Il festival “2084. Le meraviglie del possibile”, organizzato dalla scuola Belleville, è piccolino e forse anche per questo molto intenso. Si svolge all’Eastriver, locale milanese sul Naviglio della Martesana, dove convivono la ciclofficina, i libri, la birra, la pinsa, gli incontri con gli autori e quelli tra gente qualunque. È uno spazio raccolto anche se all’aperto, con le luci distribuite in modo da creare un cerchio magico intorno al palco. E come a teatro, chi è sul palco non vede il pubblico, lo deve sentire.
Sabato sera c’erano Katja Petrowskaja, Andrea Tarabbia e Andrea Bertazzoni come interprete. La camicia bianca e il sorriso di Katja brillavano. Tarabbia era pacato e caldo come suo solito. E si parlava di un bel libro pubblicato da Adelphi, La foto mi guardava (Adelphi, tr. di Ada Vigliani, pp. 259, 70 fotografie colori, euro 24,00 stampa, euro 14,49 epub). Prese da Facebook, da libri e mostre, dagli archivi di famiglia o da archivi casualmente incrociati, le foto scelte e raccontate nel libro e anche nell’incontro, sono varie come è varia la vita, e portatrici di evocazioni belle e brutte. Le foto ci guardano tanto quanto noi guardiamo loro. Ci guardano e ci parlano molto al di là delle intenzioni dei fotografi e dei soggetti ritratti.
Alle volte ci inducono a chiederci cos’era successo, in quel luogo e in quel momento, e magari è l’avvio di un ricordo o di una storia di famiglia. Come la foto in bianco e nero, vecchia e sbiadita, che ritrae Kiev nel 1943, verso la fine della seconda guerra mondiale, piena di macerie, e in un angolo un bambino che passa, come uscisse dalla fotografia. Quel bambino ha probabilmente l’età della mamma di Petrowskaja, che è ritornata a Kiev proprio nel 1943 e miracolosamente ha ritrovato la sua casa intatta. Una storia di salvezza e speranza, che la foto lascia immaginare quando si fonde con la memoria.
Un’altra foto che guardiamo insieme a Petrowskaja e Tarabbia è quella che ritrae un minatore, il viso avvolto dal fumo, la sigaretta nitida e chiara. I minatori vanno al lavoro anche quando c’è la guerra, vanno al lavoro senza essere pagati, perché lavorare vuol dire negare la guerra, sostenere la normalità, la quotidianità di prima. Ma la cosa particolare è che per fare quella foto la fotografa ha dovuto inginocchiarsi, in un gesto che non voleva essere simbolico, o forse sì ma di fatto lo è diventato. Anche se non lo sappiamo, guardando la foto. Lo sappiamo solo quando ci rendiamo conto che è la foto a guardare noi, e che sapere come è stata scattata è necessario e anche bello.
Katja con la famiglia, in uno scatto degli anni Settanta, sembrerebbero ritratti in California come i figli dei fiori, ma l’immagine ci racconta che quei vestiti, la pipa del padre, i libri, sono perdite di alcuni che diventano gli unici oggetti possibili di altri. Ereditati da qualcuno che è emigrato, o scomparso, o andato via, e lasciati a malincuore, gli oggetti abbandonati di qualcuno diventano gli oggetti trovati di altri. In un’economia che non esiste, non c’è niente da vendere e niente da comprare, quello che si possiede è il lascito di qualcuno, con il dolore e la storia personale e il passato condensati lì per sempre o anche solo per il tempo della fotografia.
Katja da bambina, in una foto che è stata stampata al contrario e quindi lei sembra mancina. E ci racconta: essere mancini ai tempi dell’Unione Sovietica era vietato, tutti dovevano scrivere e disegnare e usare la destra (del resto qui da noi la mano sinistra era la mano del diavolo, e i mancini venivano “corretti” fin da piccoli). Una forma di repressione che lei ha pensato di aver subìto, e che avrebbe spiegato certe sue stranezze, una sua psicologia tutta particolare. Ma c’era ancora suo padre, quando la foto è apparsa da un archivio, che le ha fatto vedere come la scritta sulla scatola di colori fosse alla rovescia. Quindi quella felicità che le si vede in volto, quel sorriso che era già luminoso nella foto in bianco e nero, non è perché finalmente è libera di disegnare con la sinistra. È un sorriso di gioia perché è con il padre, perché disegnare è bello, perché è bambina, perché è viva. Se facciamo dire alle foto quello che vogliamo noi, quelle magari si ribellano, non ci stanno. E poi c’è la babushka. Totalmente sovietica, issata su una seggiovia degli anni cinquanta, nessuna sicurezza, giusto un cavo d’acciaio e una sedia. Una foto che compare su Facebook, c’è chi dice che stia salendo sull’Everest, la babushka delle babushke, oppure sono i monti del Caucaso, chissà, di certo è un’icona, inconfondibile.
Tutte queste foto che guardavano noi lettori spettatori, dopo aver guardato Petrowskaja, da uno schermo laterale su cui venivano proiettate, raggiungendoci con minore o maggiore intensità davano a ognuno evocazioni diverse, sogni, ricordi. Una sola voce, quella della scrittrice, ne ha tratto racconti pieni di cose diverse, di emozioni contrastanti. Ricordandoci che la comunicazione viaggia in due sensi, che non sono solo le parole che prendono un senso da chi le dice e ne acquistano un altro in chi le ascolta, ma anche le immagini, quelle che per alcuni valgono più di mille parole, non sono univoche. La loro bellezza, anzi, consiste nella capacità di far sorgere e convivere strati su strati di sensazioni e sentimenti. Facendosi guardare, e guardandoci.
(Foto per gentile concessione dell’editore Adelphi)