C’è poesia nella sconfitta? La decadenza, espressa in ogni maniera possibile, genera fascinazione? Nelle pagine del doloroso e talvolta grottesco affresco che Giorgio Falco dipinge nel suo ultimo lavoro, ciò che emerge è un asciutto senso di consapevolezza appreso sul campo, anzi: sui campi dei molti lavori che Falco affronta – e ci racconta, attraverso il linguaggio dell’autobiografismo.
Un autobiografismo forzato e onesto insieme: forzato, perché se è della propria esperienza personale che s’intende scrivere, la scelta è d’obbligo. Onesto, perché nei testi autobiografici il rischio è che il restare un po’ troppo su se stessi converga all’eccesso lo sguardo, compromettendo l’esito della narrazione. Lo sguardo di Giorgio Falco è invece teso all’esterno, pronto alla rielaborazione critica di quanto via via accade.
Il romanzo si apre con un lungo capitolo dedicato al padre, un padre che poi ricorrerà spesso anche altrove, ma che in apertura diventa strumento di analisi per elaborare una netta separazione all’interno del mondo del lavoro: com’era ai tempi del genitore, negli anni Cinquanta, a Milano, al servizio dell’azienda dei pubblici trasporti; come diventa in epoca contemporanea, più precisamente dagli anni Ottanta in avanti, momento in cui il giovane Falco muove i primi incerti passi in un ambito che di lavorativo ha ormai soltanto il nome.
Nella dismissione delle nostre industrie, nel proliferare di nuove terminologie aziendali che riducono ruoli ed esseri umani all’osso, vi è in maniera devastante la progressiva perdita d’identità di un Paese, l’Italia, che forse, in fondo in fondo, è rimasto uno Stato fascista, bisognoso di essere diretto dall’alto e da una testa sola. È deprimente dar ragione allo scrittore che sottolinea quanto le cosiddette eccellenze italiane, soprattutto i prodotti alimentari e della terra, rappresentino una triste e vana rivalsa, che in effetti di echi conservatori ne denota altroché. Magari una pasta col pomodoro formasse un cittadino concreto.
Mentre tutto questo inesorabilmente procede, implode, disgregando un paesaggio mentale ed economico, oltre che etico e sociale, il buon Falco deve fare quello che facciamo tutti: mantenersi, passando appunto da un lavoro all’altro. Ma ecco che inaccessibili palazzi milanesi con arcigni portinai di sentinella, incaricati dai condomini d’impedire l’accesso ai venditori porta-a-porta, si riscoprono contenitori di storie, esempi di architetture narrative che ritroveremo, in altri libri di Falco ora usciti. È struggente intuire quanto e in quali misure certa materia viva abbia potuto sedimentarsi allora in colui che solamente in un futuro non ancora immaginato sarebbe divenuto lo scrittore di oggi.
E fa venire davvero le lacrime agli occhi scoprire che un romanzo straordinario quale La gemella H, finalista al premio Campiello di cui pure si racconta, sia stato concepito all’interno di uno spazio angusto, una cella lavorativa di un ufficio suddiviso in altre celle pressoché identiche, ma talmente piccola e impraticabile da essere oggetto di un divieto di accesso rivolto agli impiegati. Falco ci si rifugia per mesi. Arriverà presto sul posto di lavoro a timbrare il cartellino e cercherà di uscirne tardi, pur di non incrociare i colleghi. Tratterrà la pipì, o la farà in una bottiglietta dell’acqua minerale, protetto da un appendiabiti. In quell’utero gelido che l’autore ribattezza Sgabuzzis, La gemella H emetterà i suoi primi vagiti, crescerà e finirà nelle librerie, tra le mani dei lettori.
Quanto a me, che sto qui a formalizzare il tedioso resoconto sulle impressioni da lettore ricavate al termine di un romanzo, non so trovare le parole adatte a descrivere il senso di gratitudine che provo – e bisogna provare – verso il coraggio, o la lucida scelleratezza, necessarie a confessare cose di questo genere.
Dall’altra parte di una pagina scritta, troppa gente s’illude che il mestiere dello scrittore sia un mestiere fico.
Il mestiere che Giorgio Falco ha praticato scrivendo questo romanzo non è stato quello dello scrittore, ma il mestiere di essere uomo. Lo scrittore si è prestato a mero mezzo di comunicazione ideale, e fatale, per poterci raccontare nella nudità della parola com’è andata.