Giovanni De Feo torna alle stampe con il suo nuovo romanzo (dopo Il mangianomi, Salani, 2010; L’isola dei liombruni, Fazi, 2011; La casa delle lumache senza guscio, Acheron Books, 2019), confermando le sue qualità di tessitore di storie fantastiche di autentica originalità. Innanzitutto l’ambientazione si sottrae alla tentazione esotica di luoghi e tempi lontani, qualità che renderà la dimensione altra, attigua a quella ordinaria, ancor più perturbante e intensamente onirica. In secondo luogo i personaggi, immortalati nella pellicola fotografica, si moltiplicano e prendono vita al tocco del protagonista, Nicodemo, suggerendo la possibilità di risvegliare un numero indefinito di storie agite e vissute.
Quando interviene un brusco cambiamento nella nostra vita, di quei cambiamenti che rivoluzionano lo spazio e il tempo, anche se si ha solo undici anni diventa imprescindibile cercare di forzare gli eventi, modificarli. È ciò che succede a Nicodemo Bencivenga, recalcitrante dinanzi a un trasferimento familiare che significherà per lui non solo l’abbandono dei luoghi della sua infanzia, ma soprattutto un reciso taglio e un sofferto addio alla sua esistenza di bambino.
Nicodemo possiede un fedele amico, Flagello, un fazzoletto bianco da cui non può separarsi. Ma al momento della partenza, Flagello è scomparso. Nicodemo si precipita di nuovo nella casa, ormai chiusa e pronta per essere abbandonata, all’inseguimento di un infido nemico, circondato da efemerotteri, che sembra avere le sembianze di un ragazzino, dalle cui mani sventola Flagello. La strana creatura ha qualcosa di familiare agli occhi di Nicodemo: un’intuizione lancinante lo lascia senza fiato, poiché l’altro è in realtà il suo riflesso, di schiena. L’inseguimento acquista presto i caratteri della fuga da quella coercizione (il trasferimento in un’altra città) che gli adulti vogliono imporre, ma la fuga non si srotolerà attraverso lo spazio aperto e selvaggio, bensì all’interno di una camera oscura in un labirinto di foto. Ed è qui che risiede la forza visionaria di questo romanzo, capace di trasformare le cornici e i ritratti bidimensionali di rettangoli di carta acetata in un universo fantasmatico, fluttuante eppure dolorosamente tridimensionale. A dare corpo alle immagini interviene una scrittura plastica in grado di accampare metafore aeree, che non si impongono come una studiata esibizione erudita, ma si sollevano nella leggerezza delle frasi, per generazione intrinseca. Le travolgenti avventure di Nicodemo tratteggiano un lento crescendo che nell’acuirsi della suspense si sciolgono in un’agnizione esistenziale e quasi metafisica che nulla perde della tensione di un vero romanzo di formazione. Il viaggio, iniziato in uno spazio angusto e buio, si dilata nella moltiplicazione prospettica dei fuochi di una macchina fotografica che ha catturato le immagini nell’illusione di salvarle dall’oblio. All’interno di questo periplo di attimi congelati che per magia riprendono vita, Nicodemo dovrà affrontare un Nemico tremendo, ma soprattutto dovrà sprofondare nella scoperta della propria storia e della propria genealogia. E come in un romanzo medievale, Nicodemo non assisterà inerme agli eventi, bensì interverrà, lotterà per sovvertire i piani di un avversario dal nome terribile e evocativo: l’Effimero. Il suo percorso ricorda qualcosa delle catabasi degli eroi antichi, solo che l’Ade ha una differente fisionomia non meno claustrofobica e inquietante. E come per Ulisse e per Enea, anche per Nicodemo l’agnizione e la profezia giungeranno dalla voce di un antenato, un antenato scomodo che tuttavia consentirà al ragazzo di riappropriarsi di quello spazio e di quel tempo che la partenza dei genitori avevano forzatamente disintegrato. Ma da un viaggio di formazione si torna cambiati, un cambiamento immutabile e indelebile.