Implosione cilena

Emilio Gordillo, Chroma, tr. Lorenzo Mari e Eugenio Santangelo, Edizioni Arcoiris, pp. 189, € 12, 00 stampa

Santiago del Cile, ai giorni nostri: tutto inizia su un vagone della metropolitana e, sullo stesso vagone – probabilmente durante il medesimo viaggio – tutto si chiude. È lì che il protagonista di Chroma si trova a ricapitolare gli eventi della propria vita recente attraverso un montaggio a singhiozzo in cui è vano (forse inutile) aggrapparsi a qualche blanda traccia cronologica: il carattere precipuo di Chroma sta nella capacità di suggerire un’accumulazione sincronica di immagini, sensazioni, reperti. Il valore di questo singolare romanzo sta nella stratificazione.

Una stratificazione curiosamente trasparente, come l’effetto Chroma Key, tecnica video che dà il titolo al libro, impiegata per sovrapporre immagini diverse in una singola unità, fotografando nella prima fase il soggetto sopra uno sfondo verde blu per poi ritagliarlo e innestarlo in altri panorami. Artificio su cui riflette il protagonista che di nome fa Santiago proprio come la città fantasma in cui il libro si ambienta; città, virtualizzata e post umana (come la carne del Chroma Key), priva di qualsivoglia unità se non l’unità ‘radicale’ delle linee metropolitane: diagrammi di un impersonale potere ctonio la cui manutenzione garantisce vita a un organismo (la città stessa) di fatto morto. Non è un caso infatti che i capitoli del libro si alternino alle piantine delle reti metropolitane di svariate metropoli del globo e a stralci di un manuale sul TPM (Total Productive Maintenance): metodo di controllo e ottimizzazione della produttività di origine giapponese che, a partire dalla manutenzione costante delle macchine, finisce per coinvolgere ogni aspetto della vita del lavoro, spostandosi ben oltre l’abiezione del toyotismo e della ‘qualità totale’.

Ma se la metropolitana e i sistemi efficientisti tengono artificialmente in vita la città, la superficie si è svuotata di orizzonti, offrendo al giovane Santiago materia di disorientamento politico e linguistico: può ancora la parola letteraria donare forma all’informe? Può l’arte stendere il velo di Maya di una presunta unità sull’indistinzione progressiva arrecata dai neoliberismi al senso della civiltà? Arte, passione culturale, politica, affetti: quel che Santiago ricapitola e incontra sono solo frammenti mossi da impeti destinati a implodere.

Frammenti, singhiozzi tanto (troppo) simili alla lingua di suo padre: lo schizofrenico Francisco. È per lui che Santiago è tornato dal suo altrove: per farlo rinchiudere, mettendo fine al tormento della propria storia privata e a quel deragliamento cognitivo ed espressivo
(straordinariamente lucido) che Francisco rappresenta. Ma è da Francisco che Santiago riceve l’inaspettata eredità che lo spingerà a imporsi l’unico gesto creativo che sembra restargli: disseminare bombe sui diagrammi mortiferi rispondendo all’implosione dei suoi mondi con l’espansione (nichilista) del tritolo.

Romanzo ambizioso nell’impostazione e nella scrittura, disperato si direbbe, ma terso al limite – voluto – della freddezza, Chroma deve essere letto, almeno parzialmente, alla luce della storia cilena e degli anni irredenti della dittatura: lascito di cui Gordillo riscontra (ovunque) tracce di mal dissimulata continuità nello sviluppo incolore di un neoliberismo ontologicamente autoritario.

E questo è un aspetto: il più evidente e decifrabile, ma anche l’unica strada che l’autore indica al lettore, senza mai, tuttavia, prenderlo per mano, sfidandolo piuttosto a perdersi con lui in una selva di segni. A onor del vero, in questo senso, Gordillo è onesto sin dalle prime pagine: il lettore non troverà, in Chroma un traghettatore premuroso: “Se il romanzo è come la voce di una madre, come il sussurro di una madre, questo non potrà mai essere un romanzo”.

Lettore avvertito: Gordillo non ha nulla del narratore madre, non protegge il lettore, non lo perde per poi ricondurlo all’interno di coordinate riconoscibili e confortanti. La prosa di Gordillo mima piuttosto la voce ispirata, visionaria, schizofrenica di un padre: Francisco Scarcela. Una figura degna di figurare accanto ai sette pazzi di Roberto Arlt, il grande autore argentino degli anni Venti, cui Gordillo dedica (forse) un omaggio implicito sul finire del romanzo.

Omaggio che è spia di una continuità poetica con la veggenza rivoluzionaria e nichilista di Arlt? Al lettore farsene un’idea. Di seguito due stralci tratti da I sette pazzi (1929): “Lei crede che le future dittature saranno militari? No signore. Il militare non vale nulla in confronto all’industriale. Può essere un suo strumento, nulla più. Questo è tutto. I futuri dittatori saranno re del petrolio, dell’acciaio, del grano”. Oppure: “Ormai per noi è passato il tempo in cui potevamo abbracciare un credo, una fede… L’uomo è una bestia triste che riuscirà ad emozionarsi solo per dei veri prodigi. O per dei massacri”.

Nichilista o visionario, rivoluzionario o pazzo, probabilmente altro e nulla di tutto questo, che ne sarà di Gordlillo? Troverà altro fiato dopo un’opera così decisiva? Ce lo auguriamo. Intanto complimenti al piccolo ma gagliardo editore Arcoiris che dimostra lo stesso coraggio dei folli che pubblica.