Eduard Limonov è un paradosso vivente: il paradosso di essere, almeno in Occidente — e con l’eccezione della Francia — uno scrittore conosciuto più per il libro scritto da un altro che per i 62 libri che ha scritto lui. Mi riferisco naturalmente a Emmanuel Carrère, che raccontò la vita di quest’uomo in Limonov (Adeplhi, 2012) prima ancora che sapessimo della sua esistenza: una biografia che tutti abbiamo letto come un romanzo, perché quella di Eduard Limonov è una di quelle vite che risultano più incredibili della fiction.
Nato nel 1943 in unione Sovietica, vero nome Eduard Veniaminovič Savenko, considerato asociale dalle autorità per il suo atteggiamento punk, adotta lo pseudonimo Limonov in riferimento al gusto aspro degli agrumi. Deciso a sfondare nel mondo della letteratura, si trasferisce a Mosca insieme alla seconda moglie Elena Kozlova, pubblica due volumi di poesie a sue spese, infine lascia l’Unione Sovietica nel 1974 come apolide, perché è stato privato della cittadinanza; si trasferisce a New York dove in un primo tempo viene accolto a braccia aperte per ragioni politiche: un dissidente negli anni in cui la Guerra fredda si era intiepidita. Anche negli Stati Uniti però Limonov si atteggia a punk, frequenta ambienti di sinistra radicale, trascorre un periodo come homeless dopo il secondo divorzio, ha esperienze omosessuali e scrive il suo primo romanzo, che sarà tradotto in italiano come Il poeta russo preferisce i grandi negri (Frassinelli, 1985). Nel 1980, disilluso dsgli Stasti Uniti e indagato dall’FBI, si trasferisce a Parigi. In Francia il suo libro è un successo immediato, sposa la cantante Natalija Medvedeva (trasparente ispirazione per il personaggio di Nataša in Il boia, scritto proprio a Parigi), ottiene la cittadinanza francese, viene reintegrato come cittadino russo nel 1991 e alla dissoluzione dell’Unione Sovietica torna in patria per impegnarsi in politica.
Seguono anni burrascosi. Limonov fonda un “partito nazionalbolscevico” che ha come stemma falce e martello in un cerchio bianco su sfondo rosso, per richiamare in maniera esplicita la bandiera nazista, con un programma massimalista: un’Eurasia sotto il dominio russo. È parte di questo progetto, per esempio, l’appoggio ai nazionalisti serbi durante le guerre in Jugoslavia, e non per caso Limonov festeggia il cinquantesimo compleanno sparando con un’arma di grosso calibro sulle posizioni dell’esercito croato nell’enclave serba della Krajna.
In tempi più recenti Limonov ritratta l’alleanza con il leader ultranazionalista Vladimir Žirinovskij, che considera troppo moderato, e si impegna in una dura opposizione da destra al regime autocratico di Putin — con qualche incidente di percorso, per esempio quando a 67 anni di età viene filmato durante un’orgia con una donna, un politico di estrema destra e un giornalista.
Limonov scrive Il boia nel 1982, durante il periodo trascorso a Parigi; il libro viene pubblicato in francese quattro anni dopo, con il titolo Oscar et les femmes, perché l’editore teme la censura, e poi in russo nel 1993; secondo l’autore, in patria vendette un milione di copie. La storia sfrutta l’ambientazione newyorchese che Limonov conosce per esperienza diretta. Il protagonista è un polacco, Oscar, espatriato in America per ragioni di anticonformismo (si dichiara apolitico). Terminato il sussidio di disoccupazione, un giorno in un fast-food assiste all’insensato omicidio di un uomo. Decide su due piedi di terminare con la deriva che sta prendendo la sua vita e di guadagnarsi da vivere con ciò che sa fare meglio: vale a dire soddisfare sessualmente una donna. Siccome frequenta occasionalmente un negozio di articoli sadomaso, si procura quelli che considera i primi articoli del mestiere e si da fare per trovare la prima cliente. Il suo target è una donna che ha passato la mezza età ma che ha ancora desideri sessuali, sola e naturalmente agiata. Ha infatti deciso di diventare il Boia, gigolo d’alto bordo che impone alle sue (consapevoli) clienti un grottesco role-play di ceppi, fruste, maschere di cuoio in una stanza appositamente arredata per somigliare al dongione di una prigione medioevale.
Questo è l’inizio di una ascesa sociale favorita dal passa-parola, dall’atteggiamento tollerante dei circoli che si trova a frequentare e dalla propaganda gratuita che gli fa una rivista sensazionalistica, contribuendo a lanciare il suo nome e la sua professione in tutto il paese.
Oscar si trova così diviso tra il suo nuovo ruolo dominante (ma solo durante il lavoro, perché per il resto dipende totalmente dalle sue donne, che da dominate a letto si rivelano dominanti nel rapporto), il proprio passato (rappresentato da Nataša, la giovane russa di cui è innamorato e che non fa mistero di adorare il sesso con chiunque) e la consapevolezza della mezz’età che si avvicina, e con essa il momento di fare i conti con la propria vita.
Lo stile del romanzo è decisamente esplicito, senza essere per questo pornografico in modo aperto. Oscar giustifica a se stesso ciò che succede con la mercificazione estrema del mondo capitalista, che pure accetta mettendo da parte qualsiasi ambizione letteraria. Il suo cinismo si riflette, ma al contrario, nel connazionale Jacek Gutor, che invece rifiuta di scendere a patti con la propria coscienza.
Il boia non sembra invecchiato in oltre trent’anni di vita; rimanda ancora agli anni della presidenza di Ronald Reagan, che allora si definiva “riflusso” per indicare che il tempo della contestazione era finito. Racconta un mondo forse meno radicalmente squallido rispetto ad American Psycho di Bret Easton Ellis, ma altrettanto vuoto. Verso il finale c’è qualche scatto e una possibilità di riscatto; Oscar sembra trovare un’alternativa rispetto a un motore che gira a vuoto (forse per colpa di un numero di pagine eccessivo), ma il fatto che Limonov offra al lettore un punto di vista asettico, che riduce ai minimi termini la partecipazione emotiva, non significa che voglia lasciare indeterminato il finale — infatti il romanzo ha uno scatto d’orgoglio, e termina in un modo effettivamente imprevedibile.