Il teatro della mente

Claudia Petrucci, L’esercizio, La nave di Teseo, pp. 335, euro 18,00 stampa, euro 9,99 epub

Il mondo inaspettato è la parte che non distinguiamo della mente, quella che vede cose passate e terribilmente future, tanto che le azioni quotidiane, o le azioni più rare, sembrano per lo più arbitrarie, o messe di peso nella realtà in linea retta da un romanzo o film distopici. Philip K. Dick, seguendo un esempio calzante, sapeva più di tutti noi messi insieme, era un genuino pazzo furioso, o per meglio dire, un paranoico senza scampo con enorme capacità di scrittura? Saperlo. Semplificare è quasi sempre facile, e comodo, per noi umani senzienti e a tratti atterriti dai nostri stessi sogni.

Dunque quali scelte sono legittime e quali arbitrarie, e quante sono dirottate da un gerente misterioso, remoto e invisibile? Questa domanda fa coppia con l’altra che pone la faccenda dell’esistenza di Dio. Per Dick Dio poteva essere l’entità occulta detentrice del potere. A nessuno compete di scegliere quale strada seguire dopo la nascita, i luoghi (leggasi tutta la realtà) slittano uno sull’altro secondo una fisica ignota a occhi umani e elettronici, crediamo di vedere somiglianze fra i giorni ma sono soltanto deviazioni minime soggiacenti all’universo. Nessuna filosofia spicciola, la meccanica celeste sfugge a qualsiasi regola umana, ma c’è sempre chi si convince di tenere fra le mani le leve virtuali del comando. I click dimostrerebbero l’esito di mutamenti repentini, ma ogni cosa resta incastrata nel gizmo dell’eterna confusione. In Cristalli sognanti del 1950 (Adelphi, 1997) di Theodore Sturgeon, cantore di un nuovo mondo, la meravigliosa Zena guida i pensieri delle pietruzze che dalle profondità terrene “lavorano” le sorti umane. Quanto può essere spaventoso credere a un minerale che ricrea esseri viventi, cellula dopo cellula, secondo canoni di bellezza di sua invenzione? I pensieri, nel romanzo di Sturgeon, prendono forma soltanto quando si comunicano a qualcun altro. Se questo è il mondo da noi abitato, siamo pronti a leggere il romanzo di Claudia Petrucci.

Non soltanto perché fra gli interessi dell’autrice siano affermate, e articolate, le realtà parallele, la cui esistenza – chiariamolo una volta per tutte – non è legittimata soltanto dalla fantascienza. Facciamo piazza pulita dei generi, atteniamoci a quella cosetta che si chiama letteratura, che quando c’è e viene maneggiata con grazia e consapevolezza supera ogni genere di macchinazione fantastica. È questo il caso dell’Esercizio, romanzo apparentemente lontano dalle colossali rovine dell’epoca attuale, se non per rapidi tratti legati all’attualità e all’architettura intravista capitolo dopo capitolo nella città di Milano. Poche pagine e siamo lì, dentro le dimensioni parallele della psiche schiumante immagini filmiche e sceneggiature. I passi di Filippo stanno dietro a Giorgia, sua compagna con trascorsi di attrice teatrale. Qualcosa di allucinato fra loro consiglia di non abdicare agli esordi propedeutici di una storia che ben presto sfumerà in altro. L’incontro casuale con Mauro, maestro di teatro dei tempi passati, innesca il racconto di Petrucci verso eventi enormemente più pesanti: uno scatto secco e determinato che non si dimentica, nel folto di un futuro nero e affamato di catastrofe. Il trio è composto, e le divinità dei sentieri “che si biforcano”, per niente consolatorie, entrano in azione.

Cosa vede Giorgia oltre i confini della sua mente, dopo la lettura del copione scritto e riscritto dai due uomini bloccati dal loro intento ma pressoché incapaci di un accordo? La sua visione, nel tempo, inevitabilmente cambia, pur tenendo stretto il nocciolo inscalfibile di sé. C’è un punto del romanzo in cui tutto appare più spaventoso, lì la letteratura diventa tanto potente da far scattare l’allarme sulla macchinazione verbale di Filippo e Mauro. La letteratura è implacabile, smaschera all’istante i due, manifestazione visibile della concentrata concretezza di Petrucci. Nessun espediente o verbosità inutili trascinano il racconto in villanie cinematografiche, i disturbi di attori e comprimari sono disturbi, appunto, che fiammeggiano sopra le nostre teste, e sul palco di un teatro dotato di generose manciate di verità. Non la risaputa coppia di tanti copioni ma le azioni di un trio sghembo, dalle esagitazioni psichiche in continuo asservimento, dove (Shakespeare non smette di trapassare le epoche) è quasi impossibile verificare chi ha più potere. Il tempo fa i suoi salti, scena e proscenio cambiano in fretta quando un sipario invisibile viene telematicamente azionato da infallibili meccanismi di montaggio. Il baratro è nelle vicinanze, ma Giorgia è pur sempre l’eroina centrale della storia nonostante i reset psichici. Giorgia abita il proprio inferno, verosimile chiedersi se infine non sia lei stessa a influenzare e comandare i due sconsiderati “registi”. Gli esercizi, vecchi e nuovi, sono complicati, la vita è complicata sul palco e fuori, ci sono ruoli che si avvicinano e allontanano come satelliti liberi di muoversi fra i pianeti, poco influenzati dalle maree mentali. Ma non dimentichiamo come, ogni volta, sia il primo pensiero ritrovato da Giorgia a depositare una legge: cruda consapevolezza che non possiamo non amare e proiettare dentro le nostre coscienze. Impedendo incongrui stalli, soprattutto nell’attuale tempo dissestato e indefinibile, forse frutto di una vasta e fredda distopia. Per questo siamo schierati, senza condizioni, dalla parte di Giorgia. In quanto a voi, cercate di incontrarla e dimostrate di aver capito questo sorprendente romanzo.