Il promontorio della paura fra manicheismo e disfunzionalità

John D. MacDonald, Cape Fear, Mattioli 1885, tr. Nicola Manuppelli, pp. 200, euro 16.00, stampa
Il promontorio della paura (Cape Fear), diretto da J. Lee Thompson, 1962
Cape Fear - Il promontorio della paura (Cape Fear), diretto da Martin Scorsese, 1991

Fra i molti meriti della raffinata casa editrice Mattioli 1885 di Fidenza, uno dei più apprezzabili è la tetragona attitudine a recuperare testi importanti ma sottovalutati, in particolare della letteratura americana (ma non soltanto), e restituirli a nuova vita con traduzioni accurate e integrali, soluzioni tipografiche sofisticate, bella carta, pagine stondate: un piacere sinestetico che nessun tablet potrà mai replicare. L’itinerario letterario che Mattioli ha ampiamente percorso passa anche dai paperback statunitensi degli anni compresi fra i tardi Quaranta e i primi Sessanta, sulle cui pagine – così popolari e periferiche da stillare indenni oltre le maglie censorie del perbenismo maccarthista – si è evoluta, tra l’altro, la narrativa hard-boiled e noir, nata sui pulp magazines da edicola che nei decenni precedenti avevano dato spazio a scrittori come Dashiell Hammett o Raymond Chandler. Nel secondo dopoguerra le piccole case editrici di pocket che avevano ereditato e modificato il mercato pulp – come Ace, Dell, Bantam, Avon, o la Gold Medal Books della Fawcett Publications – potevano contare su autori geniali e controcorrente come Jim Thompson, Fredric Brown, Robert Bloch, Charles K. Williams, Harlan Ellison, Richard Matheson, Philip K. Dick (perfino William S. Burroughs pubblicò il primo e più leggibile dei suoi romanzi, Junkie, per la Ace, sotto lo pseudonimo di William Lee). In questo ambito la Mattioli ha già recuperato veri e propri capolavori misconosciuti come Il mio angelo ha le ali nere (Black Wings Has My Angel) o La fine di Wettermark (Wettermark) di Elliott Chaze (se non li conoscete leggeteli, per favore…) e questo vale anche per John D. MacDonald (1916-1986) – prolifico e magistrale artigiano dei generi che ha spaziato dal noir, al thriller, alla fantascienza – di cui ha già pubblicato Il termine della notte (The End of the Night), un romanzo criminale spietato che anticipa e forse ispira il true crime celeberrimo di Truman Capote, A sangue freddo, e ora manda in stampa Cape Fear (The Executioners), testo del 1958 che ha avuto una ricaduta di importanza fondamentale in campo cinematografico.

L’intreccio è abbastanza semplice: un pericoloso pregiudicato, Max Cady, esce dopo aver scontato quattordici anni di prigione, ripresentandosi nella piccola città della provincia statunitense dove vive Sam Bowden, l’avvocato che egli considera responsabile della sua condanna; inizia a perseguitarlo intimorendo lui e la sua famiglia, ma senza mai compiere azioni penalmente perseguibili. Il cane di casa viene avvelenato, ma non ci sono prove su Cady che misura ogni mossa ed è furbo, non minaccia, ma  lascia intendere alla sua vittima che il seguito sarà qualcosa di molto peggiore: non vuole denaro da Bowden ma vendetta. La stessa polizia regolare – il capitano Mark Dutton – e Charles Sievers, un detective ingaggiato dall’avvocato, convincono la famiglia sempre più terrorizzata che l’unica possibilità di liberarsi della persecuzione consiste nello scavalcare la legge impotente e dare una lezione a Cady facendolo picchiare da tre sicari; a malincuore Bowden accetta, ma il tentativo si rivela infruttuoso, Cady, infatti, è così duro da aver ragione di tutti e tre gli aggressori: non resta quindi a Bowden che stanare la belva a tradimento, usando la propria famiglia come esca, e, giustificato dalla legittima difesa, abbatterla durante l’assalto.

Questa, in estrema sintesi, è la trama basilare della vicenda che viene però declinata in modi molto diversi – talvolta antitetici – nelle tre, tutte apprezzabili, versioni realizzate: quella del romanzo originale di MacDonald più quelle dei due grandi film che ne sono stati tratti, Il promontorio della paura (Cape Fear), diretto da J. Lee Thompson nel 1962 ed interpretato da Robert Mitchum, Gregory Peck, Martin Balsam, Telly Savalas, e Cape Fear – Il promontorio della paura (Cape Fear), diretto da Martin Scorsese nel 1991, con protagonisti Robert De Niro, Nick Nolte, Jessica Lange e Juliette Lewis. Il raffronto è estremamente interessante perché ci dà modo di considerare tre distinti periodi della storia culturale statunitense e il modo obliquo in cui una storia si modifica adattandosi progressivamente al suo contesto epocale, allineandosi allo Zeitgeist.

Il romanzo di John D. MacDonald reca ancora traccia recente del secondo dopoguerra: protagonista e antagonista infatti si incontrano sotto le armi, mentre sono di stanza a Melbourne in Australia. Bowden sorprende casualmente Cady mentre sta per violentare una ragazza quattordicenne e interviene, avendo ragione di lui solo perché questi è ubriaco fradicio e si accascia a terra russando al primo pugno. La testimonianza di Bowden al processo lo incastra come stupratore, ma, essendo Cady un veterano di guerra, se la cava con solo quattordici anni di pena. Vedremo che James R. Webb nella sua sceneggiatura che adatta il romanzo per il film del 1962, non fornirà troppi particolari né sul contesto bellico (qui Cady si rivolge sempre a Bowden chiamandolo “avvocato” e non “tenente” come nel libro), né, soprattutto, sulla natura sessuale dell’aggressione: si dice infatti nel film solo che Cady abbia terrorizzato una bambina (senza specificare di che tipo di terrore si fosse trattato). La testimonianza di Bowden resta immutata, ma la pena scontata da Cady, imputato qui per generica violenza e non per stupro, si riduce nel primo film da 14 a 8 anni, il secondo ripristinerà delitto e castigo, ma immetterà una variante fondamentale riguardo al processo di cui parleremo più avanti. Il Bowden del romanzo è sostanzialmente un brav’uomo, un modesto avvocato e un affettuoso marito e padre di famiglia. Ha una bella moglie, Carol, di lontana origine indiana Sioux e tre figli: Nancy di 14 anni, Jamie di 11 e Bucky di 6 – il personaggio interpretato nel film da Gregory Peck resta simile, il classico average man cui l’attore sapeva così egregiamente dare corpo, ma la moglie – che qui si chiama Peggy – perde le connotazioni meticcie venendo impersonata dall’assolutamente wasp Polly Bergen; i due figli più piccoli inoltre si perdono per strada: nel film appare solo una figlia unica, la quattordicenne Nancy. Nel romanzo Cady invece è solo un bruto, ha l’astuzia dell’animale da preda ma nessun’altra caratteristica saliente, è un buon tiratore essendo un ex veterano (userà a un certo punto una carabina di precisione ferendo il ragazzo undicenne, ma in entrambi i film sia il personaggio che l’episodio saranno eliminati) e il suo aspetto è impressionante: calvo, grosso, muscoloso, scattante.

Il romanzo è essenzialmente manicheo: il bene e la razionalità – Bowden – devono regredire alla legge della giungla per difendersi dal male e dalla ferocia belluina – Cady. Il titolo originale The Executioners, tradisce questo intento: la famigliola dell’uomo qualsiasi è costretta a trasformarsi in un’improvvisata e piuttosto maldestra squadra di boia, di carnefici (executioner) se vuole sopravvivere e deve farlo ai margini della legge e delle barriere della civiltà. Il Cady incarnato da Robert Mitchum però riduce gli aspetti ferini e acquisisce maggiore lucidità – confesserà infatti alla sua vittima di essersi studiato bene la legge durante gli anni di prigione e di sapersi ora muovere con sicurezza attraverso i cavilli giuridici (questo particolare, assente nel libro, diventerà fondamentale nel film successivo, la versione definitiva di Scorsese).

Quello che si è detto a proposito della repressione sessuale per il film degli anni Sessanta, vale anche per la violenza: Cady si spinge sempre solo fino a un certo punto – come era tipico del cinema di quegli anni – e mai lo oltrepassa se non per l’unico omicidio mostrato, quello del vicesceriffo Kersek. Anche nel finale, quando finalmente Bowden lo avrà, ormai inerme e sotto tiro, a differenza del suo omologo letterario (che spara comunque alla cieca per difendere la moglie e non è neanche sicuro di colpire il bersaglio), rifiuterà la parte del boia e preferirà risparmiare il colpevole condannandolo – come dice nelle ultime battute del film – a una pena molto peggiore della morte, la reclusione a vita.

Interessante constatare come il progressivo distillarsi della trama verso una “tintura madre” sempre più potente coincida con una tropicalizzazione anche geografica: il romanzo infatti è ambientato vicino a New Essex, in North Carolina, uno stato del sud degli Stati Uniti, ma non dell’estremo sud; il film del 1962 scenderà invece fino ai dintorni di Savannah in Georgia e quello del 1991 si spingerà addirittura nel cuore delle paludi della Florida.

Il lavoro di Wesley Strick sul romanzo per la sceneggiatura del film di Scorsese, tiene attentamente conto di quanto già fatto da Webb per il film precedente: un percorso all’interno del testo, parallelo e analogo a quello compiuto sulla musica. L’adattamento della colonna sonora infatti riprende la partitura scritta nel film del 1962 da Bernard Herrmann (veterano delle soundtrack hollywoodiane e compositore d’elezione di Alfred Hitchcock), ma questa viene aggiornata e riarrangiata da Elmer Bernstein (altro fuoriclasse della generazione successiva). Così ai nuovi protagonisti del remake si affiancheranno, in piccoli ruoli cameo, anche le ormai anziane star del film precedente: Mitchum, Peck, Balsam.

Il film di Scorsese quindi, oltre al romanzo di MacDonald, attinge a piene mani al film di Lee Thompson reintroducendo nella storia tutto il sesso e la violenza repressi negli anni Cinquanta e Sessanta ma, soprattutto, sostituendo al manicheismo e alle certezze morali dell’America vittoriosa dei padri, il dubbio, il sospetto, l’ambiguità dei figli, reduci dalla crisi del post-Vietnam.

Strick introduce degli elementi nuovi che potenziano la trama portandola alla sua apoteosi noir. Cady, un luciferico Robert De Niro, viene letto in chiave nietzschiana e diventa letteralmente una corda tesa fra la belva e il superuomo: ha passato i quattordici anni di gabbio a studiare, materie giuridiche in particolare (“ormai siamo colleghi” – dirà a Bowden al loro primo incontro), e a coltivare la forma fisica (la prima scena del film ce lo mostra, corpo statuario e interamente tatuato, mentre si allena in cella; alle pareti foto di Stalin, di Nietzsche, di Robert Edward Lee, immagini sacre e di supereroi Marvel; sul comodino pile di libri: bibbie, codici legali, trattati di criminologia, manuali di culturismo, opere di Nietzsche). Quando lascia il carcere, il secondino di guardia gli chiede perché non si porti via i suoi libri: “Li ho già letti tutti”, risponde. Cady è uno psicopatico ma d’intelligenza superiore; un altro particolare potenzia il personaggio conferendogli un gigantismo inusitato che lo avvicina, più che al noir a certi spauracchi soprannaturali del gotico e dell’horror: nel romanzo si fa un breve riferimento a un parente della disastrata famiglia rurale da cui proviene Cady dicendo che è uno shaker. Il dettaglio, appena accennato nel libro, viene del tutto ignorato nel film del 1962, ma diventa primario nella versione di Scorsese: Cady è cresciuto in una famiglia montanara pentecostale, i suoi parenti allevavano serpenti velenosi e bevevano la stricnina per raggiungere l’estasi religiosa.

Questo imprinting ha potenziato il superomismo e il delirio ossessivo del personaggio, geneticamente predisposto a sopportare il dolore fisico, ignorando ogni sofferenza o cedimento, nel finale sarà capace di seguire le sue vittime legandosi con la cintura sotto la loro auto e facendosi così trasportare per chilometri, di sopportare le ustioni che Danielle (la Nancy del romanzo) gli procura schizzandogli in volto del petrolio in fiamme, e, soprattutto, di non cedere nemmeno nel momento supremo dell’annegamento quando, come Achab, resta ammanettato alla barca sommersa tra i gorghi: in quel momento – geniale e abissale idea di Strick e Scorsese – acquisisce il carisma pentecostale della xenoglassia e urla in una strana e incomprensibile lingua, e poi prorompe in un inno religioso continuando fino all’ultimo a sfidare con sguardo indomito il nemico che dalla riva lo guarda sprofondare.

Un titanismo che ricorda un altro personaggio interpretato da De Niro in quel giro di anni: la creatura del dottor Frankenstein. Scorsese rivelò in un’intervista che Cady “si inserisce nei meccanismi di colpa della famiglia, risvegliando in tutti i suoi componenti fantasmi rimossi”, il suo obbiettivo è intervenire sulle fratture già esistenti nei rapporti familiari sgretolandoli definitivamente, e quasi ci riuscirà.

Questa è la differenza fondamentale con le due versioni precedenti: le famiglie del romanzo e del primo film sono salde e unite (uno dei punti deboli del libro sono proprio i dialoghi di maniera fra marito, moglie e figli: la classica famigliola statunitense), quella del film di Scorsese è invece del tutto disfunzionale: Bowden (Nick Nolte) è un uomo ricco, bugiardo e infedele; la moglie Leigh (Jessica Lang) cova sordi rancori ed è una donna viziata e annoiata; la figlia Danielle (Juliette Lewis) non sopporta i genitori e i loro continui litigi ed è un’adolescente sexy e civettuola. La middle-upper class descritta da Scorsese è francamente ripugnante e se Cady non fosse così orribilmente violento si tenderebbe quasi a simpatizzare con lui.

Questa è la seconda variante fondamentale introdotta nell’ultima versione: nel testo originario Bowden ha semplicemente testimoniato contro Cady in tribunale, nel remake Bowden era invece l’avvocato difensore di Cady, e ha deliberatamente soppresso le prove che avrebbero potuto alleggerire la sua condanna o accordargli un’assoluzione. Bowden ha voluto vendicare la ragazza stuprata contravvenendo però all’etica professionale di tutela del cliente: dal suo discutibile punto di vista Cady ha legalmente ragione. A questo punto la forbice tra questa e le altre formulazioni della storia è divaricata. Cady non ha che da tracciare le colpe di Bowden: stupra e ferisce seriamente (le spezza un braccio e le stacca un pezzo di guancia con un morso) la giovane praticante legale dell’avvocato che si è lasciata rimorchiare da lui perché delusa di essere stata sgraziatamente mollata da Bowden con cui aveva una relazione, sicuro che la ragazza non possa denunciarlo per paura delle conseguenze della rivelazione pubblica di un adulterio che la coinvolgesse; denuncia con successo per aggressione l’avvocato che gli ha sguinzagliato contro tre sicari avendo registrato di nascosto le minacce che questi improvvidamente gli ha fatto in un bar; seduce la disamorata figlia Danielle seguendola a scuola e spacciandosi per un suo nuovo insegnante permissivo e anticonformista (spinello condiviso, confessioni reciproche, complicità) e poi le si rivela in forma sapientemente edulcorata e idealizzata montandola contro il padre e facendosi poi succhiare il pollice in un eroticissimo surrogato di fellatio: Danielle potrebbe restare fino all’ultimo dalla sua parte se non assistesse alla spietata mattanza del detective Kersek e soprattutto dell’innocente domestica messicana, compiuta da Cady durante l’irruzione notturna in casa Bowden; perfino i preliminari del quasi compiuto stupro finale sull’inappagata moglie di Bowden vedono una grandissima Jessica Lang profondamente ambivalente, frantumata tra attrazione e repulsione. Si può dire in fondo che Cady pur perdendo vince, avendo ormai smascherato e portato all’implosione tutta l’ipocrisia dei suoi avversari: la famiglia sembra ricompattarsi in ultimo, nell’estrema emergenza del contrapporsi al nemico, ma già la narrazione a posteriori della vicenda, in prima persona e in flashback, da parte di Danielle, reduce dall’esperienza ormai conclusa, denota sostanziale distacco e disincanto, chiudendo il film con una forte dose d’inespresso ma definitivo scetticismo. Le premesse avviate nel testo di MacDonald sono ormai approdate alle loro estreme conseguenze.

Cape Fear in tutte e tre le sue forme si conferma un classico tra i classici. La recente edizione di Mattioli oggi ci fornisce l’occasione di ricostruirne anche le origini letterarie: una traiettoria, come abbiamo visto, complessa e appassionante da percorrere lungo tutti i suoi tortuosi prolungamenti.

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