In difesa della violenza

"Non voglio dare l’impressione di credere che la violenza sia desiderabile di per sé. Anzi, il contrario. Sarei invece molto felice di vedere le persone vivere insieme senza farsi del male l’un l’altra, fisicamente, economicamente, psicologicamente, o in qualsiasi altro modo. Ma l’eliminazione della violenza non è in cima alle nostre priorità. La nostra principale priorità deve essere l’eliminazione del sistema tecnologico-industriale". - Theodore John Kaczynski (Unabomber)

La casa editrice D Editore, che si definisce e vuole essere attenta all’intersezionalità delle lotte e al femminismo pubblica un autore problematico e controverso come Theodore John Kaczynski (1942-2023) – il noto Unabomber – che ha promosso e praticato la violenza contro le persone, mostrato in varie occasioni atteggiamenti misogini  e si è dichiarato apertamente anti-comunista.

Emmanuele J. Pilia e Mattia Pinna i due curatori della nuova traduzione, rivista e ampliata, di La società industriale e il suo futuro, il celebre manifesto anarchico così spiegano le proprie scelte editoriali: « […] in un periodo di forte pacificazione e di balcanizzazione delle lotte, in un periodo in cui l’azione violenta (anche la meno radicale) viene vista come ripugnante addirittura in segmenti dei movimenti libertari, in un periodo in cui lo Stato stringe ancora più forte la presa sul proprio diritto al monopolio della violenza, in un periodo come quello che stiamo vivendo, insomma, il messaggio di Theodore J. Kaczynski è necessario che venga ascoltato. Almeno, una parte di quel messaggio».

Ringraziamo D Editore per averci concesso la pubblicazione di uno dei 5 testi inediti contenuti nel volume che inaugura la nuova collana Freedom Club Collection e che comprenderà la più completa raccolta di saggi di Ted Kaczynski. (E.M.)


Quando scrissi al New York Times, offrendomi di cessare i miei attacchi terroristici in cambio della pubblicazione del mio manoscritto, promisi che il Manifesto non avrebbe promosso esplicitamente alcuna forma di violenza, perché ho dato per scontato che i media mainstream si sarebbero rifiutati di pubblicare qualsiasi cosa che incitasse a una qualsiasi azione violenta. Per questa ragione, ne La società industriale e il suo futuro, ho scelto di limitare il ruolo della violenza nella rivoluzione nel corso della mia trattazione. In realtà, credo che una rivoluzione contro il sistema tecnologico-industriale, per poter avere successo, dovrà avere a che fare con azioni violente, prima o poi.

Forza e violenza sono da usare solo in ultima istanza. Quando i principali conflitti sociali non possono essere risolti attraverso il compromesso, la questione si sposta sul piano della forza fisica o della minaccia del suo utilizzo. Come ho già sostenuto in La società industriale e il suo futuro, nei paragrafi 125-135, se proviamo a cercare un compromesso con la tecnologia, stiamo puntando su una scommessa persa in partenza. Il sistema non è, e mai sarà, soddisfatto di una qualsiasi situazione di stabilità – esso cerca in continuazione di espandere il suo potere e non può permettersi di tollerare in nessun caso che vi sia qualcosa al di fuori del suo controllo (vedi il paragrafo 164). Per questo, il conflitto tra noi e il sistema è inconciliabile, e alla fine potrà essere risolto solo attraverso la forza fisica. Dopotutto, il sistema dipende proprio dalla forza e dalla violenza per mantenersi – ed è per questo che esistono i corpi di polizia e gli eserciti. Se noi rivoluzionari rinunciamo del tutto a ricorrere alla violenza, ci mettiamo in una condizione di svantaggio paralizzante rispetto al sistema. Non sto promuovendo l’idea di una violenza indiscriminata o di vendetta automatica; in molte situazioni, le tattiche di non violenza sono molto più efficaci. Ma ritengo che l’uso della violenza sia uno strumento indispensabile nella cassetta degli attrezzi di ogni rivoluzionario, e che dovremmo essere preparati a usarla nel momento in cui potremmo avere dei vantaggi agendo in tal modo.

La ragione per cui il sistema ci insegna a essere orripilati dalla violenza è che la violenza di ogni tipo può danneggiare il sistema. Il sistema necessita, sopra ogni cosa, di ordine; ha bisogno di persone docili e obbedienti, che non creano problemi. Roger Lane ha dimostrato che, prima della rivoluzione industriale, la società americana era molto più tollerante nei confronti della violenza di quanto lo sia oggi, e che l’enfasi sulla nonviolenza è nata in risposta al bisogno del sistema industriale di una cittadinanza ordinata e docile (in particolare, vedi il capitolo 12 di Violence in America. Historical and Comparative Perspectives, a cura di Hugh Davis Graham e Ted Robert Gurr). Riservandosi alcune eccezioni, i leader del sistema sono piuttosto sinceri nel loro rifiuto per la violenza. Eppure, il sistema deve usare la violenza per preservarsi, e solitamente cerca di mantenere il livello di violenza – anche la propria violenza – al livello più basso possibile, perché essa può intensificare gli elementi di stress sociale che potrebbero danneggiarlo. Le “mele marce” della polizia, che massacrano le persone, sono, in modo irrazionale, degli elementi di ribellione al sistema. Per i membri più razionali e autodisciplinati della tecnocrazia, il poliziotto ideale è quello che fa ricorso a una violenza appena sufficiente per mantenere l’ordine pubblico e la disciplina sociale, e non più del necessario.

La maggior parte delle persone che insiste su come la nonviolenza sia una questione di principio cade in una di queste tre categorie: primo, quella dei conformisti – coloro che credono nella nonviolenza grazie al fatto che il sistema ha avuto successo nel loro lavaggio del cervello; secondo, quella dei codardi; terzo, quella dei santi – ossia coloro i quali la fede nella nonviolenza è frutto di una compassione genuina.

Quanto ai conformisti e ai codardi, questi sono indegni anche del nostro disprezzo, e non mi soffermerò ulteriormente su di loro. I santi, d’altro canto, meritano il nostro rispetto. Certo, se accettassimo i loro principi di fatto dovremmo rinunciare a ogni rivoluzione, ma nonostante tutto potrebbero comunque avere un ruolo importante da svolgere. Durante i disordini e la violenza che con ogni probabilità si avranno durante una rivoluzione, potranno aiutare a mantenere vivi gli ideali di gentilezza e compassione, e… chi lo sa? – forse un giorno avranno anche un effetto pratico nel ridurre il livello di crudeltà nella società umana. Ma da soli non possono vincere una rivoluzione. Per questo motivo, saranno necessari combattenti tenaci.

La più forte opposizione alla violenza, nella nostra società, proviene banalmente dal conformismo e dalle convenzioni sociali, e questo può essere dimostrato dal modo in cui cambia la reazione della società nei confronti della violenza in base alle circostanze in cui viene esercitata. Quando l’azione violenta si svolge con l’approvazione del sistema (nelle guerre, per esempio), la maggior parte delle persone considera la violenza scontata. Eppure, le stesse persone saranno inorridite dalla violenza se questa fosse disapprovata dal sistema.

I miei avvocati mi portarono da un neuropsicologo, un certo dottor Watson, per sottopormi ad alcuni test per verificare che non fossi pazzo. Appena terminati i test, il dottor Watson mi pose alcune domande sulle mie bombe. Tra le altre cose, mi chiese come mi sentivo riguardo l’impatto delle mie azioni sulle “vittime” e sulle loro famiglie, e sembrava piuttosto turbato dal fatto che un individuo intelligente come me potesse uccidere delle persone senza sentirsi eccessivamente in colpa e senza preoccuparsi troppo dell’impatto delle mie azioni sulle famiglie dei defunti. Eppure, se fossi stato un soldato che ha ucciso o mutilato un soldato nemico in guerra, non sarebbe mai venuto in mente al dottor Watson come mi sentissi riguardo l’impatto delle mie azioni sulle vittime o sui miei familiari. Nessuno si aspetta che un soldato esiti nell’uccidere un soldato nemico, oppure che si preoccupi di come si sentiranno le famiglie dei defunti e, a dirla tutta, sono pochi i soldati che si preoccupano di certe cose. Questo dimostra che la reazione delle persone riguardo la violenza è governata non dalla compassione ma dalle convenzioni sociali.

Il crollo del sistema tecno-industriale comporterà quasi certamente diverse difficoltà concrete. Se il crollo è improvviso, la cosa significherà immediata crisi alimentare, perché non saranno più disponibili pesticidi o fertilizzanti chimici, nessun seme ibrido altamente ingegnerizzato, nessun carburante o pezzi di ricambio per le macchine agricole, nessun camion o treno per trasportare i prodotti nelle città. Anche se il sistema si disintegrasse gradualmente nell’arco di qualche decennio, è quasi impossibile pensare che la riduzione della popolazione e il passaggio all’agricoltura di sussistenza possano avvenire in modo graduale e ordinato. Molte persone soffriranno per la mancanza di cibo e altre necessità materiali, e in queste circostanze è sicuro che si creeranno diffusi disordini sociali e forse addirittura battaglie. Guarda alla storia! Il rapido crollo di una civilizzazione è quasi sempre accompagnata dalla violenza; e più avanzate erano le civilizzazioni maggiori erano le violenze.

La moderna cultura borghese è eccezionale nella misura in cui cerca di sopprimere l’aggressività, che però è una parte normale del repertorio comportamentale degli esseri umani e della maggior parte degli altri mammiferi. La maggior parte delle società, attraverso la storia umana, sono state molto più tolleranti riguardo le aggressioni di quanto non lo sia l’attuale classe media. È vero che sono esistite alcune culture primitive che furono strettamente nonviolente. Non a caso, le ideologie della passività e della nonviolenza hanno innalzato queste culture come esempi per mostrare quanto violenta sia la società moderna, al contrario del nobile selvaggio. Ma inconsciamente, o con conscia disonestà intellettuale, ignorano completamente le ben più numerose culture primitive che consentono un grado di violenza molto maggiore di quanto non faccia la moderna moralità borghese. Ad esempio, Derrick Jensen, in Listening to the Land (Sierra Club Books, 1995, p. 3) loda i nativi americani Okanagan, nella Columbia britannica, per il fatto che non hanno mai intrapreso azioni di aggressione fisica; eppure, non dedica neppure una parola al fatto che la maggior parte delle tribù nord-americane erano decisamente bellicose. Addirittura, molte di quelle tribù avevano sviluppato un sentimento per la guerra come qualcosa di nobile e onorevole, e si imbattevano in guerre inutili solamente perché i giovani uomini volevano ottenere la gloria sul campo di battaglia (prima che le femministe cerchi- no di dare la colpa a quelle brutte bestie dei maschi, è opportuno sottolineare che gli uomini erano istigati anche dalle donne. Nelle tribù guerriere, ogni donna voleva che i suoi figli fossero guerrieri forti e coraggiosi, e uno dei motivi per cui i giovani uomini volevano ottenere la gloria battaglia era che questo li rendeva popolari tra le giovani donne).

Certo, la guerra dei popoli primitivi era molto diversa da quella moderna. Oggi, i soldati combattono per soddisfare le ambizioni dei dittatori o dei politici; nelle guerre più importanti, di solito sono coscritti, e anche quando si arruolano come volontari, in genere lo sono solo perché hanno subito il lavaggio del cervello della propaganda. Il moderno campo di battaglia si rivela un massacro in cui le abilità e il coraggio dei singoli soldati hanno poco effetto sulle chance di sopravvivenza. Al contrario, i nativi americani combattevano sia per proteggere sé stessi e le proprie famiglie, che per la semplice volontà di combattere. La loro guerra era su piccola scala, e questo significava anche che i singoli soldati non erano ridotti a insignificante carne da cannone. E così, anche i loro conflitti non conducevano a nessuna delle distruzioni ambientali che invece accompagnano le guerre moderne. Anzi, dal momento che le loro guerre mantenevano la popolazione sotto controllo, le conseguenze ambientali erano addirittura positive.

Eliminare ogni forma di violenza accrescerebbe la nostra aspettativa di vita, e l’aspettativa di vita nella società moderna è probabilmente più lunga di quanto non sia mai stata in ogni altra società. Eppure, la società moderna è profondamente turbata. Vi erano molte altre società in cui l’aspettativa di vita era molto più breve, ma in cui vi era molto meno stress, frustrazione, ansia o altre forme di dolore psicologico. Questo ci dice che l’aspettativa di vita non è un parametro essenziale per la felicità umana; resta comunque meno importante della libertà.

Non voglio dare l’impressione di credere che la violenza sia desiderabile di per sé. Anzi, il contrario. Sarei invece molto felice di vedere le persone vivere insieme senza farsi del male l’un l’altra, fisicamente, economicamente, psicologicamente, o in qualsiasi altro modo. Ma l’eliminazione della violenza non è in cima alle nostre priorità. La nostra principale priorità deve essere l’eliminazione del sistema tecnologico-industriale.