Joyce Carol Oates alle prese con un tempo distopico? Eccellente new entry per qualcuno, per altri (a cui la fantascienza, cosiddetta, assume aspetti poco plaudenti: ma questo appare affatto trascurabile) così così, ma la bravura della scrittrice canadese non dovrebbe permettere perplessità. E nemmeno la sua sempiterna capacità di varcare campi letterari distintissimi per generi, temi e atmosfere. Nessuno si contorca nel proprio salotto, dunque, e non rincari la dose nei territori bui e tempestosi dei social o nelle newsletter mantenuti da atroci timonieri. Gli uffici stampa gongolano, e fanno bene: i volumi della nostra autrice, morbidamente ricchi di centinaia di pagine, diffondono spray energici e energetici per niente consolatori, e si fanno percepire come ottimi compendi di sana e ricca scrittura, di libertà fuori dai regimi, e brillantezze discordi alle ondate di sessismo provenienti da ogni latitudine mondiale. Anche longitudine, se è per questo.
In Hazards of Time Travel (romanzo pubblicato nel 2018, ricordiamolo) la protagonista, Adriane S. Strohl vive negli Stati del Nord America rifondati (dopo i cosiddetti Grandi Attacchi terroristici di chissà quale evo), studentessa diciassettenne curiosa e pressoché modello, ma non per la dittatura vigente che tutto tiene sotto controllo e che alle prime avvisaglie di “contrarietà” al regime (o leggeri dubbi) non esita a “cancellare” i cittadini colpevoli. La Vaporizzazione è temuta, non se ne può parlare, ma ancora oltre va l’Esecuzione, sorta di pubblico ammonimento spesso trasmesso in televisione. Situazione descritta da Oates con grande ricchezza di dettagli, che a qualcuno potrà ricordare il mondo tracciato da Margaret Atwood nel proprio Racconto dell’ancella, di gran moda oggi grazie a una serie TV di successo critico e popolare. Questi sono i tempi: nel secondo dopoguerra si temevano i “marziani”, oggi si temono i “terrestri” con tutte le loro invenzioni, e quel che aggiudicheranno alle epoche prossime venture.
Oates dopo aver descritto il mondo statunitense futuro, in cui il dissenso viene oltremodo perseguito, rivolge la sua attenzione al periodo americano degli anni Cinquanta, dove la povera ragazza viene spedita in una sorta di misterioso viaggio nel tempo, punendo così la sua smodata curiosità e le troppe (considerate scabrose e pericolose) domande rivolte ai propri insegnanti. È qui che prende pienamente campo la bravura dell’autrice: la descrizione di una società del Midwest, nel ristretto campus di un college, affascina, turba e suscita ammirazione per la temeraria zampata della scrittrice su un terreno di cui notevolmente si appropria. La studentessa si ritrova in un luogo in cui tutti fumano, le ragazze usano i bigodini e tra loro chiacchierano continuamente di maschi e make-up. L’aggeggio che loro chiamano macchina da scrivere, pieno di meccanismi assurdi, la fa quasi svenire, e non capisce come l’apparecchio televisivo possa avere soltanto tre canali. E i libri si tengono in mano, si sfogliano, sono a disposizione ovunque: assurdo. Il suo esilio le appare come una punizione insostenibile.
La concretezza del racconto ci impone di seguire ciò che diventa una sfida per la protagonista, e un amore impetuoso quando l’attenzione per un insegnante si trasforma in assillo quotidiano, insieme al pensiero ininterrotto, e drammatico, sul come fare a fuggire dalla prigionia “temporale”. Una realtà, la sua, che esiste davvero o che assume l’aspetto di una punizione ancora più terrificante? Oates riprende i temi a lei cari, quelli che saturano la bolla americana fatta di violenze, sessismo, cupe passioni e comunità dominate da dinamiche oppressive e sanguinarie. La tratteggiata iper-realtà del mondo futuristico, da cui proviene Adriane (ribattezzata Mary Ellen), si fronteggia all’altrettanto “realistico” tempo già accaduto, divulgato al nostro sguardo attraverso le lenti del Panavision e i fotogrammi Eastmancolor. La disumanità americana, trasferita dal futuro distopico al passato che tutti già conoscono, appare come un qualcosa in cui non esistono ricompense ma punizioni in cui forse l’intero mondo è ripiombato senza accorgersene. Il dubbio, alitato nelle nostre menti dalla scrittrice, ha la stessa forma del microchip incastrato nel cervello della ragazza e che le procura opprimenti blocchi di pensiero. Ma pure questo è forse soltanto immaginazione indotta.
La deriva temporale, l’amore in cui si rifugia Adriane/Mary Ellen, sono un terreno di conquista, un carcere le cui pareti forse possono essere dissolte in modo che il mondo personale possa ampliarsi e ammorbidirsi. Ma non esistono risposte certe, possiamo soltanto assistere, negli ultimi capitoli di Pericoli di un viaggio nel tempo, a un paesaggio consolatorio, forse mentale forse no, in cui il vero “pericolo”, ancora una volta, sta tutto in una presunta (o ipotetica) normalità.