Di Virginia Woolf, nata Virginia Stephen, una cosa è certa e indiscutibile: non si affermò al suo esordio. Se i testi scolastici sono una misura della notorietà di un’opera letteraria, fu sicuramente La signora Dalloway, il suo terzo romanzo, ad assicurarle fama duratura; in termini estremamente concreti di vendite, fu Orlando il suo unico successo commerciale in vita; poi mettiamo accanto a questi due capisaldi lo straordinario Al faro (anche noto come Gita al faro) e il fondamentale saggio Una stanza tutta per sé e avremo così il best of della scrittrice inglese.
Ma chi conosce Il lungo viaggio? E quanti avranno letto La crociera? E vien da chiedersi quanti siano a conoscenza del fatto che dietro questi due titoli italiani si nasconde il medesimo romanzo, The Voyage Out, uscito in Inghilterra nel 1915, opera prima della regina di Bloomsbury – non proprio un Classico dei Classici, e sicuramente un testo ancora acerbo. Eppure ci sono buone ragioni per andarlo a leggere oggi, che cercherò di esporre in questo mio ragionamento; prima però, dato che non stiamo parlando di un romanzo noto a tutti, è il caso di presentarne una sinossi.
Si deve partire proprio dal titolo originale, che nessuno dei suoi equivalenti italiani rende con precisione. The Voyage Out evoca un viaggio che esce, che s’allontana da casa, un viaggio di andata, che va verso un fuori che non è dove stai di solito. Non a caso s’apre con una coppia sposata, lui studioso della letteratura greca classica, lei dedita a una forma artistica di ricamo, che attraversano Londra per andarsi a imbarcare su un piroscafo diretto in Sudamerica. Lei, Helen Ambrose (modellata da Virginia sulla sorella Vanessa), esita perché non manda giù l’idea di lasciare i figli per mesi e mesi; lui, Ridley Ambrose, è convinto che solo isolandosi dall’ambiente londinese potrà terminare il suo magnum opus su Pindaro. Alla fine salgono a bordo della “Euphrosyne”, proprietà dell’armatore Willoughby Vinrace, cognato di Helen, che viaggerà con gli Ambrose e sua figlia Rachel, orfana della madre. A completare il gruppo c’è William Pepper antipatico membro dell’entourage intellettual-artistico vagamente bohemienne degli Ambrose. Si tratta di una compagnia scompagnata, e l’unico rapporto che si stabilisce è quello tra Helen e sua nipote Rachel; gli altri tre più che altro s’ignorano, presi ognuno dalle sue faccende. Helen sembra convinta che Rachel sia troppo ingenua, e che le occorra una guida per navigare nel grande mondo; diventa in breve la confidente della ragazza.
Al quinto capitolo arriva una sorpresa, quando la nave attracca alla foce del Tago, e si imbarca un’altra coppia sposata: un politico ex-parlamentare, Richard Dalloway, e sua moglie Clarissa. Esattamente, proprio la signora Dalloway dell’omonimo romanzo, che per certi versi siamo autorizzati a leggere come uno spin-off de La crociera; e ci viene presentata come un’altezzosa snob che guarda dall’alto in basso gli altri passeggeri del piroscafo, lei che è sposata a uno degli uomini che governano l’Impero Britannico. I due sono in viaggio in Europa in attesa delle prossime elezioni, con le quali Richard conta di tornare in parlamento; il ritratto che ne fa Woolf è piuttosto impietoso, e tra le righe sembra chiedersi quale possa essere il futuro dell’Inghilterra governata da personaggi del genere (Richard si permette persino di baciare Rachel quando resta solo con lei, che ne resta conturbata e scossa – si intuisce che, per quanto inglese, è un dongiovanni cinico e disinvolto). E non dimentichiamo che quel mondo Virginia lo conosceva bene: suo nonno era stato un politico importante, sottosegretario di stato per le colonie verso la metà dell’Ottocento. Comunque, si può ben dire che i Dalloway siano un cameo nel romanzo, perché sbarcano nell’ottavo capitolo, e l’Euphrosyne fa rotta verso la sua meta, l’immaginaria colonia inglese di Santa Rosa.
Man mano che la storia si snoda, Rachel assume sempre più decisamente il ruolo della protagonista. È una ragazza fino a quel momento vissuta pressoché segregata in casa, ma assai intelligente, che durante il viaggio scopre il mondo (e se stessa) restandone spesso stupefatta; a Santa Rosa incontrerà il giovane, affascinante e inconcludente Terence Hewet, del quale si innamorerà, entusiasticamente ricambiata. Il romanzo è quindi anche una storia d’amore, peraltro tragica, perché proprio quando incontra l’uomo della sua vita la povera Rachel contrae una malattia tropicale e muore. Woolf, se leggiamo tra le righe, preannuncia il triste destino della sua eroina già nel quarto capitolo, quando ce la mostra intenta a leggere lo spartito del Tristano e Isotta di Wagner, regalo di Willoughby alla figlia appassionata di musica, e non c’è storia d’amore più tragica di quella. Tra l’altro, la descrizione dell’agonia della sventurata, e del suo delirio febbrile, è un pezzo di bravura della Woolf, che qui già dimostra le sue doti di prosatrice (aggiungo che dietro questa scena c’è la morte reale a ventisei anni di Thoby Stephen, il fratello maggiore di Virginia).
Ma altre linee narrative si intrecciano a quella incentrata su Rachel. Nell’albergo di Santa Rosa, nei pressi della casa dove si insediano i coniugi Ambrose e Rachel, c’è una nutrita comitiva di inglesi, tutti benestanti (i viaggi in Sudamerica non erano allora alla portata degli operai e della piccola borghesia), tutti convintissimi della superiorità della razza anglosassone. Sono i tipici vittoriani, che vogliono vedere le colonie ma interagiscono solo e soltanto con altri inglesi, che non si degnano di imparare la lingua locale (a Santa Rosa la gente del posto parla spagnolo, e i nativi una lingua amerinda), che pure a ottomila chilometri da casa esigono il tè alle cinque e la cena alle sei, e la domenica esigono all’ora di pranzo il classico Sunday roast cucinato secondo tradizione. L’occhio di Woolf è spietato nel cogliere i vizi e le fissazioni dei suoi connazionali, e ne esce un ironico ritratto di questi cittadini del più grande impero della storia (esteso nell’anno di pubblicazione di La crociera su un terzo delle terre emerse), che viaggiano perché paradossalmente insoddisfatti della loro stessa civiltà, ma del tutto incapaci di farne a meno.
Eppure un’ombra oscura si stende sui domini di re Giorgio V: non è un caso se il miglior amico di Terence, St John Hirst, giovane intelligentissimo e decisamente asociale (ritratto di Lytton Strachey, uno dei membri di punta del gruppo di Bloomsbury), prescrive a Rachel la lettura di Declino e caduta dell’Impero Romano, il ponderoso saggio storico settecentesco di Gibbon. Da un lato c’è la supponenza maschile che fa ritenere a Hirst di avere il diritto di dire a una donna cosa deve leggere per elevarsi culturalmente; dall’altro, va sottolineato che l’Impero Romano fu il modello di quello britannico fin dalla fine del Seicento, e citare ripetutamente nella narrazione la storia dettagliata della sua dissoluzione sembra quasi prefigurare il collasso del suo successore (che inizierà con Woolf ancora in vita e si compirà non molto dopo la sua morte).
Come ci si può attendere da Virginia, la condizione femminile è un altro tema forte del romanzo: si allude ogni tanto alle lotte delle suffragette per ottenere il diritto di voto (all’atto della pubblicazione non ancora concesso dalla ruling class britannica), e si osserva attentamente la vita delle donne dei ceti alti alloggiate nell’albergo, impegnate nel loro ruolo di mogli e madri, per quanto non tutte soddisfatte della vita che conducono; i molti dialoghi fanno emergere le convenzioni sociali del periodo ma anche la personalità delle signore, dalla volitiva Evelyn, alla quale il ruolo femminile tradizionale sta molto stretto, alla romantica Susan, contentissima di aver trovato marito proprio a Santa Rosa (ovviamente britannico). Un dettaglio colpisce il lettore del 2025: pur essendo figlia di un armatore certo non sprovvisto di mezzi economici, Rachel non è andata a scuola, non ha neanche un diploma: all’epoca l’istruzione delle ragazze era facoltativa.
Va anche letta tra le righe l’usanza delle coppie sposate benestanti di partire in viaggio, come fanno gli Ambrose e i Dalloway, senza i figli, che vengono lasciati alle cure della servitù se non in qualche collegio; non è solo comodità, c’è anche l’idea che i bambini vadano educati fin da piccoli a vivere lontani dai loro parenti, perché il loro destino è quello di recarsi in qualche colonia in Africa, America, Asia, Oceania, ad amministrare i vari dominions britannici. La missione civilizzatrice (o pretesa tale) ha la priorità sugli affetti e la dimensione privata: le donne – né più né meno come le matrone romane – devono offrire i loro figli all’impero per gestirne le terre d’oltremare.
La crociera è un libro da leggere perché illumina sia La signora Dalloway (per ovvi motivi), sia Al faro, in quanto ci fa entrare nel milieu famigliare e socioculturale della Woolf senza le complessità della sofisticata tecnica narrativa della sua opera matura. Ma ha anche un altro motivo di interesse, essendo contemporaneamente opera prima e opera postuma. Va detto infatti che tutte e quattro le traduzioni italiane (quella di Giorgia Valensin del 1951, di Oriana Previtali del 1956, di Luciana Bianciardi del 1994 e di Giorgio Arosi del 2012 —quante versioni per un’opera minore!) sono basate sull’edizione del 1915; ma Virginia aveva completato il romanzo già nel 1912. Il ritardo nella pubblicazione fu dovuto a problemi psicologici della scrittrice, prodromi di quella sindrome depressiva che l’avrebbe portata al suicidio trent’anni dopo; in quell’intervallo di tre anni, l’autrice fece leggere il romanzo ai sodali del gruppo di Bloomsbury prima di darlo alle stampe, e le venne suggerito di smorzarne l’ironia e la polemica nei confronti della società e della politica britannica. A tutti gli effetti l’edizione del 1915 fu il prodotto di un’autocensura.
Fortunatamente negli anni Settanta Louise A. DeSalvo, una studiosa americana di discendenza italiana, si sforzò di ricostruire la versione originale di The Voyage Out, che si intitolava Melymbrosia, lavorando accanitamente per sette anni sui manoscritti di Virginia; il testo non censurato venne pubblicato nel 1981 ma, ahinoi, ancora non è stato tradotto in italiano nonostante gli indubbi motivi di interesse. Io ho potuto leggerlo in originale (non si può mai perdere l’occasione di godere della prosa di una delle più grandi stiliste della lingua inglese nel ventesimo secolo), cosicché il mio commentario è basato più sul testo postumo che sull’opera prima, in violazione della regola di questa rubrica. Mi dichiaro colpevole e mi rimetto alla clemenza dei lettori; penso comunque che Virginia, se ancora sta da qualche parte, mi abbia già perdonato.