In cerca di altre mappe 2. «Io non scrivo afrofuturismo»

Proseguiamo a riproporre la rassegna sul fantastico femminista curata da Giuliana Misserville per Machina, presentando la seconda delle quattro puntate previste. L'intervento che segue affronta il dibattito sul passaggio dall’afrofuturismo all’africanfuturismo attraverso l'analisi delle opere di scrittrici come Octavia Butler, Nnedi Okorafor, Tlotlo Tsamaase e Bernardine Evaristo.

È il 19 ottobre del 2019 quando, con un tweet, Nnedi Okorafor chiarisce come vuole che la sua opera venga letta e collocata, segnando una presa di distanza dalla corrente varia e articolata dell’afrofuturismo che tutt*, fino a quel momento, consideravano l’ambito letterario che le era proprio.
“Io non scrivo afrofuturismo”, dichiara e per essere più precisa possibile, passa a enunciare, in Africanfuturism Defined [1], le differenze tra il precedente e il nuovo movimento culturale che battezza Africanfuturismo.
Okorafor è una scrittrice afroamericana, è nata a Cincinnati da genitori nigeriani, ha quarantaquattro anni e una carriera letteraria di tutto rispetto costituita da racconti, romanzi [2], fumetti. Ma, dice, di essersi stancata della definizione che viene accostata alla sua scrittura. Il 16 dicembre dell’anno successivo ecco altri tweet ancora più incisivi:

– IO NON SCRIVO AFROFUTURISMO.
– IO SCRIVO AFRICANFUTURISMO, una sottocategoria della fantascienza.
– Io scrivo AFRICANJUJUISMO, una sottocategoria del fantasy che riconosce e rispetta la perfetta fusione delle vere spiritualità e cosmologie africane esistenti attraverso l’immaginario.
– Qui definisco l’africanfuturismo e l’africanjujuismo. Le distinzioni sono importanti.
– Cari media, apprezzo e sono onorata dal vostro interesse al mio lavoro ma, per favore, BASTA CHIAMARE IL MIO LAVORO AFROFUTURISTA [3].

In principio fu Octavia
È indubitabile che l’Afrofuturismo sia stato un movimento fondamentale per mettere fine, a partire dagli anni Novanta, all’ostracismo che sembrava cancellare autori e autrici di black science fiction. Generalmente si considerano, come atto di nascita dell’Afrofuturismo le interviste fatte nel 1992 da Mark Dery [4]. Dery partiva provocatoriamente dalla domanda sul perché non ci fosse una vera e propria produzione di fantascienza nera.
La questione in effetti circolava fin dagli anni Settanta, ma la domanda corretta da porsi era invece un’altra, come sottintendeva Dery e cioè sul perché gli editori, la critica e l’establishment bianco non avessero mai notato la produzione di sci-fi afroamericana [5]. Certo, negli anni precedenti avevano scritto fantascienza personalità come Octavia Butler o Samuel Delany, e quindi che cosa si poteva concludere? “Il lavoro c’è, è là, ma nessuno che si occupa di cyberspazio gli presta attenzione” [6].
Anche la scrittrice e accademica statunitense Alondra Nelson, che nel 1998 aveva fondato e guidato la comunità online di Afrofuturism.net, dichiarava aprendo la discussione che l’intenzione e lo scopo dell’iniziativa era di esplorare temi futuristi, immagini sci-fi e innovazione tecnologica nella tecnocultura diasporica africana. Esiste una cosa come una tecnologia nera? I temi ricorrenti speculativi e fantascientifici in vari generi di produzione culturale black sono semplicemente coincidenze? O sono effetti estetici di un momento millenario? La fantascienza e la narrativa speculativa sono i generi più appropriati per riflettere le esperienze nere? [7]
Sembrava decisamente di sì! Come sottolinea Claudia Attimonelli dell’Università di Bari, “Nato nell’alveo della diaspora africano-americana degli anni Novanta, l’Afrofuturismo parte da alcuni assunti fondamentali che si possono sintetizzare nell’omologia tra schiavo, alieno e robot e nell’esclusione dei neri dall’ordine del discorso sul futuro e sullo sviluppo tecnologico, tanto che il termine stesso a primo impatto suonerebbe come ossimoro” [8]. L’Afrofuturismo quindi lega intimamente fantascienza e blackness e fa riferimento alle culture nere metropolitane che si muovono fra cinema, letteratura fantascientifica, musica (hip hop e techno), grafica e produzione di videoclip. “I teorici e gli artisti afrofuturisti, pur elaborando posizioni differenti tra loro – alcune nichiliste, altre militanti e altre escapiste – sono accumunati da uno slancio interno decoloniale teso prima di tutto al capovolgimento degli stereotipi culturali sulla blackness, e in particolar modo di quelli formulati dagli stessi neri nei primi del Novecento o durante le lotte per il riconoscimento dei diritti civili” [9].
E che l’Afrofuturismo sia ancora una corrente vitale in grado di intercettare la contemporaneità lo dimostra la carriera di alcune artiste queer come Janelle Monàe [10] capace di mischiare video musicali e cinema impegnato.
E allora perché voltare pagina? Certo – ammette Okorafor – per alcuni versi l’Africanfuturismo da lei proposto è simile all’Afrofuturismo

“nel modo in cui i neri nel continente e nella diaspora nera sono tutti collegati da sangue, spirito, storia e futuro. La differenza è che l’Africanfuturismo è specificatamente e più direttamente radicato nella cultura, nella storia, nella mitologia e nel punto di vista africani poiché si ramifica poi nella diaspora nera e non privilegia né si focalizza sull’Occidente. L’Africanfuturismo si occupa di visioni del futuro, è interessato alla tecnologia, […], è ottimista, è centrato su e scritto prevalentemente da persone di origine africana (i neri) ed è radicato prima di tutto e soprattutto in Africa. È meno interessato a ‘ciò che avrebbe potuto essere’ e più interessato a ‘ciò che è e può/sarà’. […] Il futurismo africano non DEVE estendersi oltre il continente africano, anche se spesso lo fa. Il suo valore predefinito è non occidentale; il suo centro/predefinito è africano [11].”

Insomma troppo poca Africa, è la conclusione di Okorafor a proposito dell’Afrofuturismo e troppo insistito lo sguardo rivolto al passato, a quel Middle Passage da cui tanta e splendida narrativa ha tratto forza e ispirazione. Non che Okorafor voglia ridimensionare la grandezza della triade Octavia Butler, Toni Morrison e Angela Walker. Anzi. Ma sospetta che la loro ricezione dia alimento a uno sguardo che in qualche maniera, per il peso preponderante del recupero di una memoria faticosamente riconquistata, non riesce ad allungarsi verso il futuro.
In un certo senso è vero che la battaglia culturale di una scrittrice come Octavia Butler si è svolta tutta all’interno dell’occidente americano e contro il razzismo implicito e esplicito nella fantascienza [12] e nella società letteraria. E tuttavia Okorafor onora la scrittrice di Pasadena, scrivendo il proprio affettuoso tributo:

“Ho chiamato mia figlia, Anya, in onore di Anyanwu, un personaggio del libro di Octavia E. Butler, del Seed. Anyanwu significa ‘Occhio del Sole’ nella lingua Igbo, che è il gruppo etnico da cui veniamo io e il padre di mia figlia, sebbene entrambi siamo nati negli Stati Uniti.
Il personaggio di Octavia è stato il primo essere fantastico africano, nigeriano e Igbo che abbia mai incontrato nella narrativa […]
Quando ho letto Wild Seed, ho praticamente pianto. Lì, nelle pagine del libro, a vivere in un remoto villaggio nigeriano molto tempo fa c’era Anyanwu, complesso, nigeriano e mitico. È stato dopo aver letto quel libro che ho attraversato la mia ‘transizione’ e ho iniziato a definirmi una scrittrice di fantascienza e fantasy [13].”

Il tributo a Octavia Butler [14] risale al 2008 e da allora Nnedi Okorafor ha radicalizzato le sue posizioni. Pur con tutto il rispetto e l’amore per l’autrice di Wild Seed [15], Okorafor si volge all’Africa per trovare la sua più intima ispirazione che ha bisogno di un vento nuovo e nuovi paradigmi per ricollocare il continente africano al centro di uno spostamento epistemico che mette a punto cartografie sovversive.

Il dito medio alzato
Già Bernardine Evaristo, nel 2008, aveva inventato un’altra cartografia e un’altra storia che invertiva ruoli e destini.

“Mi alzai e guardai la maschera di legno con il viso di Bwana appesa al muro. E gli feci l’opportuno saluto regale, con il dito medio alzato.”

È con questo gesto irridente e definitivo che Doris, la protagonista di Radici bionde [16] di Evaristo (inglese ma di padre nigeriano) manda al diavolo il suo padrone nero e al tempo stesso secoli di certa storiografia che ha raccontato la tratta degli schiavi calcando il pedale del vittimismo, anche se ce ne erano tutte le ragioni. La Doris di Evaristo si riprende in mano la storia, la rovescia come un calzino vecchio e ne estrae una nuova idea del continente africano che visionariamente rivoluziona qualsiasi cartografia presente nella nostra memoria. Riprendiamoci l’Africa sembra il proclama che sta dietro a questo romanzo d’esordio di Evaristo e che anticipa idealmente l’Africanfuturismo che verrà proposto da Nnedi Okorafor.
Come d’altra parte prova anche a fare, sull’altro lato de La Manica, Léonora Miano, scrittrice originaria del Camerun, trasferitasi a Parigi quando era diciottenne. Miano scrive in francese e con La stagione dell’ombra (Feltrinelli 2019) ha vinto il premio Femina 2013. Nel 2019 pubblica Rouge impératrice [17] in cui sovverte i flussi migratori tra le due sponde del Mediterraneo.
Miano si muove su un progetto molto distante dall’Africanfuturismo da cui la separano diversi elementi e che tuttavia testimonia come sia forte l’esigenza di una nuova immagine e di un nuovo futuro finzionale e non per il continente africano.
Con il saggio Afropéa del 2020, Miano teorizza la distinzione tra afropéi (afropéennes) e subsahariani ponendo come elemento principale di differenza l’essere cresciuti in un paese che non si riconosce in loro e che quindi mantiene gli afropéi (come in passato era avvenuto per i pieds noirs) in una situazione di subordinazione e marginalizzazione; mentre la scrittrice in quanto subsahariana ha avuto la fortuna di crescere in un’Africa dove le sue aspirazioni non sono mai state messe a repentaglio dal colore della pelle. Tuttavia l’utopia di uno spazio comune tra i due continenti costituirebbe per Miano una risorsa a cui ricorrere per rinnovare gli immaginari e costruire nuove modalità relazionali, che è lo scopo della sua scrittura.
Miano è anche molto critica nei confronti di Black Panther, il film di Ryan Coogler del 2018. Nel 2017, Okorafor aveva scritto la serie Black Panther: Long Live the King e tuttavia le rimostranze di Miano si concentrano sul finzionale Regno di Wakanda, come costruito nel film:

“Lo spazio subsahariano scelto per creare Wakanda, regno finzionale in cui si svolge la storia di Black Panther, è estraneo alla memoria di un afrodiscendente francese, statunitense, brasiliana… […] Essendo l’essere nero prima di tutto una condizione politica risultante dalla dominazione occidentale, non poteva riguardare gli abitanti di questo Wakanda la cui gloria era di non aver conosciuto il giogo coloniale. La storia di Black Panther si svolge dunque in un regno inadatto a produrre il più piccolo eroe nero. Non c’erano neri a Wakanda. Forse neanche africani. Ciò sembra essere sfuggito ai commentatori più accorti. Tutti vedono il mondo secondo le concezioni imperialiste e razziste che stigmatizzano da mattino a sera [18].”

È dunque importante orientarsi nelle faticosità del rapporto tra le diverse ramificazioni della blackness e un aiuto può venire da quanto scrive Elisa Bordin nell’introduzione al numero di Ácoma, Blackness, America nera e nuova diaspora africana:

“[…] il problema del termine afroamericano, come è comunemente tradotto in italiano, sta quindi in African e non tanto in American: African contiene un riferimento geografico che vuole sottolineare una provenienza, che tuttavia è storicamente irrecuperabile secondo alcuni, come scrive Saidiya Hartman in Lose Your Mother (2006). Nel volume l’autrice racconta del viaggio di studio in Ghana e dell’impossibilità del ‘ritorno’ a una mitica madrepatria poiché, per usare le parole del filosofo camerunense Achille Mbembe, incontrare la nerezza africana, per la blackness statunitense, spesso costituisce un incontro con una diversa forma di alterità, «an encounter with another’s other» [19].”

Ora, se Mark Dery nel 1994 si chiedeva provocatoriamente perché così pochi afroamericani scrivevano fantascienza, la domanda rimbalza negli anni articolandosi diversamente a seconda del contesto da cui prende ragione. È l’autrice giamaicana Nalo Hopkinson nel 2004 a sostenere che se la conquista coloniale è stata raccontata come impresa gloriosa, toccava agli scrittori postcoloniali usare gli strumenti della fantascienza per contaminare e sovvertire il genere [20].
Nelle riflessioni, più vicine a noi, di Nnedi Okorafor e Wole Talabi (uno scrittore e saggista nigeriano che lavora come ingegnere in Malesia e curatore di Africanfuturism, An Anthology già citata) tornano gli stessi quesiti e la stessa esigenza di sovversione, applicata però non più alla narrativa figlia della diaspora bensì a quella africana.

L’Africa tra mitologia e tecnologia
Se una novità della narrativa delle scrittrici nere come Octavia Butler, Toni Morrison, o Angela Walker era di mischiare e contaminare le loro trame con la magia e la stregoneria al punto da riconfigurare il genere facendone esplodere i limiti e superando la distinzione tra fantasy e fantascienza, come sostiene Marleen Barr [21], questo viene rinsaldato e rafforzato nella valorizzazione della spiritualità e della mitologia africana operata dalla narrativa africanfuturista.
Morti e divinità ci camminano accanto dunque. Prima erano una ragazzina che tornava a tormentare la madre che uccidendola l’aveva sottratta alla schiavitù (Amatissima, di Toni Morrison); o il fantasma paterno che accompagnava la vita della figlia (Nella luce del sorriso di mio padre, di Angela Walker). Adesso sono esseri soprannaturali che si manifestano e irrompono nella quotidianità dei viventi, e quindi possiamo leggere di streghe e presenze fantasmatiche, di miti che riprendono vita o oggetti che si tramutano improvvisamente in apparizioni mostruose come la superstrada Lagos-Benin che si rivela essere una collezionatrice di ossa (Laguna, di Okorafor).
Oppure è la folla dei morti che arrivano in treno per salutare i propri cari, come in Silenziosa sfiorisce la pelle [22], il romanzo di Tlotlo Tsamaase che sembra approfondire il solco di un ipotetico e tutto da indagare realismo magico africano. Tsamaase, autrice motswana che vive in Botswana, “scrive in inglese ma il suo lavoro è costellato di parole in tswana e le due lingue, anche se hanno un peso diverso dal punto di vista storico e emotivo, sulla pagina sono equivalenti” [23]. Scrive soprattutto essendo “consapevole degli strumenti di rimozione dell’identità nera, dei costi del colonialismo sempre presenti” [24], ma con l’esigenza di esplorare e decostruire quell’identità sulla pagina. E a proposito dello strano miscuglio di magia e realtà, Tsamaase racconta:

“Leggendo Helen Oyeyemi e Gabriel Garcìa Márquez, sono rimasta affascinata da quanto erano bravi a raffigurare la cultura e l’identità sulla pagina, a distorcere la realtà in modo così magico e bello da essere accettato come norma dentro a quei mondi. Quelle storie mi sembravano poesie, e oltre alla poesia amavo la musicalità della trama, che si svolgeva senza bisogno di spiegazioni. Sono rimasta colpita da una risposta che Gabriel Garcìa Márquez ha dato a un giornalista riguardo al surrealismo, che per il mondo le nostre storie sono surreali, ma è un surrealismo che scorre per le strade ed è la nostra realtà [25].”

Tsamaase firma uno dei racconti della raccolta Futuri Uniti d’Africa. Fantascienza contemporanea africana, curata da Francesco Verso per Future Fiction nel 2021 in cui compare anche il saggio di Wole Talabi Perché l’Africa ha bisogno di creare più fantascienza. Talabi a sua volta ha curato nel 2020 Africanfuturism. An Anthology che può essere letta comodamente online. Due antologie assai utili per cominciare a capire quello che sta succedendo nella fantascienza africana, di cui Okorafor sembra essere una assai efficace apripista.
Il ritorno in Africa e sull’Africa, per Nnedi Okorafor, è una svolta non solo teorica ma anche esistenziale:

“Scrivere storie ambientate in Nigeria e in altre parti dell’Africa non è stata una decisione conscia. È stata organica. E non l’ho mai messa in dubbio. Scrivo dove è l’energia. Seguo la mia musa e la mia musa viene senza dubbio dal villaggio di mio padre, Arondzougu, in Nigeria… Quando viaggiavo in Nigeria, vedevo i nigeriani interagire con la tecnologia in un modo che non ho visto riflesso in letteratura. Non vedevo l’Africa nel suo insieme riflessa nella scrittura sul futuro [26].”

Silvana Carotenuto, anglista dell’università di Napoli, analizzando acutamente l’opera di Okorafor conclude che “Okorafor ha infatti due priorità: l’Africa e il femminile”. Le eroine di Okorafor sono portatrici del dono:

“Il «dono» è la parola amorosa che attraversa il genre, il gender e la «generosità» della scrittura di Okorafor: nella puissance straordinaria, nella forza soprannaturale ed essenza unica, la ragazza talentuosa, la giovane dotata, deve esprimere, espandere, estendere il proprio dono o talento per salvare il mondo da infinite minacce, dal sussistere di mali atavici – africani e occidentali – e da terrori inauditi. Ed è qui che la sua «figura stringa» fa la differenza, apre passaggi, supera il determinismo, (si) lega e (si) slega, taglia e annoda, racconta e fa del racconto una realtà, inventa nuovi mondi, pensa «tentacolarmente» con una miriade di compagni/e intenti tutti/e a tessere, provare, unire, tracciare, risolvere – il trouble [27].”

Questa capacità, o talento, o magia, della donna è un elemento che contraddistingue tutte le personagge di Nnedi Okorafor, fino alla strega e scienziata Adaora, la protagonista del romanzo Lagoon [28] del 2014 in cui l’autrice miscela sapientemente il racconto fantascientifico di uno sbarco di extraterrestri con le cosmologie e le tradizioni degli abitanti di Lagos. Lagos, che non è la città africana preda del sottosviluppo come da stereotipo occidentale, ma invece una realtà caotica e vitalissima dove anche giovani attivisti lgbtq riescono a trovare uno spazio per lottare contro una società omofoba e discriminatoria. Adaora sembra riunire in sé le due potenzialità su cui l’Africanfuturismo intende lavorare e cioè la magia ovvero la potenza e capacità dell’immaginario di cambiare la realtà e la tecnologia di cui l’Africa si sta impadronendo.
Perché, come sottolinea Wole Talabi:

“Abbiamo bisogno di leggere del prossimo rinascimento tecnologico africano e dei generi di tecnologia che potrebbero guidarlo. Abbiamo bisogno di leggere di Afriche distopiche così da poterci chiedere: è veramente lì che vogliamo finire? Dobbiamo essere capaci a immaginare il futuro prima di poter iniziare a crearlo [29].”

 

In cerca di altre mappe 1. “Decolonializzare la fantascienza”

Note
[1] Il manifesto di Nnedi Okorafor, Africanfuturism Defined è stato poi inserito nella raccolta Africanfuturism. An Anthology, curata nel 2020 da Wole Talabi per Brittle Paper, magazine online di letteratura africana. Il testo è scaricabile dal seguente link: http://brittlepaper.com/wp-content/uploads/2020/10/Africanfuturism-An-Anthology-edited-by-Wole-Talabi.pdf .
[2] Di Nnedi Okorafor sono disponibili in italiano i seguenti romanzi:
Chi teme la morte?, Gargoyle, Isola del Liri 2015, trad. di Benedetta Tavani;
Laguna, Zona 42, Modena 2017, trad. di Chiara Reali;
Binti – La trilogia, Mondadori, Milano 2019, trad. di Benedetta Tavani.
[3] Per ogni pubblicazione mancante del corrispettivo italiano, la traduzione è mia.
[4] Mark Dery, Black To The Future: Interviews with Samuel R. Delany, Greg Tate, and Tricia Rose, in Mark Dery (a cura di) Flame Wars. The Discourse of Cyberculture, Dune University Press, Durham and London, 1994.
Una prima versione delle interviste con scrittrici e scrittori di black science fiction era già stata pubblicata nel 1992 in South Atlantic Quarterly, 1992, pp. 735-738.
[5] Sulla difficoltà che poteva attraversare una scrittrice nera, torna anche Octavia Butler con due brevi saggi di natura autobiografica pubblicati di recente in Italia nell’antologia La sera, il giorno e la notte, a cura di Veronica Raimo, SUR 2021. Si tratta di Ossessione positiva (del 1989) e Furor Scribendi (del 1993), in cui Butler “discute le circostanze e le aspirazioni che avevano animato la sua esperienza di giovane scrittrice senza appoggi e privilegi; anzi – come scrive Marina Vitale in Octavia, fantascienza e non solo, su Leggendaria, n. 154/2022 – con tutti gli svantaggi derivati dalla combinazione catastrofica di genere, di razza e di censo”.
[6] Kali Tal, The Umbereable Whitness of Being. African American Critical Theory and Cybercultura, Wired Magazine, ottobre 1996. Potete leggerlo in: https://kalital.com/Texts/Articles/whiteness.html.
[7] Il documento è riportato in Claudia Attimonelli, Genealogie dell’Afrofuturismo: la black sci-fi per finirla con l’Umanesimo; potete leggerlo su https://www.roots-routes.org.
[8] Ibidem.
[9] Ibidem.
[10] Janelle Monàe, classe 1985, ha venduto milioni di copie dei suoi album musicali come Electric Lady e Dirty Computer. La sua carriera cinematografica comprende film come Il diritto di contare di Theodore Melfi (2016), Moonlight di Barry Jenkins (2016) e Antebellum di Gerard Bush e Cristopher Renz (2020).
[11] Nnedi Okorafor, Africanfuturism Defined, op. cit.
[12] cfr. Octavia Butler [1980], Lost Races of Science Fiction, in Gerry Canavan, Octavia E. Butler, University of Illinois Press, 2016, edizione elettronica.
[13] Nnedi Okorafor, Octavia’s Healing Power. A tribute to the Late Great Octavia E. Butler, in Marleen S. Barr, Afro-Future Females: Black Writer’s Chart Science Fiction’s Newest New-Wave Trajectory, The Ohio State University Press, 2008.
[14] Per la rilevanza di Octavia Butler nell’afrofuturismo si può leggere di Lidia Curti, Il viaggio interstellare. Pensiero verde e afrofemminismo, in Femminismi futuri. Teorie/Poetiche/Fabulazioni, a cura di Lidia Curti, Iacobelli editore, Guidonia 2019, pp. 37-57.
[15] Wild Seed è un romanzo pubblicato da Octavia Butler nel 1980. In Italia è stato pubblicato col titolo di Seme selvaggio da Mondadori nel 1991.
[16] “Con un rivoluzionario atto di fantasia, Bernardine Evaristo immagina un mondo in cui la tratta atlantica degli schiavi viene ribaltata lungo la linea del colore: sono i neri (anzi, i nehri) ad aver fondato un impero coloniale a partire dal Regno Unito di Grande Ambossa, e i bianchi (anzi, i bianki) a essere razziati dall’Europa e trasportati come schiavi al di là del mare, nelle Isole del Giappone Occidentale”. Dalla quarta di copertina dell’edizione italiana pubblicata da SUR nel 2021.
[17] La vicenda di Rouge impératrice, pubblicato da Grasset, si svolge a Katiopa, un continente africano prospero e autarchico, quasi interamente unificato come dei futuribili Stati Uniti d’Africa. A Katiopa cercano rifugio gli abitanti della vecchia Europa, poveri e disperati.
[18] Léonora Miano, Afropéa, Grasset, Paris, 2020.
[19] Elisa Bordin, Nuovi ‘passaggi’ fra Africa e Stati Uniti: un’introduzione, in Elisa Bordin e Anna Scacchi (a cura di) Blackness, America nera e nuova diaspora africana, Ácoma. Rivista Internazionale di Studi Nordamericani, n. 22/2022, pp. 5-25.
[20] cfr. Teresa Colliva, Nnedi Okorafor: traiettorie di un futurismo africano, Il Tolomeo, n. 23/2021, pp. 135-152.
[21] Marleen S. Barr, Afro-Future Females, op. cit.
[22] Silenziosa sfiorisce la pelle è un romanzo breve ambientato in una città africana in cui una giovane donna senza nome comincia lentamente a perdere la propria identità: la sua pelle scolorisce, le persone che la circondano diventano invisibili e la città da cui è esclusa progetta di distruggere il treno che la comunità utilizza per salutare i propri morti.
[23] Giulia Lenti, Nota della traduttrice, in Tlotlo Tsamaase, Silenziosa sfiorisce la pelle, Zona 42, Modena 2022, edizione elettronica.
[24] Tlotlo Tsamaase, Postfazione, in Silenziosa sfiorisce la pelle, op. cit.
[25] Tlotlo Tsamaase, Postfazione, in Silenziosa sfiorisce la pelle, op. cit.
[26] Nnedi Okorafor, Nigerian Writers Shouldn’t Focus On Fame, Money. Intervista sul giornale online dailytrust del 24 settembre 2016. Potete leggerla su https://dailytrust.com/nigerian-writers-shouldnt-focus-on-fame-money-nnedi-okorafor.
[27] Silvana Carotenuto, Le ‘figure stringa’ nella fantascienza di Nnedi Okorafor, in Leggendaria n.124/2017, pp. 23-26.
[28] Il romanzo è stato pubblicato in Italia nel 2017 col titolo Laguna, dall’editore Zona 42 e la traduzione di Chiara Reali.
[29] Wole Talabi, Perché l’Africa ha bisogno di creare più fantascienza, op. cit.

[testo pubblicato originalmente su Machina]