Un viaggio nell’International Manga Museum di Kyoto
Cuore della cultura tradizionale giapponese e complementare all’ultramoderna Tokyo, Kyoto sorge in una valle cinta da templi, le cui linee pulite circondano il centro abitato e sembrano, con discrezione, presidiarne i confini.
Ma ci sono templi, buddhisti e shintoisti, anche all’interno della città, nei quali specialmente in estate pulsa un’antica e sommessa vita rituale: preghiere, prugne lasciate a essiccare, il tintinnio dei sonagli a vento, sotto il forte brusio – che dopo un po’ fa tutt’uno col silenzio – delle grandi cicale giapponesi. Ci sono templi ovunque a Kyoto, anche nei centri commerciali e nei parchi pubblici.
Uno di essi è dedicato un culto giovane ma già numeroso. È il Museo internazionale del manga, un’istituzione tipicamente giapponese che a una prima occhiata non ha nulla di celebrativo. All’ingresso troviamo un negozio di gadget, poi un workshop di giovani mangaka che deliziano i visitatori con ritratti dalle fattezze stilizzate e gli occhi ingranditi; più oltre, percorrendo i corridoi dell’edificio – che in passato è stato una scuola – si arriva a una sala-biblioteca con al centro pannelli che illustrano aspetti giuridici, statistici o produttivi della storia del manga, a uno spazio dedicato alle mostre, e a un’ampia sala lettura con divani circolari e un grande tappeto, anch’esso circolare, sul quale accomodarsi a leggere.
È inutile cercare di descrivere un posto come il Museo internazionale del manga in modo oggettivo, specialmente se si è italiani e si è stati bambini nei primi anni ottanta, quando i cartoni animati giapponesi dilagavano nei palinsesti delle TV private e ogni pomeriggio si occhieggiava negli interni sobri ma accoglienti delle case giapponesi e ci si interrogava sul sapore degli onigiri, le polpette di riso. Esplorare il Museo significa naufragare tra le suggestioni, perché nuove scoperte sollevano ricordi vecchissimi, e per un po’ si va alla deriva tra i sogni di un tempo più spensierato. Ma nel giro di poco si iniziano a distinguere i lineamenti di in una storia. Una storia che è fitta di atmosfere, invenzioni grafiche e visioni della cultura occidentale, che fin dall’inizio hanno segnato la storia del manga.
Le suggestioni aleggiano tra le scaffalature gremite di tankōbon – gli albi rilegati – in cui spiccano serie da cui tra gli anni settanta e ottanta sono stati tratti i cartoni arrivati in Italia, ma subito si scorgono rassomiglianze tra quelle serie e altre: oltre a Versailles no Bara – cioè Lady Oscar – ne vediamo altre ad ambientazione storica in cui la cura del dettaglio si unisce al gusto del feuilleton e non di rado ai vagheggiamenti sentimentali tipici del sottogenere dello shōjo manga: fumetti dedicati a Cesare Borgia, a giovani alpigiane, a T. E. Lawrence, a fanciulle vittoriane o dell’alta società inglese d’inizio Novecento – Lady Victorian e Lady!!! – e, ancora, rievocazioni del Giappone feudale o del periodo Shōwa. E poi ci sono i fumetti ad ambientazione sportiva – come Capitan Tsubasa, il leggendario Holly e Benjy – e space opera come quelle legate all’universo vastissimo di Mobile Suit Gundam. E finalmente capiamo chi sia il personaggio con l’aria da duro i cui albi sono in vendita in tutti i Lawson, gli ubiqui minimarket giapponesi: si tratta del protagonista di una serie noir, Golgo 13 di Takao Saito, iniziata nel 1968 e ancora in corso. Il tratto di Saito somiglia a quello del quasi coetaneo Sampei Shirato, autore della serie Sasuke (sulle avventure di un giovane ninja), in cui ci si è imbattuti per caso un pomeriggio estivo di decenni prima.
L’enorme quantità degli albi, che ricoprono le pareti fino al soffitto, rende palpabile una storia accelerata, un immaginario che si è espanso con la rapidità e la potenza di una supernova e ha pervaso ogni angolo e ogni momento libero della serrata vita quotidiana giapponese, disseminando tracce ovunque: nei vagoni della metropolitana, sulle panchine, sui tatami. Si dispiega davanti ai nostri occhi una fitta sequela di esperimenti, variazioni e ripetizioni, in cui le soluzioni imposte da una produzione febbrile si sono unite a un’insaziabile sperimentazione. Per esempio, nell’opera dei grandi maestri notiamo a volte il recupero degli stessi visi (così fa, per esempio, Leiji Matsumoto: Capitan Harlock, il pirata dello spazio, è nato come Franklin J. Harlock, navigatore e pistolero al centro della serie western Gun Frontier). E lo stesso fumetto di “avanguardia”, il gekiga, è nato poco dopo gli albori del manga, quando artisti come Yoshihiro Tatsumi, che racconta della sue esperienza creativa nell’autobiografia a fumetti Una vita tra i margini, inseguiva l’idea di un fumetto più adulto, nei temi e nello stile grafico (diversi esempi di gekiga sono stati da poco pubblicati in italiano da Coconino press).
Nel museo tutto diventa tangibile. Si intuiscono le tonnellate di carta, i ritmi forsennati, il consumo vorace; si condivide l’interesse dei giapponesi per la cultura occidentale, che rende il nostro sguardo sul lussureggiante universo del manga quasi onirico, sospeso tra riconoscimento e straniamento. E si percepiscono gli ideali, le ossessioni e i turbamenti collettivi del pubblico giapponese – è fiorentissima anche la pornografia, con un’infinità di sottogeneri e perversioni – e ci assale la smania di leggere e la frustrazione di non poterlo fare, perché gli ideogrammi, con la loro agile eleganza, non riescono a staccarsi dalle immagini.
Ma per loro fortuna molti dei visitatori capiscono il significato degli ideogrammi, e possono godere pienamente delle storie che raccontano. Il museo del manga non allontana dal pubblico gli oggetti del desiderio. Chiunque può prendere un albo, dirigersi alla sala lettura e sprofondare nei grandi divani o nel pavimento imbottito, pronto a fuggire in una mitteleuropa reinventata, nel Giappone degli shogun o in una colonia orbitante. In silenzio devoto, nonne e nipoti, genitori e figli, e adolescenti solitari si fermano a leggere manga, le cui pagine non vengono sottratte agli sguardi e isolate in una teca; sarebbe un tradimento della loro ragion d’essere, che è quella di accompagnare il tempo quotidiano, di soddisfare la fame di evasione, di colorare – nonostante siano perlopiù in bianco e nero – la memoria di una stagione. I manga possono essere elevati allo statuto di classici, ma devono essere divorati, e il museo non nega questa realtà ma la asseconda, senza temere la deperibilità della carta. (Per fortuna, però, i lettori giapponesi, anche i più giovani, sanno trattare quella carta con rispetto).
Uscendo dal museo dopo aver comprato un souvenir nel negozio annesso – una serie di cartoline dedicate a Tetsuwan Atom di Osamu Tezuka (conosciuto in Italia come Astro Boy) si ha la sensazione di aver viaggiato nei decenni; di aver avuto accesso – tra navi, astronavi e fanciulle diafane dai grandi occhi – a un’enorme e multiforme memoria collettiva, e di averne visto le fucine. E si ha l’impressione di poter meglio cogliere la distanza tra il Giappone e l’occidente; una distanza che gli autori di manga hanno percorso con lo sguardo e tuttavia non hanno mai voluto colmare, consci fin dall’inizio della forza della loro ispirazione, che si nutre di influenze esterne all’isola ma è radicata nella loro tradizione pittorica e religiosa, nella loro morale, nel loro rapporto con la natura. (Sono immancabili, nei manga – persino in quelli dedicati ai mecha, i robot giganti – le pause contemplative davanti al profilo dei rami, alle nuvole, ai fili d’erba, le stesse pause a cui le città giapponesi, con improvvisi scorci di verde in mezzo al cemento, sembrano incoraggiare).
E uscendo dal mondo cartaceo del manga e rientrando nella città si intuisce un ancora misterioso senso di unità; si intravvedono le corrispondenze, evidenti o segrete, che fanno una cultura.