Prima banalità: la morte è da sempre componente essenziale della nostra vita. Ne influenza scelte e comportamenti, quotidianamente, e finora non abbiamo scoperto né se né come potremmo liberarcene. Seconda banalità: uno scrittore è una persona che ha accettato di raccontare il mondo mentale in cui vive, e di cui partecipano uno sciame di figure, a partire dai soggetti – le altre persone del mondo – e che comprende anche gruppi, idee, collettività, concetti, desideri, sogni, progetti e così via, tutto ciò che riempie la vita, seppur nei limiti della prima banalità. Quando muore uno scrittore, perciò, è quindi quel mondo di cui lo stesso si è fatto portavoce a perdere realtà, ad essere reso indistinto da una nebbia sempre più fitta, che avvolge i suoi personaggi come la tela di un bozzolo. Spesso capita che lo scrittore già da vivo si fosse ritirato, come una tartaruga, dentro a un guscio, in un isolamento rassegnato, una solitudine ignota ai più, lasciando ai personaggi dei suoi racconti il compito di parlare in sua vece. Ciò che noi chiamiamo vita spesso per chi si è abbandonato alla creazione assume una forma differente, quasi una sottomissione dell’autore al suo compito, al racconto che ha scelto di seguire. Quanto spesso a uno scrittore e alla sua attività sono stati associati aggettivi al limite della metafora medica o della malattia? La febbre, la passione, la necessità travolgente di una azione compulsiva, quante volte queste metafore sono state associate a uno scrittore? Quante volte ci siamo chiesti quanto questa immagine romantica corrispondesse al vero? Inevitabilmente, è la morte di uno scrittore a riportare al centro della riflessione questi temi, e, se la causa di questa è un suicidio, ancora di più ci viene chiesto di dare risposta al senso di una vita dedicata alla scrittura. Stefano di Marino si è gettato nel vuoto, e in quel vuoto senza apparenti motivi sono caduti anche i suoi amici e lettori, coloro che da decenni seguivano con passione le avventure dei suoi personaggi. Non voglio in alcun modo affrontare il tema del “perché”. I motivi che muovono chi leva la mano su di sé sono sempre incommensurabili, e mai abbastanza da essere compresi. Sono tutti veri e tutti falsi, e a questo relativismo assoluto si aggiunge il fatto di rendere “ultimo” un momento che quasi sempre non aveva nulla di definitivo in sé, se non la sua apparente, insormontabile, difficoltà.
Un articolo come questo dovrebbe raccontarvi prima di tutto chi era Stefano di Marino, la sua lunga e vasta bibliografia, magari anche come è diventato Stephen Gunn, perché è chiamato “Il Salgari del nostro tempo”, e infine dove la sua Milano è diventata Gangland, ma per tutto questo c’è Wikipedia, e il suo gelido cappello. Qui si vorrebbe piuttosto prendere le distanze dal coccodrillo agiografico, magari pratico per chi non conosceva l’autore, ma tristemente riduttivo per chi invece ne comprendeva la persona. Ciò che la rete non racconta, se non a chi, in fondo, certe cose già le sapeva, invece è la vasta cultura che Stefano avrebbe potuto vantare; sono i mille percorsi seguiti dalla sua curiosità, sentimento per cui appariva – mi si permetta – un bambino sempre entusiasta; è la sua passione per le arti marziali (e la sapienza che vi era nascosta); per il cinema d’autore quanto per i b-movie. Nella rete non troverete cenno alla sua bontà d’animo, all’aiuto che non negava a nessuno, all’imbarazzo che provava quando si parlava bene di lui, quando l’uomo emergeva dietro allo scrittore. Stefano di Marino, aka Stephen Gunn, creatore di Chance Renard, il Professionista, non ha mai esitato nell’alzare l’asticella dei suoi romanzi, ed è con questo spirito che devono essere interpretate le questioni etico-morali che Renard frequentemente si è posto, specie nel momento in cui il suo lavoro lo portava a misurarsi con il lato peggiore degli individui. Con inquietante frequenza i personaggi di Stefano di Marino si ponevano dubbi circa il senso ed il valore della loro vita. C’è una relazione tra ciò che si è, ovvero – come ci racconta da sempre la tragedia greca – il proprio destino, la propria intima natura, e le proprie scelte? Sempre più spesso Renard si è chiesto se davvero non può vivere fuori da quel mondo (il suo mondo), e la domanda, che nel tempo prende forma davanti a lui, come una sorta di interrogativo definitivo: ma è proprio vero che non si può vivere in un mondo di pace? Davvero dobbiamo dare per scontato che il nostro sia un mondo di dolore e sofferenza? Il Professionista fa il suo lavoro, ma lo fa sempre meno volentieri, e si chiede, sempre più spesso: “Ma non hai mai pensato a cambiare vita?” Il mondo delle spie e dei contractors cambia sempre più velocemente, e Renard, uomo della Legione, uomo dotato di valori, con dei principi, che spesso è costretto ad infrangere, ma che conosce intimamente, non si riconosce in ciò che sta diventando. Ed è qui che lo possiamo dire: Chance Renard stava diventando vecchio. La sua ‘anzianità di servizio’ gli pesa, il combattimento non lo gratifica più come un tempo, e l’adrenalina è ormai solo una reazione biologica. Il rettile è stanco, ed in fondo avverte il suo essere preistorico, stellarmente lontano da chi vive la guerra dietro ad una scrivania comandando droni o robot. Non si combattono più ideali, ma solo grandi complessi industriali che hanno inglobato ogni aspetto della globalizzazione: dall’industria ai traffici peggiori (esseri umani, armi biologiche, rifiuti tossici), dagli armamenti alla finanza. Il rettile non ha nulla a che fare con questi soggetti. È vecchio, cinico, stanco e sfiduciato. Ha visto morire tanti amici intorno a sé, e non vede alcun tipo di futuro di fronte.Stefano di Marino era forse nascosto dietro i suoi pseudonimi, e la difficoltà del suo personaggio a restare nel suo ruolo, le strette maglie del personaggio e del genere, erano le stesse che avvertiva il suo autore, desideroso di allargare il suo orizzonte letterario, sempre più desideroso di vedere riconosciuta anche al di fuori della stretta cerchia dei fan quella competenza e quella esperienza che lo contraddicevano, al pari di Ian Fleming, di Ken Follet o di Dan Brown. Molti amici, scrittori e addetti ai lavori dopo la sua scomparsa ne hanno scritto sottolineando proprio questo aspetto, questa frustrazione, che, pur nella convinzione del valore di ciò che scriveva, evidentemente lo attanagliava. Tra questi ricordiamo gli amici di una vita, Andrea Carlo Cappi e Giancarlo Narciso. A loro si sono aggiunti, tra gli altri, gli interventi di Raul Montanari, Giuseppe Genna e Helena Janececk, che hanno tutti evidenziato proprio questi aspetti, che si aggiungono a una solitudine e a una riservatezza che contraddicevano il carattere stesso di Stefano. Chance Renard era, in un certo senso, un figlio di nessuno e il suo stesso creatore lo definisce come l’erede di Unknown (Lo sconosciuto), il personaggio creato da Magnus a cui Renard è molto vicino. Credo sia legittimo vedere una sorta di analogia letteraria tra ciò che vive Renard, che si vede orfano e abbandonato, solo di fronte a un compito improbo, e l’amarezza del suo autore, nonostante la coscienza della nostra impermanenza. Cerchiamo di far sì che la ragione guidi le nostre azioni, ma a volte questa stessa si arrende alla melanconia, e lascia che la signora della nostra vita ci accompagni per l’ultima volta. Stefano di Marino va così ad occupare il poco desiderato terzo gradino di un podio molto triste, accompagnando i suoi cari amici Andrea G. Pinketts e Sergio Altieri.