GIUSEPPE GENNA
Allora a nove anni io rubo una sigaretta dei Monopolio di Stato dal borsello in finta pelle di mio papà nell’anticamera tenebrosa, in fondo, verso la porta, nell’attaccapanni modellato in legno come un manichino di Savinio De Chirico e corro nella stanza di mia sorella e mia, oltre il poster del pittore di persone grasse rotonde esagerate Botero, un torero nell’arena circolare piccolina essendo lui enormemente tondo a toni morbidi, e verso il poster del funerale di Palmiro Toglietti del pittore del PCI Renato Guttuso, è mattina molto presto nella città cromata Milano, in questo evento di sabbia e sangue incrostato che è l’appartamento, la mia famiglia, io – e mastico la sigaretta. Succhio il tabacco, lo sminuzzo, muovo male la mascella, la lingua si irrita gonfiandosi, le sostanze tossiche sono assorbite, la saliva abbonda, la ptialina lavora la tossina, è tutto un metabolismo! Ecco la febbre. Se mastichi tabacco, viene oltre 37°, è un trucco che si tramanda, l’alito emana febbre e sentore di tabacco che si sputa in certe tabacchiere con la calce dentro, annullandone il puzzo, è un acido amaro, un whiskey sbagliato, degli adulti nelle case ricche patrizie moderne americane del nord, vetrate al posto delle pareti, blended e sigaro con le piscine notturne fuori in quelle ville di uno strano Le Corbusier: tutto il tabacco è questo. La febbre cresce. Scotto. Viene a provarla la madre, la tumultuosa madre, bianca, renitente, mio padre cupamente è uscito con il borsello verso il lavoro impiegatizio comunale nella giunta rossa di Carlo Tognoli. Sembra, io, che deliri. Il tabacco ha alzato le temperature interne, accelerando gli organi. E’ un tempo umanamente che esiste, lungo, di una lentezza fatta dalla meccanografia dei tempi, dei lavori di quel tempo. L’automobile è pesante, sono pesanti. Sono pesanti le prediche delle Pie Donne all’inizio dell’ora scolastica, dove non vado perché ho la febbre, sopra 38°, la madre è stata ingannata, mia sorella mi invidia l’influenza e va verso le Pie Donne iniziali della preghiera all’inizio delle lezioni alle elementari, accompagnata da mia mamma. Tumultuosamente sto, solo nella casa cupa, dentro il letto ravvolto, da lenzuoli diacci e intrisi, di sudore, di tabacco. Ogni febbre era “cavallina”. Sei nel centro di un cosmo diaccio, intriso di rocce e fatuità, umane non prevalentemente, o immagini di febbre che infuocate dalla carta velina alzano i loro propositi nell’aria, carta velina incendiata. Torna la mamma, ha accompagnato nella scuola fatta dal Duce mia sorella piccina, con le gambe magre e le braccia piccoli legnetti, molto magra e sul labbro inferiore la bolla di saliva che splende, aurea. Mia sorella. Mia sorella è una bambina di grande ingegno a cui la sera fa sempre male la gamba per motivi di stanchezza e anemia mediterranea, una malattia sconosciuta che parte dalla Sardegna e invade tutto il Mediterraneo. Non ha mai problemi ai denti, carie. Si veste molto compitamente e ha una forte componente di socializzazione e altri giudizi scolastici così. La mamma rientrando si è fermata all’edicola, fatta di metallo pesante verde, ha acquistato i giornaletti, i Vendicatori l’Uomo Ragno i Fantastici QuattroLa VisioneSilver SurferHawk Iron Man e altri, perché io ho la febbre, per farmi passare il tempo. Allora una nuova febbre mi sale dentro, encefalica, nelle immagini in quella carta non patinata, cotta, dei giornaletti di un tempo, fatto precipuamente da questo Stan Lee che li inventa tutti, li disegna e li inventa e scrive i fumetti, un uomo tipo Burt Reynolds ma con i capelli rossicci, quindi ha i baffi, e gli occhiali, enormi. Genialmente inventa per tutti tutto, noi e gli altri, ovunque nella vita sul pianeta Terra. Negli spazi siderei accadono le cose, divinità né maschili o altro, ciclopicamente grandi da occupare settori del cosmo diaccio e intriso di robotica e demiurghi, di salinità delle terre e esopianeti che posso immaginare grazie a Stan Lee. La zia di Peter Parker è una nonna, non è una zia, ha lo scialle viola, il vestito verde e rammenda come una catanzarese e è a New York. Goblin nel numero trentasette appare con uno skateboard mostruoso meccanico nel cielo di New York. Ovunque escono colori nuovi, nell’ispirazione immaginata di Stan Lee. Ci sono i ciechi tipo Devil contro Bruce con un cognome straniero che diventa Hulk, diventerà Lou Ferrigno, trascorrendo gli anni, con dei capelli anni Ottanta spumosamente inadatti ai supereroi della Marvel, che ha inventato Stan Lee! Ha inventato anche la Marvel! Stan Lee inventa tutto, sui tovaglioli, riportando in redazione un supereroismo umano dal volto umano, problemi di tutti i giorni, lontano dalla semiotica e dagli adulti, solo per noi. Mentre Goldrake grida dentro il televisore, non lo ha inventato Stan Lee, ma i giapponesi che si oppongono a Stan Lee. La febbre cala. Voglio scrivere un libro sulla Visione, ma non me lo permettono nel 1996. Ieri è morto.
Stan Lee, 28 dicembre 1922 – 12 novembre 2018