Il pauroso reame contiguo

Luigi Musolino, Uironda, Kipple, pp. 248, euro 15,00 stampa

Mi piacerebbe iniziare con quello slogan abusato anni addietro dal marketing laddove Stephen King declamava: «Ho visto il futuro dell’horror, si chiama Clive Barker». Ma, essendo io a declamare, non renderei un grande servizio all’amico Gigi Musolino. Eppure, datemi fiducia: quest’uomo, impeccabile autore piemontese e punta di diamante del movimento dei Neogotici, sciorina in questa sua nuova antologia personale dal titolo poco decifrabile un talento e una capacità di scrittura fuori dall’ordinario. Soprattutto, per quel che mi riguarda, Gigi è uno dei pochissimi autori planetari che mi regalano lunghe e piacevoli notti insonni. Piacevoli, per capirci.

E dire che Gigi si cimenta con l’oggetto editorialmente più ostico per il mercato: l’antologia personale di genere fantastico. E non è la prima volta. Dopo le eccelse Bialere – Storie da Idrasca e i due volumi di Oscure regioni, in cui abbiamo ammirato l’ottimo lavoro di sintesi tra folclore e immaginario (l’antropologia al servizio del weird e del genere), arrivano i dieci racconti di Uironda che, essendo io un grande anziano, non avrei difficoltà a collocare in quel territorio di «fantastico quotidiano», pertinenza di tanti e diversissimi mostri sacri quali Buzzati o Richard Matheson.

Il fatto è che a Musolino non servono creature o dimensioni «altre». La realtà, per quel che lui che ne (dis)percepisce, è più che sufficiente. Una realtà hic et nunc senza andare lontano. Così, nella sua narrativa, i «mostri» diventano le anomalie, le distorsioni, fantasmi della mente che si materializzano per poi scomparire o riapparire sotto mutate vesti. E uscite autostradali inesistenti sulla carta geografica, un piano condominiale che appare e scompare, un paesaggio notturno che si modifica sotto i piedi di un improvvido runner o l’arcano incantesimo di un villaggio prigioniero di sé stesso, rilanciano ancora una volta l’antica tesi se la narrativa fantastica, soprattutto quella italiana, non sia in verità lo specchio di un altro Reame del Reale, contiguo e non impossibile.

A questa sublime arte del Dubbio (maiuscolo perché esistenziale e filosofico) si aggiungano le tipicità piemontesi in grado di essere universali, quell’anima oscura di tanti piccoli e maledetti paesi con abitanti strani e che un po’ ricordano Lovecraft, una dimensione, per dirla con Alessandro Defilippi, «naturalmente nera, una terra in cui pare di avvertire accanto a noi, se solo porgiamo l’orecchio, le voci delle Masche o la presenza di uno zoppicante sconosciuto che ci guarda senza apparente ragione». Non occorre che ricordi quale Archetipo manifesta un sinistro zoppicare…

Epitome di questi nostrani confini della realtà è il racconto conclusivo, Nelle crepe, in cui Gigi introduce la più complessa e affascinante evoluzione, tra quelle personalmente lette sino a oggi, del concetto di «materia urbana vivente». Andiamo oltre Fritz Leiber, John Shirley o Philip K. Dick. Siamo «Oltre». Vale a dire, nelle crepe di un quartiere vivente in una città morente. Un sobborgo che si rifiuta di far posto al «nuovo che avanza». E tra le cui fenditure qualcosa, qualcuno occhieggia, parla (a suo modo) ed esige nutrimento. Appunto, per non invecchiare e morire. Per sopravvivere.

In un paese in cui ponti e chiese stanno crollando come se «protestassero», un intelligente scrittore di genere è consapevole che, per far avanzare il genere stesso, occorre sintetizzare la tradizione nel novum che guarda alla realtà contemporanea, senza dimenticasi che l’horror nei suoi migliori esempi è in grado anche di «denunciare». Leggere per credere.

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