiat” divino ed il secondo fa-mi con la funzione della vita organica sulla Terra, vero e proprio organo di percezione del pianeta (“mangiando me stesso, mi mantengo”, concetto precursore dell’idea geochimica della funzione della Biosfera e della funzione della percezione nel concetto ecologista di “Gaia”); analogamente sul piano della realizzazione umana, l’ottava ascendente che porta l’uomo dal sonno meccanico all’essere reale, colma i due intervalli con lo sforzo consapevole e la sofferenza volontaria proposti dal Lavoro. Nello spazio compreso fra queste due ottave è racchiuso il destino dell’uomo: essere una pedina dell’ottava discendente, svolgere passivamente il proprio ruolo di trasformatore di energia, con tutte le creature viventi, e venire riassorbito a suo tempo nel substrato indifferenziato come parte dell’ecologia cosmica; oppure entrare di forza nell’ottava ascendente, partecipare di un compito più alto, essere attivo. “Nell’universo tutto è materiale e per questo motivo la Grande Conoscenza è più materialista del materialismo…”.
In questo modo il cerchio si chiude, niente è casuale in questo sistema in cui ognuno può scegliere se seguire la corrente generale, manifestando un’esistenza semi conscia e generando un grado di energie rudimentali che vengono usate dal cosmo ad un solo livello; o invece cercare di “essere”, di evolversi consapevolmente, e, applicando il principio “alchemico” della separazione dello “spesso dal sottile”, muoversi verso la capacità di ricevere e generare energie più raffinate, svolgendo un servizio più alto per le forze della creazione. In entrambi i casi niente viene sprecato: tutto in natura è “cibo” per qualcosa; tutto viene utilizzato. L’azione universale e coordinata delle due leggi è esemplificata dal simbolo dell’Enneagramma: un cerchio che include un triangolo equilatero intrecciato con un’altra figura a sei lati. Dei nove lati che lo compongono, sei sono ottenuti da 1 diviso per 7 (che produce un numero infinito in cui non compare mai il 3, il 6 e il 9); gli altri da 1 diviso per 3 (che produce una serie infinita di 3, di 6 e di 9). I punti in cui i lati toccano il cerchio sono numerati da uno a nove. Il cerchio simbolizza lo zero, il serpente ermetico che si morde la coda: in realtà non si tratta di un cerchio ma di una spirale, perché il simbolo non è statico ma dinamico. L’Enneagramma rappresenta ogni processo che si mantiene da solo per autorinnovamento: per esempio la vita. Per questo, secondo Gurdjieff, è “il moto perpetuo ed anche la pietra filosofale degli alchimisti”.
Tutto questo una volta detto lo si può anche dimenticare: si tratta adesso di riscoprirlo, non perché ci viene spiegato o lo leggiamo da qualche parte, ma perché lo verifichiamo con la nostra esperienza. L’insegnamento in realtà è soltanto pratico e viene trasmesso esclusivamente per via orale o tramite esempi diretti che evitano anche la parola. Tutto ciò che Gurdjieff ha scritto è terribilmente preciso, ma così analogico che solo la personale comprensione, nata dall’esperienza, può condurre il cercatore al cuore dell’insegnamento. Chi si limita ai libri otterrà ben poco. “Se non sei dotato di uno spirito critico, la tua presenza qui è inutile”, in altre parole dobbiamo trovare il modo di esercitare il nostro buon senso nell’attrito effettivo con la vita e non riferendoci a schemi e concetti astratti.
Per quanto abbia spesso interpretato con divertimento e con innegabile immedesimazione, specialmente nel suo iniziale periodo russo, il ruolo del “mago” e dello “sciamano”, Gurdjieff ha sempre manifestato una certa annoiata diffidenza verso gli occultisti e “gli iniziati di nuova emissione”, come li apostrofava beffardamente; la “magia” non gli interessava, il vero problema è svegliarsi, non rendere più confortevole il sonno. La sua posizione ricorda piuttosto lo spoglio rigore e la ruvida purezza di certi insegnamenti zen. A questo proposito Fritz Peters ricorda: “Molti anni fa, Aleister Crowley, che si era fatto un nome in Inghilterra come ‘mago’ e che si vantava, tra le altre cose, di aver appeso per i pollici la moglie gravida nel tentativo di generare un essere mostruoso, si presentò a Fontainebleau senza essere invitato. Crowley era visibilmente convinto che Gurdjieff fosse un ‘mago nero’ e lo scopo manifesto della sua visita era di sfidarlo in una specie di duello di magia. L’incontro si rivelò una delusione poiché Gurdjieff, sebbene non negasse di conoscere certi poteri che potevano essere definiti ’magici’ si rifiutò di fare qualsiasi dimostrazione. A sua volta, anche il Sig. Crowley si rifiutò di ‘rivelare’ i suoi poteri; perciò, con grande disappunto dei presenti, non si potè assistere a nessuna impresa soprannaturale. Per giunta, il Sig. Crowley se ne andò con l’impressione che Gurdjieff fosse un ciarlatano o uno stregone di mezza tacca”. Sulla questione dell’incontro, o degli incontri, fra Gurdjieff ed il mago inglese Aleister Crowley (1875-1947), esistono almeno tre versioni diverse. Crowley, da poco espulso dall’Italia, dove aveva costituito a Cefalù, l’Abbazia di Thelema, in cui praticava i suoi riti di magia sessuale, dopo un periodo passato in Tunisia giunge a Parigi, cercando di riassestare le sue finanze e di disintossicarsi dall’eroina. Visita il Prieuré, la cui fama è giunta fino a lui, probabilmente due volte, ma solo la seconda Gurdjieff è presente. Una versione dell’incontro è quella di Peters già riportata; la seconda (in C.S. Nott, Teachings of Gurdjieff: A Pupil’s Journal, London, Arkana, 1990) invece vuole che, dopo aver intrattenuto Crowley per una visita al Prieuré e a cena, Gurdjieff lo accompagnasse infine alla porta. “Ve ne andate, Signore ?”. Crowley assentì. “Finora siete stato mio ospite, non è così ?”. Crowley assentì di nuovo. “Ma se ve ne state andando, da questo momento non siete più mio ospite, non è vero ?”. Crowley, stupito assentì ancora. “Bene, allora posso dirvi che siete un uomo sordido, siete corrotto di dentro ! Non osate mai più mettere piede in casa mia ! ”. Poi lo sbattè letteralmente fuori. Crowley livido e tremante di rabbia non osò replicare e tornò a Parigi con la coda fra le gambe. Questa versione è piuttosto improbabile, tenendo conto di quanto il mago inglese fosse irascibile e vendicativo. Un’ultima testimonianza, forse la più attendibile, sostiene che “Crowley e Gurdjieff si incontrarono a Parigi, per circa mezz’ora e dall’incontro non emerse molto altro che la reciproca manifestazione di un mutuo virile rispetto: ‘Si annusavano l’un l’altro come cani, proprio come cani’”(in Marco Pasi, Aleister Crowley e la tentazione della politica, Franco Angeli, 1999).
Niente magia quindi, piuttosto una diversa attenzione per ciò che, ad uno sguardo superficiale, può apparire banale: “io insegno che quando piove i marciapiedi si bagnano”, ripeteva spesso Gurdjieff e, con la stessa tipica ironia, “ho dell’ottimo cuoio da vendere a quelli che vogliono farsi delle scarpe”.
Per di più, secondo Gurdjieff, la ricerca individuale non era fruttuosa. Il marchio distintivo del suo metodo fu il “gruppo”: “un uomo da solo non può fare nulla… siete in prigione. Tutto quello che desiderate se siete intelligenti è fuggire. Ma come fuggire? È necessario scavare un tunnel sotto il muro, ma un uomo da solo non può fare nulla; supponiamo però che ci siano dieci o venti uomini: se lavorano a turno e si coprono a vicenda possono completare il tunnel e scappare”. Gurdjieff proponeva esercizi relativi alla capacità di attenzione, all’educazione dei sensi, alla riabilitazione delle nostre facoltà latenti, all’indirizzo corretto delle emozioni, all’uso più completo della mente, ma soprattutto era l’Azione lo strumento indispensabile da adoperare, indirizzando la propria volontà ed il libero arbitrio nel quotidiano modo di “essere”. Per questo il Lavoro si è tramandato attraverso gruppi di allievi che, dalla sintonia e dal conflitto delle proprie diverse personalità, hanno saputo trarre la linfa per far crescere il loro singolo ramo di uno stesso albero. I gruppi, nella tradizione “ortodossa”, che deriva immutata direttamente dagli appuntamenti di Rue des Colonels-Renard, si ritrovano con periodicità regolare. Il conduttore del gruppo assegna gli esercizi interiori della settimana, i membri possono fare domande o riferire sulle loro esperienze dei giorni precedenti e vengon letti e commentati brani dei testi più importanti di Gurdjieff o dei suoi allievi diretti. Generalmente l’incontro inizia con un breve momento di silenzio, chiamato “rappel”, cioè richiamo a sé stessi, che è la ripetizione collettiva della “meditazione seduta” (svolta con posizione e modalità pressoché analoghe alla classica seduta di Zazen) che ogni membro del gruppo pratica individualmente ogni mattina. Altre attività possono essere costituite dallo studio dei Movimenti o Danze Sacre, dall’ascolto delle composizioni musicali di Gurdjieff e dal lavoro manuale silenzioso, di solito secondo discipline artigianali classiche, come la tessitura, la ceramica, la falegnameria, il giardinaggio, ecc… Alcuni rituali troppo strettamente legati alla figura del maestro, come il “brindisi agli idioti”, tenuto durante le riunioni conviviali, con abbondanti libagioni alcoliche, sono stati del tutto abbandonati dopo la morte di Gurdjieff nel 1949.
Per tradizione “ortodossa” intendiamo quella trasmessa dallo stesso Gurdjieff ai suoi allievi, riunitisi, dopo la sua morte, sotto la direzione organizzativa di Madame Jeanne de Salzmann, nella “Fondazione Gurdjieff”, che ha le sue sedi principali a Parigi, Londra e New York. Solo questa linea dovrebbe assicurare la fedeltà all’insegnamento originario. Le altre, dai seguaci di Ouspensky dopo il suo allontanamento dal maestro, ai fin troppo numerosi gruppuscoli, gurdjieffiani di nome ma non di fatto, hanno distorto le idee in modo sempre più grave, giungendo talvolta a creare dei veri e propri “culti”, pericolosi per la salute e per il portafoglio dell’incauto cercatore. Se vogliamo miracoli meglio cercarli a Lourdes, ma non qui. Niente miracoli. Solo una semplice presenza: qualcuno che in silenzio entra nella nostra camera ed in silenzio ci porge un’arancia.
BIBLIOGRAFIA
I volumi di o su Gurdjieff da poco usciti e tutti altamente consigliabili per affrontare sotto varie angolazioni l’argomento sono i seguenti:
- Alessandro Boella e Antonella Galli, L’insegnamento di G.I. Gurdjieff e le sue origini, Edizioni Tlon, pp. 115, euro 12,00 stampa.
- Georges I. Gurdjieff, Incontri con Gurdjieff: Trascrizione integrale degli insegnamenti trasmessi a Parigi in Rue des Colonels-Renard 1941-1943, Edizioni Tlon, pp. 205, euro 12,90 stampa.
- Georges I. Gurdjieff, Incontri con Gurdjieff: Trascrizione integrale degli insegnamenti trasmessi a Parigi in Rue des Colonels-Renard 1944-1946, Edizioni Tlon, pp. 150, euro 12,90 stampa.
- Georges I. Gurdjieff, Il nunzio del bene venturo: Primo appello all’umanità contemporanea, Editore Castelvecchi, pp. 112, euro 13,50 stampa.
- Willem van Dullemen, I movimenti di Gurdjieff: La trasmissione di un’antica saggezza, Editrice Astrolabio, pp. 275, euro 26,00 stampa.
Biblio, disco, filmo grafia essenziale
Oltre ai testi recenti citati aggiungo per chi volesse approfondire una scelta molto sintetica di materiali:
- Frammenti di un insegnamento sconosciuto (ed. Astrolabio) di P. D. Ouspensky, testo fondamentale di introduzione e di divulgazione.
- Incontri con uomini straordinari dello stesso Gurdjieff (ed. Adelphi), ha l’apparenza di un’avventurosa ed appassionante “autobiografia mitica” ma forse è anche altro.
- Vedute sul mondo reale: Gurdjieff parla ai suoi allievi (ed. L’Ottava, Neri Pozza), serie di conferenze e dialoghi molto semplici e chiari.
- I racconti di Belzebù al suo piccolo nipote (L’Ottava, Neri Pozza), la monumentale opera maggiore di Gurdjieff, apparentemente un romanzo di fantascienza “teologica” (?): di lettura più difficile del precedente, ma vale lo sforzo.
- La vita è reale solo quando ‘Io sono'(Neri Pozza), terza e finale opera (incompiuta) di G.
Biografie: G. I. Gurdjieff: Anatomia di un mito di James Moore (ed. Il Punto d’incontro), certo la biografia più documentata ed attendibile; La nostra vita col Signor Gurdjieff di Thomas ed Olga De Hartmann (ed. Astrolabio), racconto della mirabolante fuga di Gurdjieff e dei suoi primi allievi, dalla Russia devastata dalla rivoluzione; La mia fanciullezza con Gurdjieff (ed. Guanda) ed I miei anni con Gurdjieff (ed. Adea) di Fritz Peters, forse le relazioni più affascinanti e rivelatrici sull’ “uomo” Gurdjieff. Altri testi importanti sono: L’inconoscibile Gurdjieff di Margaret Anderson (ed. Gremese), testimonianza della pratica quotidiana del Lavoro a fianco del maestro; Idioti a Parigi di John ed Elizabeth Bennett (ed. Mediterranee), diario degli ultimi mesi di vita di Gurdjieff; Monsieur Gurdjieff di Louis Pauwels (ed. Mediterranee), sorta di biografia critica per molti aspetti imprecisa, scandalistica e fuorviante, ma non priva di suggestioni utili e stimolanti. James Webb, The Harmonious Circle: The Lives and Work of G.I. Gurdjieff, P.D. Ouspensky, and Their Followers (Shambhala Pubs) di difficile reperimento ma ricco di informazioni. Paul Beekman Taylor, G.I.Gurdjieff: A Life ( Eureka Editions), l’opera più recente su G. e probabilmente anche la meglio documentata.
Fondamentale anche Renè Daumal, Il monte analogo, La gran bevuta e La Guerra Santa (contenuta nel volume La conoscenza di sè), la raccolta di lettere Il lavoro su di sè, tutti pubblicati da Adelphi, forse le testimonianze letterarie più compiute nate dall’Insegnamento.
Per quanto riguarda una scelta dell’opera musicale numerosi sono i dischi e CD: G. I. Gurdjieff: Sacred Hymns, esecuzione al pianoforte di Keith Jarrett (ed. ECM); Chercheurs de Verité; Chants et rythmes d’Orient; Rituel d’un ordre Soufi; Chants Religieux (6 voll.), esecuzione al piano di Alain Kremsky (ed. Valois); Music of Gurdjieff/de Hartmann (2 Voll.), esecuzione al piano di Herbert Henck (ed. Wergo); versioni per pianoforte e archi Sacred Honey, esecuzione di Alessandra Celletti. The Music of Gurdjieff/de Hartmann (2 Voll.), eseguita dall’interprete originario e trascrittore/coautore di tutti i motivi di Gurdjieff, Thomas de Hartmann (ed. Triangle Records); infine bellissima ma purtroppo quasi introvabile Gurdjieff – Harmonic Development: The Complete Harmonium Recordings 1948 – 1949, la raccolta dei brani improvvisati all’harmonium portatile dallo stesso Gurdjieff di fronte agli allievi americani e francesi.
Per i contributi cinematografici, ricordiamo due film: Meetings with Remarkable Men, liberamente tratto dall’omonima “autobiografia” di Gurdjieff da Jeanne de Salzmann e diretto da Peter Brook nel 1978 (non esiste un’edizione italiana); e La Montagna Sacra di Alejandro Jodorowsky, classico dei primi anni settanta che, in modo molto libero e personale, attinge ai due romanzi di Daumal.