Quando uscì Il mondo magico di Ernesto De Martino (1948), Benedetto Croce lo recensì in modo molto critico. Non è importante, ora, ricostruire gestazioni, tesi e ripercussioni di un libro tanto rivoluzionario – sui lavori di De Martino abbiamo oggi a disposizione intere biblioteche. Rileva invece la sostanza delle obiezioni del filosofo: ciò che per Croce era inaccettabile era che per De Martino, a certe condizioni, la magia funziona. Meglio: in una società che crede nella magia – un mondo magico, appunto – chi compie operazioni magiche ha assoluta fiducia nella loro operatività, e così chi le subisce. E questa fiducia non è meno coerente o sensata di quella che ha nella ragione e nella scienza l’uomo cosiddetto civilizzato; né manca di produrre effetti che ne confermano la validità. La magia, in altre parole, non è uno stadio infantile della scienza, un’impostura più o meno consapevole o un surrogato di altri, più raffinati saperi come avrebbe voluto la vulgata evolutiva impostasi con l’illuminismo: è il modo di pensare caratteristico di un’altra sfera dell’esperienza umana, cui occorre accostarsi abbandonando ogni paternalismo e analizzandola secondo i propri principi. La stessa scienza, suggerisce De Martino, è sul punto di scoprire realtà finora negate. Negli anni Quaranta, e più ancora nei due decenni successivi, la ricerca parapsicologica cerca di accreditarsi come scienza accademica, e di questa bibliografia emergente – tra Europa, Stati Uniti e Unione Sovietica – l’etnologo dà conto nel libro: possibile che la mente pre-scientifica fosse capace di schiudere quelle stesse facoltà studiate nei laboratori moderni, tra carte Zener e arredi figliati direttamente dagli incubi dell’arte cinetica?
De Martino non era solo: tre anni dopo Il mondo magico, in Inghilterra, usciva I greci e l’irrazionale di E.R. Dodds, che presentava tesi – pur nella differenza di approccio – molto simili. Ma a Dodds – e questo è un punto che dovremo tenere ben presente – nessuno, in Inghilterra, contestava l’incompatibilità tra la cattedra di Regius professor di greco a Oxford e la militanza nella Society for Psychical Research: ne I greci e l’irrazionale si sostiene apertamente la possibilità che gli antichi abbiano sperimentato fenomeni paranormali, e della Society, nel 1961, Dodds diverrà addirittura presidente. Di contro, è molto difficile che chi non ha letto Il mondo magico trovi menzione di analoghi interessi di De Martino in sintesi e introduzioni alla sua opera. Il fascino del paranormale anima l’intera parabola intellettuale demartiniana – fin dai rapporti giovanili con personalità dello spiritismo napoletano – ma si tratta di un aspetto su cui è sempre parso più appropriato, e forse più elegante, tacere.
Tutto questo per dire che, forse, solo in Inghilterra poteva germinare un’opera come quella di Susanna Clarke – percorsa dalle domande che erano state cruciali per De Martino e Dodds – ma che il lettore italiano può trovarvi qualcosa di familiare, per quanto dissimulato, ai limiti dell’irriconoscibile. Nella lunga traiettoria che conduce da Jonathan Strange & il signor Norrell a Piranesi, passando per Le dame di Grace Adieu – lunga, beninteso, dati i tempi dell’autrice, refrattaria a ogni buona politica di presenzialismo editoriale – due costanti sembrano dominare l’opera di Clarke. La prima è il già accennato statuto del mondo magico: contrariamente alle convenzioni del fantasy – il genere in cui, nel bene o nel male, è stato più immediato e facile inquadrarla – Clarke non presuppone un mondo in cui, per tacito accordo con il lettore, la magia funziona, ma indaga precisamente lo statuto della magia in una società che si pretende razionalistica, e a quali condizioni (psicologiche, antropologiche, percettive) sia possibile riattivarla. Non è un caso che Jonathan Strange abbia come ambientazione la tarda età georgiana – benché si tratti di un diciannovesimo secolo scopertamente alternativo – e cioè l’epoca che segna l’apparente transito fra il mondo magico dell’età moderna e il razionalismo contemporaneo; né che Piranesi sia puntellato di riferimenti a quella contemporaneità che ha dimenticato (o finto di dimenticare) il sogno psichedelico degli anni Sessanta, il decennio, cioè, che – aperto da un libro-chiave come Il mattino dei maghi di Louis Pauwels e Jacques Bergier – era parso capace di rischiudere le promesse dell’arte magica nel cuore dell’era atomica. I protagonisti di Clarke, da Strange a Laurence Arne-Sayles, sono sempre eretici rispetto al proprio tempo (Pensiero trasgressivo è la definizione che Arne-Sayles dà al proprio sapere), testardi nella loro incapacità di rassegnarsi al disincanto: ne pagano le conseguenze, naturalmente – il mondo magico di Clarke è una landa piena di rischi e attraversata dal vento dell’Unheimliche: non è cosa da turisti o hippy benintenzionati –, e tuttavia hanno l’ardire di sapere. E la domanda che pongono è tanto semplice quanto deflagrante – se posso, perché non dovrei?
Questa considerazione ci porta alla seconda costante che attraversa l’opera di Clarke: il suo totale, assoluto e – questo sì – pienamente anacronistico amore per l’erudizione. Clarke non cede in alcun modo al gusto per la visceralità del secolo in cui scrive e ai suoi pregiudizi anti-intellettualistici: a stento, nelle sue opere, s’affacciano il sesso o il desiderio – a meno che non sia desiderio faustiano di conoscenza – e l’unico elemento della sua scrittura in cui s’intravede una cura amorosa, ai limiti del feticismo, è la perfezione, formale e sostanziale, con cui cesella note e riferimenti bibliografici, siano essi di pseudobiblia o meno. In un’epoca, in altre parole, in cui la nota erudita è considerata inutile orpello persino nelle riviste scientifiche – in cui la consegna è di limitarle al minimo indispensabile, senza includervi materiale estraneo – Clarke adopera il paratesto come strumento per dare all’opera una spinta centrifuga, che espanda la narrazione in direzioni potenzialmente infinite. Il riferimento a Borges è chiaramente d’obbligo, ma con una cautela: quello di Clarke non è un esperimento nato dalla sfiducia nella capacità dei segni di catturare il reale. Con gesto, ancora, profondamente inattuale, Clarke ribadisce il potenziale narrativo del saggio come genere letterario: nella consapevolezza che fra i precursori di chi scrive narrativa fantastica non stanno solo Lovecraft o Tolkien, ma anche (soprattutto?) il Frazer de Il ramo d’oro, il Graves de La dea bianca o – perché no – il Ginzburg di Storia notturna. Tutti libri assolutamente moderni, affollati di note e postille, e che tuttavia – forse proprio in virtù di quella loro, modernissima erudizione – sono stati capaci di sfiorare l’essenza stessa del magico presso civiltà di cui s’è dimenticata anche la lingua. Un modo diverso di osservare una collina, un bosco di betulle, un gioco di luce al tramonto: il mondo magico, alla fine è lo stesso in cui viviamo noi. “La Bellezza della Casa”, conclude del resto il narratore di Piranesi, “è incommensurabile; e infinita la sua Benevolenza”.
Piranesi di Susanna Clarke: una recensione di Silvia Arzola