Paolo Ruffilli prima di tutto ha voce interna alla fisicità del mondo, inteso come pianeta e come realtà di cui è proprietario. E le cose designano l’azione, tutte le azioni, del vivere e dell’amare, del viaggiare in carrozza o sui treni transcontinentali, da un capo all’altro della superficie terrestre. Portandosi dietro ogni tipo di bagaglio, fisico e emotivo, taccuini e libri, matite e Lettera 32, biancheria e resti di avventure amorose. Sembrerà strano ma leggendo questo libro dal carattere “sconfinato” non si ha notizia di apparecchi digitali o interconnessioni ipertrofiche. Della traversata lungo le distanze, iniziata da Ruffilli nel 1978, sorprendono ancora le cose “analogiche” che ci stanno dentro e che hanno evoluto la mente umana fino alle soglie della rivoluzione digitale. Non so quali pulsioni si siano avvicendate nella vita del poeta perché decidesse, a un certo punto dell’esistenza, di spingersi a creare, abitare, descrivere, amare e odiare, un mondo dentro il mondo. Ma è certo che gli Affari di cuore (per citare una raccolta di pochi anni fa pubblicata da Einaudi) non sono stati solo la réclame di una poetica chiarissima fin dagli esordi, attenta alle storie, agli album di famiglia, agli “spezzoni inceneriti” (come li definiva a proposito Giovanni Raboni) della memoria, e senza mai perdere di vista la gravità della vita e delle sue ferite.
Le vecchie foto qui si sono trasformate nel lungometraggio diviso in stazioni, con inserti in bianco e nero e altrettanti flash in cinemascope. Perché dentro al viaggio, durato quarant’anni, le cose si succedono come sabbia e sassi rotolanti non proprio innocui. Nella trafila dei secoli, sodali, amanti e nemici s’infoltiscono, e Ruffilli li fa ampiamente coabitare nel folto del suo lavoro. Senza privarli di agili ironie, e scandagliando i corpi nella loro intima struttura. Gambe, testa, torso, genitali, le anatomie costituiscono materia sentimentale e riconoscimento di cicatrici mal curate. Una moltitudine le divagazioni lungo le duecento pagine di questo atlante mnemonico e geografico, temporale e mobilitante l’esercizio acuto di uno stile rivendicato fin dai tempi di Piccola colazione (Garzanti, 1978). Come nella traduzione delle poesie di Pasternak, tesa a conservarne l’inusitato spazio, Ruffilli in Le cose del mondo non ha fretta di disbrigare pratiche consuete, né di catalogare i soliti giuramenti epocali in materia d’amore o di politica, né di rincorrere affreschi storici. Non usa mezzi postmoderni, ma treni e carrozze ancora sferraglianti, fisionomie originali e, per così dire, urbanizzazioni d’intere famiglie nelle loro genealogie psichiche. In pratica, nessuna scorciatoia esistenziale, ma un’ineludibile schiettezza a tratti anche civettuola.
Non soltanto l’amabile canzoniere di una vita, scritto in parallelo a svariate esperienze poetiche, che qualcuno potrebbe definire addirittura frivolo, ma la visione estetica di un mondo abitato in ogni angolo, da civiltà e irrispettosi capipopolo, in cui le invenzioni stilistiche fanno coppia alla consueta vanità del tempo che, per dirla tutta, non riesce a avere la meglio sul poeta. Non si tratta di aver ragione, ma per Ruffilli risolutezza e faziosità (non facile quando ci si assume il compito d’inseguire le acrobazie decennali della poesia) hanno contribuito all’esito felice dell’opera. Dopo crisi e rilanci, supremazie editoriali e di quartiere, infine il sistema, l’intreccio, è stato svolto: occorre seguire gli indizi e le piste stradali e ferroviarie tracciate nella visione di un viaggio mondiale che in fondo, senza darlo troppo a vedere, è amnioticamente autobiografico.