Nella narrativa italiana contemporanea non è frequente imbattersi in un romanzo che ponga strutturalmente nel suo nucleo più profondo la storia del nostro Paese, che si prefigga di consegnare alla riflessione dei suoi lettori l’interpretazione di eventi e personaggi che hanno determinato l’oggi. A differenza di altre letterature – quella statunitense, tanto per citare un esempio –, percorse dalla continua rinarrazione, riconsiderazione e ridefinizione della storia patria, da un’incessante meditazione sul passato che possa gettare una luce chiarificatrice sul presente, la nostra narrativa si sofferma in genere su tematiche centrate sul ripiegamento nell’angusto universo dell’io, nelle pieghe d’un intimismo che bandisce la realtà più ampia degli accadimenti, dei sommovimenti, delle mutazioni sociali.
Sotto questo aspetto, l’ultimo romanzo di Antonio Scurati, M. Il figlio del secolo, è un caso a sé. A differenziarlo nettamente dalle creazioni di altri scrittori contemporanei, anche quelle in cui la storia trova un qualche stiracchiato posto nelle trame romanzesche, a mo’ di fondale pittoresco, o vi si nasconde dietro il filtro del memoir, è proprio la funzione strutturale che essa vi assume: qui le vicende e le figure storiche non hanno una mera funzione oleografica, banalmente allusiva, non si configurano come una facile stampella per supportare personaggi altrimenti monchi e privi di spessore, per conferire rilievo a conati pseudo-esistenzialistici, per gettare una patina di colore a contenuti glabri e stereotipati. Qui la storia appare come trama, la più drammatica e affascinante che un narratore possa mai immaginare: la storia narrata nel suo tremendo incedere.
Afferrando alla gola il fantasma sempre sfuggente della memoria, questo lavoro affronta con inusuale coraggio una delle pagine più buie e controverse d’Italia, quelle che videro protagonista Benito Mussolini e i cruenti avvenimenti che nel breve volgere di poco più di un biennio ne determinarono l’ascesa al potere e la conseguente estinzione della fragile democrazia dello Stato liberale. Non è quindi un caso che questa opera abbia suscitato un acceso dibattito che, come spesso accade in casi consimili, ha travalicato il giudizio meramente letterario sconfinando nel politico e nell’ideologico.
A suggerire la modalità in cui andrebbe letto e decodificato il testo è l’avvertenza che lo
precede. Vale la pena riportarla per intero, e da qui partire: “Fatti e personaggi di questo romanzo documentario non sono frutto della fantasia dell’autore. Al contrario, ogni singolo accadimento, personaggio, dialogo o discorso qui narrato è storicamente documentato e/o autorevolmente testimoniato da più di una fonte. Detto ciò, resta pur vero che la storia è un’invenzione cui la realtà arreca i propri materiali. Non arbitraria, però”.
Cominciamo con il dire che questa avvertenza non pare un classico esempio di depistaggio, con cui l’autore vuole ironicamente e per altri fini disorientare il lettore. Al contrario, essa è da noi letta come una dichiarazione d’intenti, che suggerisce la lettura del testo in una direzione ben precisa. Contiene innanzitutto una definizione di genere letterario: siamo davanti ad un “romanzo documentario”. Ciò che vi compare è “storicamente documentato e/o autorevolmente testimoniato”, la parola “fonte” rimanda direttamente alla terminologia storica. Le ultime due righe, però, apparentemente ambigue, aprono altri scenari, chiamano in causa altri immaginari: si parla esplicitamente di “invenzione”, per quanto composta da materiali arrecati dalla “realtà”, e seppur smorzata dall’aggettivo “non arbitraria”. Ma ciò è ben spiegabile: non siamo davanti ad un saggio storico, ad una ricerca storiografica. Questo è un testo romanzesco, e in quanto tale ha una sua dimensione ontologica precipua: è un universo creativo in cui l’autore si riserva la dovuta libertà inventiva, un luogo in cui s’ingegna con la fantasia a colmare le lacune, i vuoti, i silenzi delle carte storiche, lanciandosi nella ricostruzione di scene e situazioni per le quali non esiste e non può esistere alcuna prova documentale. Insomma, sarebbe un errore considerare quest’opera come una ricerca storica esatta ed esaustiva: è evidente che non è questo il suo obiettivo. Non tenere in debita considerazione ciò può indurre a fraintendimenti, come infatti ci pare sia avvenuto.
Il libro è diviso in sette parti, relative agli anni 1918-1924, costituite da capitoletti corrispondenti a date, luoghi e personaggi, al cui termine sono riportati documenti d’epoca: estratti epistolari, brani di articoli di giornale, stralci di interventi parlamentari, rapporti di prefetti e funzionari dello Stato, telegrammi, discorsi, proclami, manifesti, circolari, dichiarazioni, comunicati, relazioni: una mole ponderosa, che sottintende un lungo e pervicace lavoro sulle fonti, davvero raro nell’odierna letteratura nostrana. Gli ultimi capitoli, che descrivono minuziosamente l’efferato delitto Matteotti e il precipitare degli eventi, sono titolati, e in appendice figura l’elenco dei “personaggi principali”, cioè le figure storiche che compaiono nel testo, di cui si dà una breve sintesi biografica.
La composita tecnica narrativa che struttura il testo appare subito evidente: il romanzo si apre con una sorta di monologo interiore, che rende le riflessioni di Mussolini il giorno della fondazione dei Fasci di combattimento; seguono poi degli inserti documentali, con funzione di rimando diretto alla storicità dei fatti narrati. Nel capitolo successivo, personaggi luoghi ed eventi sono presentati con voce descrittiva, in terza persona, tipica di una certa docu-fiction oggi in voga. Tali modalità narrative si fondono spesso nel discorso libero indiretto, che conferisce alla prosa un ritmo sciolto e incalzante. Non mancano poi notazioni e riflessioni storiografiche, abilmente mimetizzate nel corpo della narrazione. Tali notazioni sono rese in tono saggistico, con sapidi e incisivi commenti, mediante l’uso del tempo presente, impiegato anche nella descrizione degli eventi, conferendo così immediatezza al racconto. Il cerchio si chiude con un capitoletto che riporta sempre con il monologo interiore le riflessioni di M sul suo sanguinoso trionfo dopo il delitto Matteotti.
In generale prevale un andamento cronachistico, a discapito di quello puramente narrativo e drammaturgico, mentre di rado compaiono trasfigurazioni della realtà narrata. Il testo è intessuto di citazioni: i documenti rimandano alla prosa autoriale e viceversa: dicono le stesse cose, usano le stesse immagini, lasciando poco spazio allo scavo creativo. È una scelta voluta, ma forse non avrebbe guastato un maggior lavoro introspettivo, una più coraggiosa ricostruzione immaginativa dei personaggi, del loro spessore psicologico: scene dialoghi e situazioni vengono per lo più riferiti, di rado drammaturgicamente rappresentati. Ed è un peccato, perché quando ciò avviene la prosa si libra alta, con vette anche liriche, svela la capacità di rendere la temperie di quell’epoca lontana con frasi lapidarie che condensano lo sguardo del narratore, il suo prendere posizione, il contenuto poetico della scrittura. È il caso delle scene di massa, mirabilmente descritte, o di altre dove compare Gabriele D’Annunzio (forse le più icastiche ed ispirate), o di uno dei passi meglio riusciti, l’ultimo capitoletto del 1921: “Benito Mussolini 28 dicembre 1921”, dove al procedere degli eventi si alternano versi del Notturno di D’Annunzio, e dove la temporanea cecità del vate dopo un incidente trova perfetta rispondenza metaforica nel fosco incalzare degli accadimenti, nello sfaldamento progressivo dello Stato liberale e della democrazia. O ancora nel capitoletto “Benito Mussolini Milano, 19 dicembre 1919”, in cui il futuro Duce è braccato da una delle tante amanti, Ida Dalser, che gli ha dato un figlio non riconosciuto, e che lo va a stanare nel suo fortilizio, la redazione del giornale Il popolo d’Italia. Qui si strappa la maschera all’uomo Mussolini, si mettono a nudo le sue debolezze, le viltà, l’ipocrisia, l’immoralità – si svela insomma la realtà dietro la farsa imbonitoria della retorica aneddotica. In queste parti letterariamente più compiute Scurati modella la prosa sugli eventi, essa vi si trascrive naturalmente: la forma narrativa si avvicina a quella d’una sceneggiatura, con un risultato davvero coinvolgente.
Nel complesso si ha però l’impressione che troppo di rado l’autore varchi la soglia del passo narrativo puramente romanzesco, preferendo mantenersi sul solido terreno dell’esposizione storica. Tutto ciò produce nel lettore un senso di incompiutezza, come se l’esitare tra il racconto strettamente documentale e l’invenzione creativa impedisca l’armoniosa fusione tra le due modalità narrative. A questa sensazione contribuisce anche il dialogo, poco elaborato: Scurati ha scelto per lo più di non lanciarsi nell’analisi introspettiva dei personaggi storici nei momenti chiave delle vicende che li videro protagonisti, ma di attenersi al conosciuto, al fattuale, a ciò che ci è giunto.
Sempre da un punto di vista strettamente narratologico, opposto al protagonista assoluto si erge la figura di Giacomo Matteotti, vero e proprio deuteragonista che incarna il Bene contro il Male. E nella sua tragica vicenda, nell’intransigente, solitaria, eroica opposizione al fascismo che lo condurrà alla morte per mano dei carnefici di Mussolini, trova un piccolo spazio anche una storia d’amore, quella tra lui e la moglie Velia, forse l’unico momento di respiro nel drammatico incalzare degli eventi. Anche in questo caso, però, la vicenda amorosa non è sviluppata con procedimenti tipicamente romanzeschi, bensì tramite le analisi delle lettere che i due si scambiarono. Ma Matteotti è anche il perno attorno al quale ruota vorticosamente l’ultima parte del romanzo. Qui la scrittura si fa trascinante, fluisce senza intoppi. Quelle che descrivono la spietata caccia alla “preda”, il rapimento e l’omicidio bestiale, il successivo precipitare degli eventi, sono tra le pagine più vivide ed emotivamente coinvolgenti del romanzo, che si chiude con un’impennata.
Ad ogni modo, a rendere questo romanzo particolarmente fecondo è la riflessione che esso stimola sulla nostra condizione di figli di quel tempo. Già dalle prime righe appare manifesto il collegamento col nostro disastroso presente, nei pensieri di Mussolini davanti alla “platea di deliranti e derelitti” che in piazza San Sepolcro, a Milano, assiste alla fondazione dei Fasci di combattimento, il 23 marzo 1919: “Siamo un popolo di reduci, un’umanità di superstiti, di avanzi”, “mitragliamo le idee che non abbiamo […] Siamo come fantasmi d’insepolti che hanno lasciato la parola tra la gente delle retrovie”. Lui, Mussolini, è “lo sbandato per eccellenza”: come non riconoscere in quella temperie postbellica una tremenda affinità con l’oggi, pur nell’enorme diversità dei tempi? Inquietanti analogie ricorrono per tutto il testo: ora come allora appaiono le gravi lacerazioni del tessuto civile e democratico, i reiterati attacchi alla democrazia rappresentativa, il definitivo trucidamento della morale e degli ideali risorgimentali, la crisi economica e morale profondissima, la paura di un futuro fosco e imperscrutabile, un agone sociale di tutti contro tutti, in cui trionfano gli istinti, la barbarie, la degenerazione del dibattito politico in mero populismo, che azzera la capacità critica, la possibilità di comprendere e valutare il reale in tutta la sua complessità. Ora come allora “il Paese è opaco, il suo sentimento della giustizia è fiacco, torbido”, un Paese tra le cui esigenze non figura la moralità. E questa relazione tra l’ieri e l’oggi si realizza senza forzature: le situazioni, le parole pronunciate dai personaggi storici sono autentiche, verificabili, e tanto più colpiscono proprio per la loro realtà fattuale.
A tutto ciò si lega una ricorrente figura chiave, anch’essa manifesta sin dalle prime righe, quella della “malattia”, della degradazione fisica e spirituale, incarnata dalla sifilide che affligge il protagonista, e che simbolicamente mina la costituzione organica e la salute di un intero Paese. Quasi tutti i personaggi patiscono una qualche forma patologica (cancrene, mutilazioni, cecità, decrepitezza, invalidità e affezioni d’ogni genere), i gerarchi fascisti come gli squadristi, i politici e le personalità di rilievo dell’epoca; e tale figura è sempre unita a quella della devastante violenza che tracima da queste pagine, specchio della violenza che insanguinò quegli anni, “il clima di un’intera epoca, la legge dell’atmosfera in cui è racchiuso il pianeta fascista”.
Altro elemento di questo parallelo tra quel tempo e l’odierno è la riflessione sulla parola, sulla sua micidiale forza persuasiva, sull’enorme potere che dona a chi sa impiegarla retoricamente e servirsene per i propri fini, per aggiogare le masse, creare mondi inesistenti che si sovrappongono al reale cancellandolo; e, sottesa ad essa, la riflessione sul ruolo che l’immaginario viene ad assumere nelle vicende storiche. L’analisi della retorica dannunziana, della tessitura profonda del suo frasario, di quella mussoliniana che al vate pescarese molto dovette, di quella rivoluzionaria dei leader socialisti dell’epoca, è un tema portante che fa da sottofondo agli eventi, quasi un basso continuo. Sotto questo aspetto, il tempo sembra davvero azzerarsi: ora come allora, imbonitori senza scrupoli manipolano gli imboniti solleticando e appellandosi ai loro più bassi istinti, propinano loro slogan ad effetto, promesse irrealizzabili, creano una realtà immaginaria fatta di frasi mirabolanti del tutto slegata dai fatti.Come si legge esplicitamente in un passo, “Le parole […] prevalgono sulla realtà, tenendola a bada”.
In definitiva, quella di questo romanzo è una storia avvincente, raccontata in modo avvincente: è la nostra storia, la storia d’Italia in anni infernali. Una storia tragica, certo, drammaticamente trascinante, la storia di quel che siamo stati, siamo e forse saremo. Mettere le mani in questa mota ribollente non è impresa da poco: ci vuole coraggio. Coraggio che forse a Scurati è un po’ difettato da un punto di vista strettamente letterario. Ci sarebbe piaciuto che avesse osato di più, sbrigliando il suo talento narrativo, concedendo un più ampio spazio alla fantasia nella rappresentazione di profondità umane che il mero racconto degli eventi non può dare, mettendo a fuoco le persone più che i personaggi storici, lavorando maggiormente sul dialogo. Forse è per questo che talvolta si ha la sensazione dello studioso prestato al romanzo. Un letterato comunque capace di notevoli guizzi, di accensioni liriche che ne giustificano il balzo, che ha scelto di porre il mezzo romanzesco a disposizione della conoscenza storica. E poiché questo è solo il primo capitolo di una trilogia sul “figlio del secolo”, magari Scurati saprà stupirci anche sotto questo aspetto.
Come che sia, questo libro ha dei meriti indiscutibili: divulga la storia, ponendola sotto un’inconsueta lente critica, stimola riflessioni, raggiunge lettori (cittadini!) cui un lavoro di mera saggistica storiografica difficilmente potrebbe arrivare. E da queste pagine si impara davvero tanto. Poco importa, a nostro avviso, che vi compaiano alcuni errori storici, le sviste potranno essere emendate nelle future edizioni. Siamo comunque davanti ad un testo ammirevole, ineludibile per il suo contenuto. Un libro che, ci auguriamo, indicherà una via alla narrativa italiana dei nostri giorni: la via dell’impegno, della pedagogia della letteratura.