Da dove vengono i racconti? Dai sogni? Dai viaggi? Dalle ossessioni individuali? Dai grandi mutamenti sociali? Ma soprattutto: da dove viene l’insopprimibile passione umana per il raccontare?
A questi interrogativi sembra rispondere (indirettamente) ciascuno dei racconti, frammenti e appunti di diario di Walter Benjamin (1892-1940) antologizzati da Einaudi nella sobria ed elegante collana delle Letture. Un’operazione editoriale – dopo quelle francese (1987) e inglese (2016) – che raccoglie tutte le prove narrative del grande pensatore ebreo tedesco: filosofo, sociologo, critico letterario e culturale, speaker radiofonico, giocatore d’azzardo e collezionista. Questa edizione italiana ha il pregio di riunire esclusivamente testi nati come narrativi e due appendici con abbozzi di racconti giovanili e pagine di diario, includendo una preziosa Prefazione di Antonio Prete.
Le brevi narrazioni, tutte prive di trame risolte o personaggi memorabili, originano dagli aspetti più significativi della vita di Benjamin, come i viaggi e i lunghi soggiorni in Francia, Italia, Spagna e Danimarca, o dalle sue ossessioni: il gioco d’azzardo, gli effetti del consumo di stupefacenti, i manufatti di legno come i giocattoli, i libri in edizioni antiche o rare e, più in generale, la mania del collezionismo. I personaggi piuttosto anonimi che popolano queste pagine sono fatti di capitani di navi e marinai, viaggiatori e camminatori, giocatori colti durante dialoghi profondamente esistenziali. Come un puzzle che lentamente e disordinatamente si ricompone davanti ai nostri occhi, il breve spazio del racconto scompone e ricompone la vita e le vite, giocando a immaginare quale possa essere il tassello più importante, quello decisivo, che ne restituisce, infine, il senso.
Nei Racconti, si ritrova la vena narrativa minuziosa e poetica dei luoghi che ha stregato molti lettori e lettrici italiani con libri quali Infanzia berlinese e Immagini di città. Sguardo e parola di Benjamin camminano nelle grandi città (Parigi, Berlino, Marsiglia) o nei piccoli paesi e nelle isole (Ibiza, Capri), cogliendone sempre il carattere profondo (o l’eccezionalità), il significato persistente che l’occhio del viandante ruba. Come in certe stradine del Sud Italia: “Le case all’intorno avevano poco in comune con quelle che avevano reso celebre questa piccola cittadina dell’Italia meridionale. Non abbastanza vecchie da essere corrose dal tempo e non abbastanza nuove da risultare invitanti, si trattava di una raccolta di capricci provenienti dal limbo dell’architettura”. Il raccontare scaturisce da un serrato confronto tra l’angoscia dell’ignoto e quella del noto, un’angoscia che “ci assale spesso quando calchiamo uno qualunque di quei luoghi riprodotti e descritti mille volte”.
La produzione di significati attraverso l’arte (dal Barocco alla pittura successiva all’avvento della fotografia), che aveva segnato il pensiero di Benjamin, spesso frainteso, sminuito o tradito dai suoi stessi amici e colleghi (Theodor Adorno e Max Horkheimer su tutti), trova in questi racconti una realizzazione luminosa e frammentaria, rapsodica come nel suo personalissimo stile. E aggiunge un tassello alla comprensione di un autore, tra i più influenti e tuttavia sottovalutati del Novecento, lasciando aperto l’inutile quanto bruciante interrogativo su cosa sarebbe stato di lui – e dell’intera storia del pensiero occidentale! – se un giorno di fine settembre del 1940, a Portbou (al confine tra Francia e Spagna) in attesa disperata di un visto per fuggire negli Stati Uniti, Benjamin non avesse scelto la strada del suicidio, al tragico bivio con quell’altra che l’avrebbe invece condotto per mano della Gestapo al campo di concentramento nazista. Anche questa, in fondo, è materia pulsante del narrare.