Il nuovo romanzo di Cormac McCarthy, Il passeggero (tr. M. Balmelli, Einaudi, pp. 392, euro 21,00 stampa, 10,99 epub), sedici anni dopo La strada, inizia con un’immagine icastica, memorabile nella sua antifrastica atrocità: nel corsivo della narrazione dedicata ad Alicia Western (i capitoli del libro alternano la sua vicenda al giallo subacqueo in cui è implicato il fratello Bobby), la mattina di Natale un cacciatore ritrova “nei cupi boschi del Wisconsin” il cadavere della ragazza, s’inginocchia devotamente e prega: “Tower of Ivory, he said. House of Gold”. Litanie lauretane. Alicia è una Maria ribaltata, una madonnina rigida, capelli ghiacciati dalla bufera di neve, “aurei e cristallini”, lei come una statua ecumenica “la cui postura chiede che ne venga contemplata la storia”.
Pian piano emerge la sua vita: figlia di uno degli scienziati che progettarono la bomba atomica, geniale studiosa di matematica e suonatrice provetta di violini cremonesi, assediata da Talidomide Kid – una foca impareggiabilmente motteggiatrice – e dalle sue “coorti” brulicanti. Sin dalla prima adolescenza (“all’insorgere delle mestruazioni”), Alicia è affetta da schizofrenia paranoide. Il Kid e i suoi compari fluorescenti, frutto manifesto delle allucinazioni, si presentano spesso per stordirla con un linguaggio joyciano dissacrante e furfantesco, da Finnegans Wake, una delle maggiori prove stilistiche di McCarthy, che dev’essere costata parecchi grattacapi alla brava traduttrice Maurizia Balmelli (ecco un esempio:
Il Kid fece qualche sonoro passo di tip-tap e un’altra lunga scivolata sul linoleum e si fermò e riprese il suo andirivieni. Partiranno alla caccia del grande Kahuna. Una bottarella nella savanna, Hannah. Nella mischia anche un sacco di squinzie, nonostante le lagnanze delle scienziate in gonnella. Ho mandato i miei in perlustrazione. C’è Madam Curry. C’è Pamela Dirac? – C’è chi? – Per non parlare di altre per ora senza nome. Per la miseria, su con la vita! Devi uscire di più. Com’è che dicevi? Alla matematica segue la sciatica?”).
Come in un recto che riflette immancabilmente i caratteri tipografici del verso, vediamo Bobby Western muoversi in un’imbarcazione con il mare che sciaborda nero. 1980, Pass Christian, Mississippi: lui è un sommozzatore per nulla a digiuno di fisica, che scende negli abissi – “una lenta discesa nell’oscurità” – con l’amico Oiler e “l’intenso fetore fluttuante delle mangrovie e della salicornia dalle isole”. Entrano nel relitto di un jet tra “le bocche aperte, gli occhi svuotati di ogni intendimento” dei morti, ma all’appello mancano la scatola nera dell’aereo, la borsa di volo del pilota e il corpo di uno dei passeggeri. Non un buon segno. Il romanzo, con queste premesse (un po’ alla Beautiful Mind un po’ alla Grande Lebowski, precipitati in una tragedia greca), diviene il ping-pong dei pensieri di Bobby, divisi tra New Orleans, emissari governativi “con un’aria da missionari mormoni” alle sue calcagna, e soprattutto Alicia, un’Elettra sventuratamente amata (l’infrazione dei tabù antropologici è un tema mccarthiano dai tempi di Il buio fuori, 1968). Bobby Western (nomen omen, nato non a caso dagli “eventi gemelli” – Auschwitz e Hiroshima – “che avevano per sempre suggellato il destino dell’Occidente”) è il protagonista-tipo del periodo compositivo che precede la Frontiera: con Debussy Fields e John Sheddan, assieme ad altri strampalati e reietti, fa parte del mondo di Suttree (1979), un microcosmo estroso e spesso avvinazzato, disteso tra il Tennessee e la Louisiana. Il plot del Passeggero, infatti, occupava la testa dell’autore di Providence sin dagli anni Ottanta, come ha dimostrato inequivocabilmente la studiosa Dianne C. Luce in un saggio edito sul “Cormac McCarthy Journal” un paio di anni fa, dal titolo sontuoso Creatività, follia e “la luce che danza nel profondo di Pontchartrain”: scorci di “The Passenger” dalla corrispondenza privata di Cormac McCarthy nel 1980.
Il passeggero, con la sua prosa ossessivamente paratattica, è costituito da innumerevoli tecnoletti che toccano la storia della scienza e la fisica quantistica – impressionante il dialogo tra Western e Asher a neanche un terzo dell’opera –, l’idroingegneria, la tassonomia, la metafisica, la filosofia, la poesia. È un paradosso perché il vero argomento è l’inconscio, la sua assoluta preminenza sul linguaggio. Sembra tornato straordinariamente di attualità l’enciclopedismo pynchoniano (c’è persino posto per il testo storpiato di una canzonetta, Molly Brannigan, forse un omaggio al collega), ma senza i depistaggi nominalistici, i sortilegi strutturali, le miriadi incontrollate di personaggi. Resta, però, seppur diversa, una lingua turgida, sovradeterminata, incrementale. E una cascata, ancora antifrastica, di “Gesù” (l’interiezione è qui il barbaglio più vivo di una sacertà desiderata, gnostica, in via negationis), nonché apoftegmi sparsi qua e là, per la gioia dei cacciatori di eserghi: “Il vero guaio è che ogni linea è una linea spezzata. […] Ogni linea di mondo è discreta e la cesura valica un baratro che non ha fondo. Ogni passo incrocia la morte”. Aspettiamo ora Stella Maris: la suite prochainement.