La pratica della traduzione letteraria crea reti e connessioni, anche neuronali, che spesso riescono a incrinare la tradizionale struttura del canone letterario nazionale, nonché il suo intrinseco portato nazionalista, costruendo nuove prospettive o anche portando alla luce quello che, in altre circostanze, è stato messo ai margini. È successo questo, negli ultimi anni, con la ricezione italiana del poeta californiano Jack Spicer (1925-1965), animatore, nella sua breve esistenza terrena, della cosiddetta San Francisco Renaissance, un movimento poetico che ha visto la partecipazione di altri autori che ancora non sono stati adeguatamente esplorati in traduzione italiana come Robert Duncan e Robin Blaser.
Un’esistenza brevissima, dunque, quella di Spicer, ma estremamente produttiva e influente. L’autore, d’altronde, ha spesso fatto i conti con la vita e la morte in modo tutt’altro che tragico, bensì giocoso, come dimostra il carteggio impossibile con Federico García Lorca in After Lorca: il poeta granadino, assassinato durante la Guerra Civile spagnola, cioè quando Spicer aveva circa undici anni, accetta di scrivere una altrettanto impossibile prefazione a un volume – After Lorca, appunto – che apparentemente conterrebbe sue traduzioni inglesi; agli occhi di Lorca, però, le traduzioni sono tanto “libere” da sembrare quasi irriverenti, poiché, in realtà, si tratta di testi di Spicer… O quasi, come si vedrà alla fine di questo articolo, e per il tramite di un “mistero gioioso”.
In ogni caso, questa idea della traduzione, che ha molto a che vedere con la pratica stessa della scrittura poetica, implica una comunicazione tipicamente da medium con i morti che anche la traduzione italiana di Spicer, a suo modo, convoca e mette in risalto, proponendo un autore che a più di cinquant’anni di distanza, può essere ancora punto di riferimento per la produzione poetica contemporanea.
Per affermare questo, è sufficiente passare velocemente in rassegna i poeti italiani implicati nella sua opera di diffusione, quasi sempre per il tramite del poeta e traduttore californiano Paul Vangelisti. Dopo una prima traduzione sulla rivista romana Cervo volante (1981) a cura di Paul Vangelisti e Adriano Spatola, e l’inclusione nell’antologia Nuova poesia americana. San Francisco (Mondadori, 2006) dai curatori Paul Vangelisti Luigi Ballerini, la traduzione di Spicer ha conosciuto nuovo abbrivio nel decennio appena concluso. Sia I capi della città in su fino all’etere – tradotto da Nanni Cagnone per Galleria Mazzoli nel 2012 – sia Billy the Kid – tradotto da Marco Giovenale, per La Camera Verde nel 2014 – hanno aperto la strada per un successivo investimento editoriale da parte delle edizioni Gwynplaine, con After Lorca, nel 2018, e ora di Argolibri, con Un rosario di bugie. Ad animare queste due pubblicazioni sono stati Andrea Franzoni e Fabio Orecchini, ora direttori della collana Talee per Argolibri, avvalendosi anche, per l’ultima pubblicazione, dell’aiuto di Paul Vangelisti, curatore delle prime due traduzioni e vero pontiere tra la poesia italiana e statunitense del secondo Novecento.
Un rosario di bugie, in particolare, è un libro che merita la dovuta attenzione, anche se l’uscita è stata temporalmente sfortunata e non ne ha ancora favorito adeguatamente la diffusione, perché è stata di poco precedente al blocco totale delle attività editoriali indipendenti che si è avuta con il periodo di lockdown (un problema con il quale si dovrà probabilmente fare i conti sempre di più in futuro, a dispetto di quella riapertura precoce delle librerie talora salutata con favore, qualche mese fa).
Un rosario di bugie raccoglie gli scritti di Spicer di un anno solo, il 1958, annus mirabilis della sua produzione, poiché vi risale anche un’altra opera fondamentale del poeta, Billy the Kid. Si tratta di tre sezioni – Ammonimenti, Un libro di musica e Quindici false proposizioni contro dio – che si uniscono per formare un rosario, come recita il titolo del libro, ripreso a sua volta da un’espressione, “a rosary of lies”, usata dallo stesso Spicer con il poeta e amante Russel Fitzgerald a proposito delle Quindici false proposizioni contro dio. Un rosario che “non va «letto», ma sgranato ripetutamente in un tempo e movimento dati (la lettura è conforme alla propria natura) come un rosario”, come scrive Andrea Franzoni, traduttore del libro, nell’introduzione.
Nessuna indulgenza in una facile blasfemia in stile psuedo-maudit, né tanto meno la prescrizione di una lettura salmodiante o cantilenante: nella musica di Spicer, per esempio, ci sono frequentemente i gabbiani – da Mimo: “C’è un’intera armata di gabbiani / Che aspetta dietro le quinte / Un’intera armata di gabbiani”– ma i loro stridii sono tutto fuorché un semplice cliché poetico; servono, nell’intramato sonoro dei testri, per tentare di coprire, perlopiù senza successo, i ben più inquietanti chuchurlements, o “sussurli” – come giustamente rileva, e traduce, Andrea Franzoni – di derivazione artaudiana.
E non è finita qui: in Un libro di musica – una musica con le parole di Jack Spicer, come precisa argutamente il sottotitolo – il gioco si stempera nel paradosso, ricercando non tanto la complessità del livello fonosimbolico, ma qualcosa che lo supera radicalmente e lo ridefinisce. Questo si rende evidente nelle Improvvisazioni su una frase di Poe – il motto di Edgar Allan Poe, “L’indefinibile è un elemento della vera musica”, è citato da Spicer con l’aggiunta di una chiosa illuminante: “La grande armonia di ciò che / Non si abbassa per definirsi” – e ancor di più in quello “spazio tra tre violini” che, in Cantata, può “minacciare tutta la nostra poesia”.
Cosa ne possa essere di questa musica che si apre ora in alcuni squarci rumoristi ora nello spazio tra le melodie è un interrogativo che rimanda anche alla qualità plurilingue della scrittura di Spicer, già manifestata in After Lorca, e che qui trova nuova legittimazione, ad esempio nei versi di Venerdì Santo. In mancanza di orchestra: “Babilonia non è che qualche mattone cotto / Con dei simboli sopra. / Tu non potresti capirli”. Anche in questo caso, non si tratta di ritornare a una sorta di lingua pura, quasi edenica, che possa rappresentare una dimensione plurilingue originaria e perduta, bensì di esplorare quelli che sono, in ogni situazione enunciativa, i limiti delle lingue naturali. In alcuni luoghi del testo, tale rinvio verso una qualità più marcatamente meta-letteraria, se non anche teoretica, della scrittura si rende ancor più manifesto, come nella chiusa del Duetto per sedia e tavolo – vera e propria sintesi di quanto sostenuto finora: “Possiamo imparare i nostri nomi dalla nostra bocca / Nominare i nostri nomi / In mezzo alla stessa musica”.
Si tratta, fra l’altro, di una sintesi all’insegna della leggerezza, aspetto che si può rintracciare anche negli Ammonimenti – mai realmente assertivi o impositivi, risultando spesso alleggeriti da forme sempre diverse di understatement – e nelle Quindici false proposizioni contro dio – un titolo di nuovo chiaramente artaudiano, al quale, però, fanno da contraltare i numerosi “joyful mysteries”, o “misteri della gioia”, che costellano il testo.
D’altronde, indirizzando una lettera a Robin Blaser negli Ammonimenti, è Spicer stesso a scrivere: “Una poesia non deve mai essere giudicata solo per sé stessa. Una poesia non è mai soltanto sé stessa”, per poi concludere rimarcando, ma senz’alcuna sicumera, l’importanza di quanto ha appena affermato tanto per la propria poetica quanto in termini più generali: “Questa è la lettera più importante che tu abbia mai ricevuto”.
Oltre a Robin Blaser, raccoglie questo testimone anche Paul Vangelisti, nella postfazione al presente volume: Vangelisti dedica quasi tutto il suo intervento a una questione che potrebbe sembrare aneddotica, ossia all’incontro sfiorato con Spicer, in una notte di marzo del 1965, in un bar di San Francisco; l’episodio, in realtà, contribuisce non poco alla creazione di una leggenda del santo bevitore che, come il racconto lungo di Joseph Roth, ben si inquadra con il lascito spirituale – nel senso laico di “maieutico” e “trasformativo” – di Spicer.
Un lascito che continua ad attraversare l’Atlantico: ora, infatti, tocca ai lettori raccogliere questo testimone, recuperando l’opera di Spicer magari proprio a partire da quest’ultima pubblicazione. Si potranno convincere, com’è successo a chi scrive, leggendo Un rosario di bugie, che i canoni letterari nazionali possono essere radicalmente modificati o anche sovvertiti dalla traduzione, anche dalla traduzione poetica, e che questo processo è ancor più facile quando – come succede in modo paradigmatico nel caso di Spicer, per un mistero gioioso – la poesia già nasce diversa da se stessa.