Sull’asse che unisce (o, nel nostro caso, separa) il piano dell’esistenza a quello dell’essenza, Federico Campagna in Magia e Tecnica, la ricostruzione della realtà (Tlön, 2021) gioca un affascinate confronto tra filosofia occidentale e orientale (indiana, islamica, sufi, persiana), tra la visione del mondo definita dal regime della Tecnica e quella emersa dalla tradizione del pensiero “magico”, cioè di quell’alterità che “non riconosce la “storia” come propria categoria temporale”. In un serrato confronto a distanza tra due teologie, il testo analizza in parallelo i diversi livelli di ipostasi che nei due campi hanno istanziato la diversa immagine della realtà (e i protocolli della sua “crisi”), a partire dai suoi termini assoluti fino a degradare nel particolare e nel sensibile della nostra esperienza. Ringraziamo l’editore Tlön per la cortese pubblicazione di questo estratto, tratto dalla prima parte del libro, Il mondo della Tecnica, Tutto Fuori. (F.Ma.)
Il 26 febbraio 2008, lo Svalbard Global Seed Vault ha iniziato ufficialmente la sua attività. Costruito a 120 metri di profondità in una montagna d’arenaria nelle isole Spitsbergen, nell’arcipelago antartico delle Svalbard, a circa 1.300 km dal Polo Nord, il Vault attualmente immagazzina i semi di oltre quattromila piante provenienti da tutto il mondo. Pur essendo solamente una delle centinaia di banche di semi presenti nel mondo, il Vault mira a fungere da riserva per l’intera biodiversità floreale del pianeta. La sua posizione remota e sicura, la sua architettura robusta, l’impiego dei più recenti macchinari tecnologici e la dotazione di un sofisticato sistema di sicurezza ne fanno il candidato ideale per divenire l’ultimo deposito sicuro dal quale sarà possibile recuperare ogni seme che gli eventi naturali o le crisi politiche avranno condotto all’estinzione. Se la Millenium Seed Bank, la più grande banca di semi del mondo, dovesse mai essere distrutta da un’improvvisa calamità o da un taglio nei finanziamenti, il Vault sarebbe in grado di agire come ultimo guardiano dei tesori della biodiversità terrestre. Insieme allo sviluppo delle banche genetiche e a sempre più estesi database biologici, progetti come quello del Vault contano di combattere l’imminente pericolo di estinzione tramite l’archiviazione e l’immagazzinamento di un numero sufficiente di informazioni genetiche riguardo a ciascuna specie vivente, tale da permettere agli scienziati di replicarle a volontà. La creazione del Vault è solo una delle ultime risposte alle paure apocalittiche che pervadono gran parte dell’immaginario conscio e inconscio del mondo contemporaneo. Come ogni altra forma culturale, le ansie millenaristiche hanno una propria storia, che attraversa i secoli e si adatta alle peculiarità di ogni epoca. Durante i decenni della Guerra Fredda, la visione dell’apocalisse contemplava uno scenario di completo e improvviso annientamento nucleare. In tempi più recenti, la prospettiva apocalittica si concentra su una progressiva estinzione delle varie forme di vita presenti sulla Terra.
A una lettura superficiale, la nostra paura dell’estinzione potrebbe apparire semplicemente come il prodotto degli squilibri e dell’insostenibilità del sistema di produzione e consumo attualmente in atto. Ma il diffondersi della paura dell’estinzione nella mente collettiva rivela, in realtà, una profonda continuità concettuale con il medesimo sistema di realtà imposto dalla Tecnica. Per osservare l’intrinseca connessione fra questa forma di ansia apocalittica e la struttura interna della Tecnica, è utile confrontare la peculiarità dell’estinzione con un tipo di scomparsa più “tradizionale”: la morte. Sebbene sembrino riferirsi allo stesso evento del collassare e dello svanire, la morte e l’estinzione differiscono l’una dall’altra sulla base dei rispettivi soggetti. La morte colpisce un singolo vivente, sia che la intendiamo direttamente (“muore una persona”) che metaforicamente (“muore una lingua antica”): la morte implica che qualcosa cessi di esistere in quanto singolare e particolare essere vivente. L’estinzione, invece, si riferisce alla scomparsa di una categoria astratta, tipicamente una specie animale o vegetale. Un singolo umano, cavallo o quercia, possono morire, ma non possono estinguersi. Al contrario, le specie Homo sapiens, Equus ferus caballus e Quercus robur possono estinguersi, ma non possono morire. La morte si applica alle “cose” uniche; l’estinzione, invece, a delle posizioni all’interno di una serie di classificazioni linguistiche. Per chi lotta contro la morte, solamente l’effettiva esistenza vivente di una specifica persona può essere considerata un successo. Per chi invece lotta contro l’estinzione, quello che conta è il preservarsi della possibilità di attivare una certa posizione. Una volta che i panda saranno mappati geneticamente in modo completo, la concreta sparizione di tutti i singoli panda viventi non costituirà più un caso di estinzione: finché la posizione genetica “panda” sarà disponibile a essere riattivata (il che vuol dire potenzialmente attualizzata attraverso la creazione di un esemplare vivente), il rischio di estinzione sarà tenuto alla larga. Persino se un panda vero e proprio non dovesse mai più essere creato, la potenziale riattivazione della sua posizione sarebbe già sufficiente. Coerentemente con la cosmogonia della Tecnica, la logica dell’estinzione (sia come oggetto fobico che come problema da risolvere) poggia sul primato ontologico della posizione rispetto alla cosa, dove la posizione consente alla cosa di partecipare alla propria esistenza solo in quanto potenziale attivatore della posizione stessa. In questo senso, l’egemonia fobica dell’estinzione riflette il silenzioso consenso sul sistema di realtà che vede le posizioni seriali (per esempio le specie) come più “vere”, e dunque più meritevoli di protezione, dei singolari esseri viventi. Se portassimo questa logica alle sue estreme conclusioni, scopriremmo che una vera esistenza può essere attribuita solo alle posizioni che hanno il potenziale per essere attivate, mentre le “cose” stesse equivalgono semplicemente all’evento (non strettamente necessario) della loro attivazione. La presenza potenziale prende il posto dell’esistenza effettiva.
Una ristrutturazione così ampia delle categorie dell’esistenza, per come danno forma e si applicano alla nostra attuale comprensione del mondo, è solo l’ultimo stadio di un lungo processo di traduzione da un mondo di cose a un mondo di posizioni. Come era stato notato dai primi critici della Tecnica, uno stadio cruciale di questo processo ha avuto luogo sotto il dominio della forma industriale della Tecnica, in particolare a cavallo tra il xix e il xx secolo. Quando Heidegger si riferiva all’impatto del principio strumentale della Tecnica sul mondo circostante, il suo principale riferimento concreto riguardava la forma industriale assunta dalla Tecnica del suo tempo. Gli enormi macchinari, la valanga di carbone e vapore, l’inferno dei lavoratori sfruttati fino allo stremo, così vividamente descritti da Louis-Ferdinand Céline nella parte su Chicago del suo Viaggio al termine della notte, rappresentava un gargantuesco apparato di traduzione. Il suo compito principale, nella prospettiva di un più ampio sviluppo cosmogonico della Tecnica, consisteva in un lavoro preliminare di traduzione del mondo delle cose (alberi, cascate, umani) nel mondo delle posizioni, immediatamente comprensibili come riserve disponibili all’interno delle serie industriali di produzione (legname, unità idroelettriche, lavoro). L’età della Tecnica Industriale doveva fronteggiare un mondo che ancora cercava di resisterle, almeno nel senso più basilare del continuare a esistere autonomamente. Ogni potenziale oggetto di traduzione, in quanto tale, deve essere dotato di un livello di esistenza autonoma che lo distingua dal sistema in cui dev’essere tradotto. Jünger faceva notare che l’idea borghese di individuo sarebbe presto capitolata a favore del “tipo del lavoratore” – eppure, qualcosa di differente da quel tipo ancora esisteva, almeno abbastanza da poter essere dominato e soggiogato dalla Tecnica.
Questa prima fase nell’affermazione della Tecnica come forza cosmogonica egemone procedette trionfalmente fino alla fine degli anni Settanta. La chiusura di quel decennio, più o meno contemporaneo alla morte del poeta della disperazione industriale, Charlie Chaplin, vide una svolta decisiva nello sviluppo della Tecnica. Fu l’inizio di ciò che attualmente conosciamo come “post-fordismo”, contrapposto all’approccio “fordista” che aveva caratterizzato la maturità della precedente epoca della Tecnica Industriale. Come esaminato da un crescente numero di autori negli ultimi anni, in particolare dai pensatori “postoperaisti” della tradizione italiana come Franco “Bifo” Berardi e Christian Marazzi, l’avvento del post-fordismo coincise con cambiamenti drammatici nel modo di produzione capitalistica. Da un’economia largamente basata sulla produzione di materiali duri e sullo sfruttamento di una forza lavoro organizzata, a una forma di produzione liquida e rimodulabile, in gran parte incentrata su servizi e informazioni e incorporata nella vita stessa della moltitudine lavoratrice disintegrata. Tuttavia, per la nostra discussione sull’impatto della Tecnica sulla forma del mondo, questi specifici cambiamenti socioeconomici risultano meno importanti. Ciò che veramente sta a rappresentare il cambio di paradigma tra fordismo e post-fordismo è la chiusura del ciclo di traduzione e l’inizio di un’epoca del linguaggio totale. La nostra precedente caratterizzazione della Tecnica Industriale come un gigantesco processo di traduzione non era semplicemente metaforica – come discusso in precedenza, il centro geometrico della Tecnica riposa sulla nozione di misura, la quale dà forma alla nozione di strumentalità attraverso il sistema di linguaggio. Al fine di soggiogare il mondo delle cose al proprio universo di posizioni, la Tecnica Industriale procedette con il trasformare le cose nel loro equivalente linguistico, così da poterle includere all’interno dei propri sistemi seriali. Le cose non furono solamente ridotte genericamente ai loro nomi; nello specifico, esse furono tradotte nei loro nomi tecnici. Eppure, tale lavoro di traduzione fu possibile soltanto finché rimase qualcosa (qualunque cosa) in grado di sopravvivere come entità autonoma al di fuori della griglia del linguaggio della Tecnica. Una volta che il linguaggio della Tecnica ebbe affermato il suo ruolo come unico guardiano dello stato di legittima esistenza, prendendo in questo modo il controllo sull’intero esistente, il lavoro di traduzione non poté più contare sulla fondamentale alterità che ne era stata il fondamento. Con lo scomparire delle cose al di fuori del linguaggio della Tecnica, la sua epoca Industriale si avviò alla conclusione. Il passaggio al post-fordismo inaugurò una nuova fase della cosmogonia della Tecnica e l’alba dell’era del linguaggio totale.
Una volta che il lavoro di traduzione ebbe esaurito il suo obiettivo primario, e niente era rimasto dell’umano, delle foreste e delle cascate se non il segno linguistico del loro valore come riserva disponibile (niente era rimasto del mondo stesso, se non il segno linguistico del suo valore strumentale), allora nacque l’universo della Tecnica nella sua perfezione: il complesso dell’esistente e del possibile ridotto a una sfera di linguaggio chiusa e assoluta, data l’assenza di ogni “fuori” rispetto a essa. Questo è il momento che avevamo descritto, all’inizio del capitolo, come il collasso dello sfondo sulla scena, o come il picco di una crisi della realtà. Appena un principio esclusivo prende il sopravvento sulla realtà intera e nega la legittimità di qualunque cosa al di fuori della propria architettura, ecco che la realtà stessa si trova in pericolo. In questo caso, appena il principio dell’essenza dovesse distruggere quello dell’esistenza (come vedremo più avanti nel libro), fino al punto di negare ogni legittimità a qualsiasi cosa che non sia una posizione in una serie linguistica, ecco che la realtà stessa verrebbe frantumata e disintegrata. La realtà, intesa come la cornice che permette al “mondo” di emergere, implica che vi sia una distanza ontologica tra la cornice e ciò che emerge all’interno di essa in quanto mondo. Una maniera di “incorniciare” che fosse così assoluta da negare ogni legittimità a qualunque cosa che non sia la cornice stessa, negherebbe ogni possibile realtà. La completa chiusura in se stesso del linguaggio della Tecnica conduce a una tale condizione, scatenando perciò una crisi di realtà di proporzioni catastrofiche.
L’epoca del linguaggio totale seleziona rigidamente ab origine che cosa possa o non possa rivendicare una qualsiasi forma di presenza legittima nel mondo. La selezione è basata sulla disponibilità del candidato alla riduzione di tutte le sue dimensioni a quella linguistica della serialità, ovvero, caso per caso, a una o a un’altra serie storica. Siamo oggigiorno testimoni di questo processo in molti campi del sociale, della scienza, della politica e dell’economia. Alla base dell’ossessione contemporanea per i big data, per esempio, risiede il doppio assunto ontologico per cui: 1) il linguaggio dell’informazione tecnologica è capace di afferrare l’insieme dell’esistente; 2) l’insieme dell’esistente coincide con la portata del linguaggio dell’informazione tecnologica. Gli investimenti da record nei sistemi e nelle tecnologie basate sui Big Data si fondano sulla convinzione che non ci possa essere niente di ontologicamente rilevante che non possa essere, almeno potenzialmente, ridotto (e ridotto nel vero senso della parola) alle unità seriali del linguaggio dei dati. Analogamente, possiamo comprendere il ruolo oggi giocato dal capitalismo finanziario non solo come traduttore del mondo nella sua struttura linguistica, ma come creatore di un mondo che coincide esattamente con tale struttura. Il capitale finanziario non applica valore a cose preesistenti, limitandosi a tradurle nei termini del proprio sistema linguistico di valutazione; al contrario, è il mondo (o ciò che ne rimane, tollerato unicamente allo stato larvale) che deve mobilitarsi in accordo con la griglia della finanza, nella speranza di avere il permesso di attraversare i cancelli della presenza che la finanza sorveglia attentamente. Troviamo all’opera lo stesso processo anche in vari aspetti egemonici nella scienza contemporanea, in particolare nelle sue articolazioni pratiche, come quelle appartenenti al campo delle neuroscienze. Il linguaggio neuroscientifico si presenta come valido e degno di fiducia perché: 1) può potenzialmente avvolgere di un fascino pervasivo l’intero oggetto della sua ricerca; 2) non esistono emozioni, sentimenti, processi di pensiero e così via, oltre a quelli che sono già contenuti, almeno potenzialmente, nel sistema linguistico delle neuroscienze. Funzionando come una forma di sentimentalismo scientifico, la metafisica neuroscientifica scarta come fantasia o superstizione ogni processo mentale che non sia almeno potenzialmente in grado di adattarsi al suo linguaggio. Ugualmente, questo processo si applica al discorso ontologico della cittadinanza. Nell’attuale epoca post e antiumanista, la cittadinanza non è attribuita a una persona – piuttosto, l’essere una persona diventa un beneficio implicito dello status di cittadino. Dopo il rifiuto della Tecnica delle nozioni stesse di vita e di morte, come discusso sopra, la già terribile “nuda vita” che veniva applicata agli apolidi si risolve ora nello sciogliersi della presenza verso un’assoluta nullità ontologica. Come dimostra il recente dibattito sull’immigrazione e sul diritto d’asilo, qualsiasi cosa rimanga fuori dalla serie linguistica della cittadinanza cade interamente fuori dal mondo. E ancora, lo stesso è vero per l’identità in generale, come avviene platealmente nel campo del genere e della sessualità. Qualsiasi aspetto di una persona che rifiuti o non possa essere ridotto totalmente a un insieme di unità seriali di linguaggio (un caso di rifiuto ontologico), o nelle serie linguistiche specifiche che sono all’opera in un determinato tipo di società (un caso di rifiuto storico), è immediatamente privato di ogni tipo di legittima rivendicazione di essere presente nel mondo. Mentre l’esistenza assoluta sfugge alla presa di qualunque forma di controllo sociale, nell’epoca della Tecnica la presenza nel mondo diviene il principale oggetto di sorveglianza e produzione.
NOTE
[1] L.F. Céline, Viaggio al termine della notte, Corbaccio, Milano 2012.
[2] F. “Bifo” Berardi, L’anima a lavoro, DeriveApprodi, Roma 2016.
[3] C. Marazzi, Capital and Affects: The Politics of the Language Economy, Semitext(e), Los Angeles 2011.