Roberto Fagiolo, Chi ha ammazzato Pecorelli. Ombre, sospetti e interrogativi su uno dei grandi misteri della Repubblica, Nutrimenti, euro 18,00 stampa
L’omicidio di Mino Pecorelli rimane a tutt’oggi uno dei più inquietanti misteri che hanno funestato la storia d’Italia. Non è esagerato affermare che, se si riuscisse a chiarire una volta per tutte chi furono i mandanti e gli esecutori di questo vero e proprio delitto politico, molti degli intrecci più oscuri della nostra storia patria potrebbero essere risolti. Ecco perché questo nuovo libro del giornalista RAI Roberto Fagiolo (di cui abbiamo già recensito su PULP LIBRI il libro Topografia del caso Moro) dedicato alla vicenda dell’assassinio Pecorelli rappresenta un contributo fondamentale per evidenziare fino a qual punto si sono spinte le indagini su questo delitto e su quale soglia di impunità si sono fermate.
In questa storia sono coinvolti tutta una serie di personaggi della politica e dell’imprenditoria che continuano tuttora a condizionare la nostra vita istituzionale. Personaggi che furono in qualche modo implicati nel delitto Pecorelli, ma che non sono mai stati arrestati né tantomeno incriminati. Eppure avevano tutto l’interesse a far fuori questo giornalista scomodo, fondatore della rivista settimanale OP (Osservatorio Politico), che metteva in piazza tutti i segreti più inconfessabili della politica, dell’imprenditoria, dei Servizi Segreti, del Vaticano e perfino della Magistratura.
Ma procediamo con ordine.
Il 29 Marzo 1976 venne arrestato a Roma Albert Bergamelli, il capo della cosiddetta Banda dei Marsigliesi, in seguito a un’indagine sulla famigerata Anonima Sequestri. Al momento dell’arresto, Bergamelli dichiarò: “Una grande Famiglia mi protegge”. Qualche anno dopo, il 31 Agosto 1982, Bergamelli verrà sgozzato come un animale sacrificale all’interno del Supercarcere di Ascoli Piceno dal detenuto Paolo Longo, detenuto politicizzato appartenente alla cosiddetta Banda dei Genovesi. La grande Famiglia aveva smesso di proteggerlo.
Roma 10 Luglio 1976. Il giudice Vittorio Occorsio venne crivellato da una raffica di mitraglietta mentre si trovava nella sua auto. Il suo boia era Pierluigi Concutelli, estremista di destra e capo militare del MPON, il Movimento Politico Ordine Nuovo di Clemente Graziani, nato da una scissione dell’organizzazione di estrema destra Ordine Nuovo, a sua volta fondata da Pino Rauti. Il giudice Occorsio stava indagando proprio sull’Anonima Sequestri e aveva scoperto numerosi intrecci tra criminalità organizzata, estremismo di destra e Massoneria. Occorsio aveva scoperto che forse il ricavato dei sequestri di persona era stato utilizzato per acquistare la sede romana dell’OMPAM, la centrale massonica mondiale concepita dal Maestro Venerabile della Loggia massonica Propaganda 2 (P2) di Licio Gelli. Occorsio stava portando avanti un promettente filone di inchiesta che legava l’Anonima Sequestri alla Loggia P2 tramite l’avvocato di Bergamelli, Gian Antonio Minghelli, che venne arrestato qualche giorno dopo il suo cliente. All’epoca si cominciò a parlare di questa misteriosa organizzazione massonica, i cui elenchi salteranno fuori soltanto cinque anni dopo, nel 1981, grazie alle inchieste dei magistrati di Milano sul crack Sindona. All’epoca delle indagini del giudice Occorsio si parlava soltanto di un misterioso Gruppo II P.
Qualcuno aveva visto Gelli fare anticamera davanti all’Ufficio del giudice Occorsio il giorno prima che venisse assassinato.
20 Marzo 1979, ore 20.30. Il giornalista Carmine Pecorelli venne ammazzato nel quartiere Prati da un misterioso assassino che, secondo le testimonianze, indossava un soprabito chiaro. L’assassino agì con estrema calma e determinazione, e, allo stesso tempo, con una rapidità che lasciò sconcertati gli inquirenti. Sparò in faccia a Pecorelli mentre era a bordo della sua Citroen CX, poi si allontanò e sparì nel nulla. Quella stessa sera, alle ore 21.30, all’Olgiata, a casa di Maria Letizia Di Bernardo, ovvero Maria Palma, moglie dell’imprenditore Franco Palma, proprietario della Squibb, vari convitati illustri stavano per sedersi a cena. Alla cena erano stati invitati il Procuratore Capo della Repubblica di Roma, Giovanni De Matteo, il Sostituto Procuratore Domenico Sica, il Sostituto Procuratore Claudio Vitalone, longa manus di Giulio Andreotti negli ambienti giudiziari, il Colonnello dei Carabinieri Antonio Varisco, e l’imprenditore Walter Bonino. Alle ore 21.40. il capitano Alfieri telefona a casa della Palma e chiede di parlare con Domenico Sica. Sica però nega questa circostanza, e afferma che a rispondere fu il procuratore De Matteo, suo diretto superiore. Eppure anche De Matteo nega, anzi afferma che lui quella sera a cena dalla Palma proprio non c’era. Anche Claudio Vitalone nega di essere stato quella sera a cena a casa della Signora Palma. Il resoconto della cena a casa Palma – con le sue varie versioni – è uno dei retroscena più gustosi che Roberto Fagiolo ricostruisce dettagliatamente proprio all’inizio del libro.
Insomma Alfieri telefona, qualcuno gli risponde e lui riferisce: “Un fatto grave, Dottore… hanno ammazzato Pecorelli, il giornalista.” In via Orazio, all’altezza del civico 10/F, c’è una Citroen CX verde, posta di traverso alla strada e con i fari accesi. All’interno si trova il corpo ormai senza vita di Carmine Pecorelli, Direttore del settimanale OP.
Tutti sanno chi è Carmine Pecorelli, detto Mino, giornalista d’assalto sempre informatissimo sui più loschi intrallazzi della Prima Repubblica. Alcuni lo conoscono perché subiscono da anni gli attacchi del suo settimanale, soprattutto Vitalone e il Gruppo Andreotti, mentre gli altri sono stati spesso contattati da lui per ottenere informazioni su alcuni dei casi più scottanti dell’Italia Repubblicana. Insomma, Pecorelli non si faceva scrupoli di interpellare i più loschi personaggi, agenti dei Servizi, faccendieri, massoni e quant’altro, pur di ottenere la verità sui più misteriosi retroscena della vita politica italiana. Pecorelli faceva un giornalismo aggressivo: secondo alcuni era un eroe, l’unico che aveva il coraggio di scrivere sulle colonne del suo settimanale alcune scomode verità e di attaccare il Potere; secondo altri era soltanto uno squallido ricattatore. Non c’è dubbio che i Servizi Segreti si siano serviti in più occasioni di Pecorelli, trasmettendogli notizie e dossier riservati, per far arrivare i loro messaggi a chi di dovere. Di certo Pecorelli – quali che fossero le sue motivazioni – non aveva paura di esporsi in prima persona, e ha pagato cara questa sua ricerca ossessiva dello scoop a tutti i costi. Il suo era un (doppio) gioco certamente molto pericoloso, tra opposte fazioni dei Servizi o degli Apparati dello Stato che si servivano di lui per le loro lotte di potere. Ma di fronte allo squallore infinito di alcuni giornalisti odierni, della TV e della carta stampata, disposti ad accreditare qualsiasi versione di comodo della realtà pur di compiacere i detentori del Potere, viene voglia di rivalutare la figura di Pecorelli. Magari era un ricattatore, e bastava un semplice contributo finanziario alla sua testata per mettere a tacere le sue denunce, ma tutte le sue inchieste e indiscrezioni si sono sempre rivelate indiscutibilmente vere. Il ricatto, insomma, – se ricatto c’era – si basava su dossier realmente esistenti e su dati di fatto oggettivi, non sulla costruzione di fake news. Dunque gli squallidi servi del potere odierni non hanno nulla da temere: nessuno ordinerà mai di ucciderli. Pecorelli non era un giornalista integerrimo, non era uno stinco di santo ma, come tutti i veri giornalisti, avrebbe contattato perfino il Diavolo pur di avere uno scoop…
Qualcuno ordinò di uccidere Pecorelli, e dei sicari estremamente professionali eseguirono l’ordine. Ancora oggi rimangono molti punti oscuri nella ricostruzione dei fatti e nell’individuazione degli esecutori e dei mandanti di questo delitto. Tra i tanti dettagli ancora non chiariti, l’identità di un misterioso personaggio che incontrò Pecorelli nel suo Ufficio quello stesso giorno, alle ore 17.00. Secondo le testimonianze dei collaboratori di OP, si trattava di un cinquantenne corpulento, che si trattenne a parlare con Pecorelli fino alle ore 20.00. Ma nessuno della Redazione – ci ricorda Fagiolo – fu in grado di descrivere questo misterioso individuo dettagliatamente.
Mino Pecorelli inizia la sua carriera politica nel 1967, con il settimanale Nuovo Mondo d’Oggi edito da Leone Cancrini, collegato ad ambienti di estrema destra e ai Servizi Segreti. Il 19 Novembre 1967 il Nuovo Mondo intervista l’ufficiale dei paracadutisti Roberto Podestà, che afferma di avere avuto l’incarico nel 1964 di rapire e uccidere l’allora Presidente del Consiglio Aldo Moro per poi attribuirne la responsabilità all’estrema sinistra. Il Nuovo Mondo chiuderà nell’Ottobre del 1968 proprio a causa di uno scoop di Pecorelli sull’Università domenicana Pro Deo, diretta da padre Félix Morlion, ex agente dell’OSS e poi della CIA, amico di Andreotti. Lo “strillo” del reportage già rivelava quanto fosse esplosivo il contenuto. Si accennava a uno scandalo in cui erano coinvolti, nell’ordine: “La GESTAPO e la CIA, il Vaticano e i Servizi Segreti, la FIAT, la Montecatini e l’Ordine dei Domenicani.” L’articolo non uscirà mai e il Nuovo Mondo chiuderà i battenti.
Qualche giorno dopo Pecorelli fonderà l’agenzia giornalistica OP, con sede in via Tacito a Roma. Secondo i soliti ben informati, dietro la nascita dell’agenzia OP ci sarebbe stato l’Ammiraglio Eugenio Henke, allora capo del SID, che l’avrebbe poi utilizzata per “scopi inconfessabili”. Fatto sta che Pecorelli ha sempre a disposizione notizie riservate, anzi riservatissime, di prima mano. Lui è sempre il primo a sapere come stanno effettivamente le cose, quali personaggi si nascondono dietro i più grossi scandali della Prima Repubblica. Dalla sua agenda, sequestrata dopo il delitto, spuntano nomi importanti, come Francesco Cosentino, Vito Miceli, Enrico Mino, Federico Umberto d’Amato, Gianadelio Maletti, Antonio La Bruna, il Generale Dalla Chiesa, i magistrati Sica, Infelisi e De Matteo, Emilio Santillo, e dulcis in fundo, Ugo Niutta, Presidente della Carlo Erba, che secondo Aldo Giannuli sarebbe il fantomatico Antelope Cobbler dello Scandalo Lockheed. A questa lista vanno aggiunti altri ben noti personaggi, quali Giancarlo Elia Valori, Silvio Berlusconi, Giuseppe Ciarrapico, Giovanni Ventura (imputato per la Strage di Piazza Fontana), Umberto Ortolani e Licio Gelli.
Fin dall’inizio delle indagini sul delitto Pecorelli si assiste a una vera e propria orgia di indizi e di moventi. La sensazione è che si tratti dell’opera di un professionista, che ha agito con un eccezionale sangue freddo e con una rapidità incredibile in una zona nel pieno centro di Roma. In base alle testimonianze dei suoi collaboratori, in quel periodo Pecorelli stava seguendo soprattutto tre filoni di inchiesta e cercava di mettere le mani su alcuni documenti a dir poco esplosivi: il memoriale dell’ex Presidente dell’Italcasse Arcaini, il memoriale di Michele Sindona, e infine il memoriale scritto da Aldo Moro durante la prigionia, il cosiddetto “Memoriale della Repubblica”, di cui Pecorelli era uno dei pochissimi a sapere già all’epoca che si trattava di un documento incompleto e mancante di alcune lettere importantissime. Nell’ultimo periodo, inoltre, Pecorelli aveva attaccato Licio Gelli, capo indiscusso della P2, di cui anche lui faceva parte. Dopo il delitto, si scoprirono a casa di Pecorelli dei guanti bianchi, un grembiule massonico e la tessera della P2. In particolare, Pecorelli aveva accusato Gelli di aver fatto il doppio e forse il triplo gioco durante la guerra e negli anni successivi, barcamenandosi tra i nazifascisti, i partigiani comunisti e gli americani. Probabilmente Pecorelli era riuscito a mettere le grinfie sul famoso Dossier Cominform, redatto dal controspionaggio di Firenze, che raccontava i trascorsi di Licio Gelli durante la seconda Guerra Mondiale. Nel Dossier si descriveva il passaggio di Gelli dalle SS italiane alla Resistenza; anzi, nel Dossier si affermava che Gelli fosse collegato con il Partito Comunista fin dal 1944. Si trattava di una vera e propria bomba pronta ad esplodere, una bomba che avrebbe rovinato irrimediabilmente l’immagine di anticomunista irriducibile che Gelli si era costruito nel tempo.
Il 6 Marzo 1979 Pecorelli partecipa ad una misteriosa riunione presso l’ufficio del Colonnello Varisco, a Piazza delle Cinque Lune a Roma. La particolarità di questa riunione è che tutti i partecipanti prima o poi verranno uccisi, e non si riuscirà mai a sapere quale fosse l’argomento in discussione. Nello Studio di Varisco sono presenti infatti, oltre a Pecorelli, Giorgio Ambrosoli, il Commissario liquidatore della Banca Privata Italiana di Michele Sindona, che verrà ucciso da un sicario italoamericano su incarico di Sindona, il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che verrà ucciso a Palermo dalla Mafia, e il Colonnello Varisco, che verrà ucciso dalle Brigate Rosse (?) qualche mese dopo Pecorelli, il 13 Luglio 1979.
Un altro filone di indagine seguito dagli inquirenti, oltre a quello sul Golpe Borghese, riguarda il famigerato Dossier M.Fo.Biali, un dossier esplosivo che rivelava un traffico illegale di petrolio con la Libia in cui erano coinvolti i vertici della Guardia di Finanza, nelle persone del Comandante generale della GDF, il Generale Raffaele Giudice e del Vicecomandante Donato Lo Prete. Nel Dossier si accennava anche a tentativi golpisti, a finanziamenti illeciti dei partiti e a connessioni con il Vaticano, con l’onnipresente Gelli e con la P2.
Tra i possibili moventi del delitto Pecorelli figura anche l’annosa vicenda dei fascicoli del SIFAR, decine di migliaia di dossier, alcuni risalenti ai primi anni Cinquanta, relativi a personalità della politica, dell’industria, del sindacato, della magistratura, dell’esercito, del giornalismo. Una apposita Commissione aveva ordinato la distruzione di questi dossier, distruzione che avvenne ufficialmente nel 1974, ma per anni aleggiò il sospetto che migliaia di quei dossier non fossero stati affatto distrutti, anzi fossero diventati una merce di scambio e una formidabile arma di ricatto nelle mani di pochi potenti, che, grazie a quelle notizie riservate, hanno condizionato la politica italiana per decenni. Alcuni di questi dossier vennero ritrovati nella villa di Gelli a Montevideo nel 1981.
A questa ridda di ipotesi sul delitto Pecorelli si vanno ad aggiungere dei veri o presunti depistaggi, come il volantino del POE, Partito Operaio Europeo, movimento fondato dal politico americano Lyndon LaRouche, attivo in Italia alla fine degli anni Settanta, un movimento che ha sempre concepito le varie vicende politiche italiane come condizionate dalle più varie ipotesi complottiste. Il volantino del POE si soffermava a lungo su tutta la vicenda Pecorelli. Secondo il POE, Pecorelli aveva in mano un dossier che avrebbe fatto scoppiare lo scandalo delle truffe in bilancio dell’Ordine di Malta. Secondo questa ricostruzione, Aldo Moro sarebbe stato tenuto prigioniero nel Palazzo del Principe Johannes Schwarzenberg, Ambasciatore dei Cavalieri di Malta, che gode dell’immunità territoriale e si trova all’angolo tra via Caetani e via delle Botteghe Oscure. Il POE rilanciava inoltre l’ipotesi del complotto della Corona Britannica per sovvertire la Repubblica Italiana, il cosiddetto Golpe Inglese: “….risulta chiaro che l’assassinio del giornalista Mino Pecorelli è stato organizzato dalle forze monetariste anglofile legate alla Banca d’Italia.” Effettivamente qualche strana coincidenza ci fu: il 24 marzo, quattro giorni dopo l’omicidio Pecorelli, Baffi e Sarcinelli vengono accusati di favoreggiamento e di interesse privato in atti d’ufficio per la vicenda della SIR di Nino Rovelli. In realtà si volevano eliminare dalla scena due strenui oppositori al salvataggio delle banche di Sindona, che avevano peraltro anche sciolto il Consiglio di Amministrazione dell’Italcasse e ordinato un’ispezione al Banco Ambrosiano di Roberto Calvi.
Un’altra vicenda sulla quale Pecorelli era informatissimo era il Caso Moro. All’indomani del rapimento dello statista democristiano, OP cominciò a pubblicare sibilline dichiarazioni che facevano intendere che Pecorelli avesse notizie di prima mano sulla logistica del rapimento e sul luogo di detenzione di Moro. Oltre al già citato scoop dell’intervista a Podestà di 11 anni prima, già negli anni precedenti Pecorelli aveva avuto modo di scrivere di oscuri piani per far fuori lo statista democristiano, in articoli con titoli che non lasciavano nulla all’immaginazione: “Ore 19.00, il Ministro deve morire…”, oppure “Il Moro-bondo”. Pecorelli fu uno dei pochi a sostenere fin da subito che Moro aveva scritto le sue lettere dalla prigionia “nel pieno possesso delle sue facoltà mentali”, rigettando l’ipotesi di comodo che fosse affetto dalla “Sindrome di Stoccolma”. Secondo Pecorelli i segreti che Moro poteva rivelare durante la prigionia non erano affatto Segreti di Stato, ma segreti inconfessabili che avrebbero potuto distruggere la reputazione di uomini politici potenti, oppure svelare squallidi retroscena della vita dei partiti. Rileggendo alcune sue affermazioni si capisce con quale lucidità Pecorelli avesse intuito o scoperto cosa ci fosse veramente dietro, o meglio al di là del Caso Moro: “La cattura di Moro rappresenta una delle più grosse operazioni compiute negli ultimi decenni in un paese industriale integrato nel sistema occidentale.” Lo scopo di tutta l’operazione era chiaro: “allontanare i comunisti dal’area del potere.” Nel gennaio 1979 Dalla Chiesa e Pecorelli collaborarono segretamente per recuperare la versione integrale del Memoriale Moro, che ritenevano trovarsi nel carcere di Cuneo. È questo il motivo per cui venne ucciso?
Il 14 Aprile 1979 a Roma viene ritrovato un borsello in un taxi, contenente, tra vari documenti brigatisti, una scheda informativa su Mino Pecorelli con la dicitura “Da eliminare”. Si tratta di un evidente tentativo di depistaggio, cioè del tentativo di attribuire l’eliminazione di Pecorelli alle Brigate Rosse. In realtà – si apprenderà in seguito – le schede sarebbero state redatte da Toni Chichiarelli, un abile falsario di quadri di De Chirico, già autore del falso comunicato n. 7 delle Brigate Rosse durante il Sequestro Moro, quello del Lago della Duchessa. Chichiarelli verrà ucciso il 29 settembre 1984, al Quartiere Talenti, da un misterioso killer. Qualche mese prima, Chichiarelli aveva partecipato al cosiddetto “colpo del secolo”, la rapina alla Brink’s Sekurmark di Roma, con un bottino di 35 miliardi di lire e alcuni documenti esplosivi su Andreotti e alcune foto polaroid che sarebbero state scattate ad Aldo Moro durante i 55 giorni di prigionia. Un altro omicidio politico?
L’ultimo capitolo della vicenda Pecorelli è legato alle dichiarazioni del pentito di Mafia Tommaso Buscetta, secondo il quale l’omicidio Pecorelli sarebbe stato eseguito da Cosa Nostra, su richiesta dei cugini Salvo, ai quali era stato chiesto da Giulio Andreotti. Anche da questa inchiesta si è sviluppato un processo, che si è concluso con l’assoluzione di tutti gli imputati. Secondo Buscetta e altri pentiti di Mafia, Pecorelli sarebbe stato ucciso dall’estremista di destra Massimo Carminati, collegato alla Banda della Magliana, in anni recenti protagonista dell’indagine su Mafia Capitale, e dal mafioso Michelangelo La Barbera. Andreotti avrebbe chiesto dunque alla Mafia di eliminare Pecorelli perché stava per pubblicare del materiale esplosivo sullo scandalo Italcasse (la storia dei famosi “Assegni del Presidente” – un numero di OP che uscì in sole 300 copie e che è ormai roba da collezionisti) oppure la versione completa del Memoriale Moro, comprese quelle parti, censurate dalle stesse BR e utilizzate per ricattare lo Stato, nelle quali Moro si scagliava contro il suo collega di partito, accusandolo delle peggiori nefandezze.
Leggendo e rileggendo queste pagine, la sensazione più ricorrente è quella del deja-vu. Gelli, Moro, Andreotti. I Terroristi neri, la Massoneria, la Mafia, il Vaticano. I Servizi, i militari, gli alti prelati, le logge, la Magistratura. Sempre gli stessi scandali, sempre la stessa corruzione, sempre le stesse cortine fumogene. A più di quarant’anni dal Caso Moro, e a quarant’anni esatti dall’omicidio Pecorelli, molte delle nebbie che si erano addensate sulla Prima Repubblica non si sono ancora diradate.