Quanto è “artificiale” l’intelligenza artificiale, così come viene ritratta (e inserita in una specie di campo, per niente neutrale, di alcuni scrittori sulla cresta dell’onda) in romanzi dove sembra che addirittura Marcel Proust si presenti come nume tutelare con a fianco un disadattato Philip Dick in attesa dell’apogeo paradisiaco? Quali bagagli portano con sé gli eredi dei robot otto-novecenteschi? Quale Odissea remastered scriveranno da rilasciare alle loro generazioni postume, oltre agli inferni già attraversati? Di poetica della memoria artificiale prova a scrivere, da qualche tempo, il Premio Nobel Kazuo Ishiguro: l’antecedente di Klara e il sole si può rintracciare in Non lasciarmi, dove Kathy – la narratrice – vive dentro un’utopia terribile in attesa del destino comandato da un’autorità superiore e nascosta.
Nell’universo blindato di Klara (talentuosa androide B2) lo scrittore dà pensiero e voce a un procedimento linguistico che è tutto fuorché meccanico: vagheggiamenti, sguardo preciso (come se si fosse giunti a una sorta di analogico del digitale) ma tondeggiante e scevro di freddezza elettronica. L’androide Klara cerca gli umani, in qualche maniera li sceglie o prova a essere scelta, giungendo sempre a una vittoria che qualcuno definirebbe del cuore. Vittoria vuol dire dare opportunità vitali a chi ne scarseggia con evidenza. Klara, appartenendo all’adolescente Josie afflitta da un oscuro male, costruisce prospettive diverse in un mondo la cui minaccia sembra sfuggire agli adulti. Klara si pone senza sosta di fronte al sole, suo nutrimento diretto fin dai tempi in cui, parcheggiata in vetrina, era in attesa d’essere “acquistata”, dunque acquisita da una realtà famigliare.
L’impulso religioso sentito dall’androide si connette immediatamente ai pregiudizi del lettore, li smantella pagina dopo pagina, poiché dietro il suo sguardo i pregiudizi sono assenti, e una presenza non umana alla fine fa trepidare d’emozioni inattese proprio coloro che fino ad allora hanno creduto nella separazione dei “generi”. Klara, sempre più vicina al suo sole nutriente, attua il suo progetto, restituisce futuro a chi probabilmente non ne avrebbe avuto, crea un universo contrario rispetto a quello dato. Se un sacrificio occorre, questa parola, questo argomento, non sono contemplati nell’ambito della sua sfera esistente. Intercedere per la sua protetta è l’azione necessaria da perseguire con accuratezza.
L’accettazione per Klara sta accanto alla percezione di un mondo mutato dove probabilmente lei non sarà più in primo piano, poiché relegata in una specie di magazzino (il Cortile) dove sono riposte in file ordinate le “cose” che hanno assolto al loro compito. Museo, forse, espressione ancor più riduttiva. In termini umani, certamente, ma chissà come possa intenderla la mente di un androide. Ishiguro ha dalla sua la formidabile capacità di vedere un futuro nell’ambito di una decadenza dell’Impero attuale. Alla fine i clandestini risulteranno quei simulacri umani aggirantisi nelle zone polverose del trovarobato espositivo. C’è da credere che l’androide Klara, non più nel contesto corretto (secondo la propria visione delle cose), abbia ancora nei suoi occhi la scintilla “solare” che le ha permesso di salvare quella Joise a cui appartenne un giorno lontano.
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Il tempo viene raggiunto in due sezioni precise, anni Ottanta e 2009: il romanzo di Liz Moore è una macchina del tempo che assilla la protagonista Ada, alla perenne ricerca delle verità nascoste da un padre informatico, eccentrico, sviluppatore di una coscienza artificiale proprio quando la sua lentamente svanisce nelle nebbie causate dall’alzheimer. Ada a dodici anni è già prodigiosamente attiva nell’aggiungere ragguardevoli contributi al programma Elixir, progettato dal padre perché acquisisca il linguaggio umano in maniera naturale. I dettagli di vita e attività quotidiane, aggiunti ogni giorno dai collaboratori, consentirà al programma di comprendere l’elaborazione umana del linguaggio. Potrebbe, forse, far sì che gli si sviluppi dentro una sorta di coscienza. Ada ne è affascinata, ma la sua esistenza è confinata in una realtà protettiva di codici e maniere inventate dal padre, fino a quando tutto questo esplode e le cose improvvisamente mutano senza possibilità di riscatto.
Liz Moore ha completato la stesura del Mondo invisibile in Italia, ospite dell’American Academy di Roma, dopo aver vinto il Rome Prize nel 2014. L’apprendimento della lingua italiana, il più possibile in maniera spontanea, non è mai stato separato dalla scrittura del romanzo, e da quel che accade al suo interno. La fatica di imparare una lingua estranea ai propri mezzi accompagna l’adolescenza e la maturità di Ada: autrice e protagonista unite dalla tenacia occorrente per capire il mondo in cui sono immerse. Ada cerca la soluzione al codice enigmatico affidatole dal padre perché si riveli finalmente il mistero della sua famiglia, della sua stessa origine. Moore cerca di assorbire tutto quello che le possa servire a comunicare con le persone nel paese ospitante. Linguaggio di un’umana che si evolve e linguaggio di una macchina a cui, da parte di uno scienziato, è data l’opportunità di progredire. I capitoli dedicati al Futuro prossimo mostrano una Silicon Valley dove riconosciamo parte della storia tecnologica recente, dello sviluppo avuto dai ribollenti circuiti informatici in cui, a pezzettini, siamo tutti immersi con diversi gradi di favore.
La straordinarietà di Unseen World (a cui bisogna aggiungere l’equivalente arte della traduttrice Ada Arduini) sta nella poetica (e realistica) rappresentazione di un mondo alternativo, esplicato nei circuiti di una macchina capace di evolversi, nel tentativo paterno di inventarsi una realtà diversa per la figlia, nella facoltà della scrittrice di unire scienza e spiritualità in un unicum emozionale di grande impatto. Il coraggio dell’esplorazione in ben tre diversi livelli, tutti incrociati e messi in relazione dando prova di dinamica fantastica. Chi legge torna a sperare in mondi paralleli difficoltosi ma non privi di empatia e speranza, dove andare altrove non separi la formazione degli umani da un universo meno che angoscioso.
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I rapporti amichevoli fra macchine e uomini vanno riletti secondo regole di verosimiglianza, e di contenuti che coinvolgono speranza e disperazione, fortune raggrinzite e stupefacenti invenzioni di scrittori e scrittrici d’infuocato ardimento. Amélie Nothomb ha forse ansie iper-scientifiche? Di certo non le manca il gusto della fiaba o di folgorazioni psichiche messe di peso nella testa dei suoi protagonisti. Materie e temi ben presenti nei 29 romanzi fino a ora pubblicati.
In Gli aerostati una brillante studentessa di filologia si ritrova alle prese con un sedicenne dislessico a cui deve impartire lezioni di letteratura sotto l’occhio vigile (nascosto oltre un vetro riflettente) di un padre-mostro autoritario e fastidioso “in sommo grado”. Soltanto la lettura imposta dell’Iliade riesce a scardinare le regole negative di un rapporto che crescerà oltre le soglie dell’incubo, e superando gli ostacoli letterari (trasformati in una corsa sopra il terreno dei classici) incarnati dalle opere di Kafka, Stendhal, Radiguet. I fitti dialoghi, antagonisti, fra insegnante e allievo mostrano come il fascino del gotico possa scendere ancora fra noi sotto mentite spoglie, abbeverandosi all’infido sguardo dello scrutatore che, al di là del vetro, vorrebbe imporre odio e disprezzo contro l’amicizia dirompente affermatasi sotto il suo sguardo. Amicizia che confluirà in un esito determinato e poco controllabile.
L’insegnamento alla lettura prevede, questo ci racconta Nothomb nel suo godibilissimo ultimo romanzo-apologo, strenua volontà e tempo a disposizione, fors’anche qualche predisposizione al delitto. Soprattutto se il mostro-genitore pretende d’investire freddamente l’istruttrice di responsabilità abnormi, non esenti da pretese occulte e maligne. La rabbia di Pie, il ragazzo dimostratosi infine capace di affrontare storie e romanzi d’universale gloria, sfocia in riconoscenza infinita per chi gli offre letture impreviste, e odio perpetuo per chi lo ha imprigionato in un’esistenza agra e aspra. L’autrice dispone molta materia nel personale disegno della realtà che cataloga da quando si è inserita nel novero dei culti letterari. Una prosa priva di smarrimenti, aguzza quanto serve a indagare i lineamenti del mondo e di chi lo abita. Il nero programmatico (non il “noir”, sia chiaro) è costitutivo delle qualità filmiche della sua scrittura. Poche le distrazioni, ma una selezione attenta degli influssi psichici a cui l’umano si piega nel corso dell’esistenza.