Un breve scritto su uno dei suoi libri più importanti, Amur del temp, pubblicato da Crocetti nel 1999.
Libro purissimo, quest’ultimo di Franco Loi. Autore, titolo, nessuna nota, nessuna biografia. Una serie di poesie (un poema, probabilmente), lasciate andare fuori dalla custodia, lungo il tempo che tutti noi avvolge, attraverso l’amore per esso che lo rende l’unico amico che permetta di avanzare in questo mondo accidentato. E libro bilingue, decisivo, per l’autore. Finalmente i testi in italiano non sono deposti nel carattere minuscolo del piè di pagina. Anche se l’attenzione si stempera meglio, con più sollievo e più dolcezza, sulle pagine sinistre del libro, dove quella particolare lingua che Franco Loi si è inventato nella sua lunga carriera, ha modo di parlarci sussurrando, dimostrando ancora una volta il suo buon carattere. Italiano ovviamente non è, Milanese non è, ma ancora di più, e per questo, ci può parlare di qualcosa che della poesia piena ha forma e forza. Niente di così distante dalla caratterizzazione banale dei vernacoli presenti nelle nostre regioni.
I colloqui che Franco Loi dispiega iniettano nostalgia di frasi intese un certo giorno, e non più sentite per troppo tempo. Ricordo di lui una poesia “detta” a voce bassissima alla Comunità di Bose, nel 1998, in occasione dell’omaggio a Cristina Campo. Ricordo uno dei momenti più emozionanti: voce che non imponeva un esercizio, ma lasciava un dono mentre il poeta subito abbandonava la sala per continuare l’ascolto degli altri intervenuti, attraverso l’altoparlante, nella purissima aria esterna. Forse quell’ascolto è migrato oggi in questo libro, per rispondere a chi pensa che vi sia una grande distanza fra i poeti e gli altri, dove per “altri” vorrei intendere anche la folta schiera dei non-lettori. L’esattezza della voce, delle parole, è presente nella fluidità di Amur del temp come se la memoria dei versi fosse continuamente invitata da Franco Loi a essere attuale, come se fosse lui stesso a far accostare l’orecchio alla gola recitante. Mentre qualcosa cresce.
Cume se fa a parlà de la belessa? / la furma che sa dís al fiâ del cör? / La vardi e, nel murí, la mia parola / la dís dumâ del poch restâ nel mör.
Astri, strade, ragazze, amici, alberi, cani… Quant’altro si va raccogliendo sotto l’insegna del tempo? Istanti presi nella retina ma trattati con ogni cura, sapendo bene come la delicatezza delle cose si trasformi presto in polvere impalpabile. Ore di un giorno senza limiti, che comprende la notte stellata e il clima mutevole che serpeggia nelle vie di una Milano mai lasciata. Lo sferragliare dei tram non è suono che possa trovarsi ovunque, così aiuta a stringere i pensieri in un punto preciso, materno e paterno insieme. Lo sguardo non abbandona, riesce a far spalancare il cuore segreto, più interno, delle cose.
Mai come in quest’opera “scrittura” e “voce” si danno la mano perché lo sguardo non consumi. E il dolore fin troppo conosciuto non sprechi tutto in una corsa che lascia senza fiato. Da un capo all’altro di queste pagine, in ogni angolo riposto, c’è un passo forte e deciso che va per altri passaggi, desiderando capire e farsi capire. C’è un bello del parlare che è di pochi. E, come ognuno sa, non sempre il movimento delle labbra porta alle domande che vorremmo più giuste. In questo libro il fiato sa guardare, e lo sguardo sa parlare. Lingua e gesto (distanti ma raggiungibili), finalmente, sono la prima conquista dell’uomo.
Uniamo nel ricordo il libretto di Giovanna Sicari, poetessa e lettrice di Franco Loi che nel 2002 inseguendolo per le strade milanesi ci ha guidato nel cuore della sua opera.