Giuseppe Conte è un uomo tornato dal mito per un improvviso passaggio sul mare delle sue origini: siamo convinti che sia fatto della stessa materia organica di coloro che assaltarono le mura di Troia per poi, in seguito, cadere nelle braccia di femmine di stirpe divina e di bellezza sbalorditiva. Su quei mari lontani, ma sempre mediterranei, le primavere incendiavano lo specchio d’acqua e le anime piene di amori possessivi diretti a donne e armi. Ogni volta vi erano isole dove poter combattere, scopo la sopravvivenza e la sussistenza in vita. Ma durava il tempo per cantare e seguire il fuoco dei poeti.
C’era aspettativa per questo nuovo libro di versi sul mare, questa lunga veglia sulle rive e sotto una luna compagna fedele, amica dei territori marini e di un poeta che, salpato da Porto Maurizio, ha saputo e potuto viaggiare nei suoi Orienti e Medio Orienti, in stagioni epiche fatte di poesie e romanzi, di discorsi alle genti e alle civiltà millenarie. Purtroppo gli incendi, da decenni ormai, non sono più soltanto quelli primaverili e gli uomini hanno estirpato la bellezza delle epoche e ora il canto, per un poeta come Conte, non può che essere di disagio e di rabbia, pur accompagnandosi a ferrea volontà discordante nel suo passaggio terrestre su disastri velenosi.
Ma è l’inesauribile canto alla vastità acquatica, a cui si dà del tu, che sale verso le ere remote per ridiscendere a precipizio nell’attuale, in una scorribanda di rime e leggi metriche. In questo fascio di suoni la lirica si trasforma in un sentimento epico del tempo, qualcosa che pochi sanno condurre nella presente congiuntura. Una poesia che parla, contraddice, evoca, senza perdersi nei rovesciamenti moderni dello sguardo. Conte sa come rendere pubblica la poesia, la propria e quella di amici che stanno sotto le cupole dorate dei suoi lontani viaggi. Una concordanza di animi attraversa la realtà nominandola nei territori fatti di pianure, montagne, sentieri, laghi, fiumi e oceani. La comunità cercata, e trovata, dal poeta dove la corrente varca gli orizzonti e gli ostacoli d’amore.
Il mare che in francese, probabilmente a ragione, è sostantivo femminile ha costituito fin dall’esordio la sintesi della libertà poetica di Conte, unito al rispetto degli elementi naturali incontrati e amati da ragazzo sulla costa della Riviera ligure – per giungere a quella maturità abbeveratasi ai metodi liberati, per propria natura o incontrati durante il cammino. Se modernità è trauma al suo massimo livello, la definizione di Conte dell’utopia si può trovare nel bisogno concreto di altri tempi, come scrive Ficara introducendo il volume delle poesie 1983-2015 pubblicato pochi anni fa. Tempi in cui i poeti ritrovino l’ascolto dei cittadini mondiali, e i poeti la lingua della natura. Ricordiamoci Mediterraneo di Montale e L’ultimo aprile bianco di Conte per la nostra carovana ideale, quella che vorrebbe porre tutto in una fedeltà antica e duratura.
Dalle terre del mito alle terre devastate del millennio la reazione del poeta ligure al peso dell’ombra è talmente determinata da appartenere a ognuno di noi, se soltanto sapessimo ascoltare quello che gli inferi quotidianamente minacciano e da lì rispondere con nuove rifioriture. L’ascolto, contrario alle armi oscure, apprenda questo passaggio non soltanto per ritrovare l’antica bellezza ma per consentire ulteriore vita al nostro mondo. Un destino spezzato origina sempre da una poesia spezzata, quando l’ascolto del rumore supera l’ascolto dell’armonia.