Sono rimasta molto stupita qualche settimana fa quando in visita a Roma ho lasciato per qualche sera l’automobile parcheggiata con i finestrini aperti. Nessuno mi ha derubato ma ho scoperto che si può essere multati se non si chiudono i finestrini perché non si è messa in sicurezza la macchina! Questo aneddoto molto banale esemplifica un concetto cardine del libro di Tamar Pitch, vale a dire che la «sicurezza» intesa nel suo aspetto sociale come sicurezza sul lavoro, salute e diritti sociali collettivi – sempre più bistratti e negletti – è diventata oggi la difesa privata e la creazione di condizioni che ci proteggono individualmente dal rischio di diventare «vittime» dei comportamenti dannosi degli altri. Altri che comprendono i ladri di macchine ma anche i poveri, i migranti, gli emarginati, le prostitute, in una parola tutti gli strati che, da soggetti di ingiustizia sociale o oppressi, diventano un mero pericolo, da cui guardarsi individualmente o costruendo comunità che si fondano non sul bene ma sulla paura comune, sull’esclusione e una presunta “purezza”. I diversi nella loro accezione più larga, l’esclusione e le contraddizioni sociali, non sono più fenomeni complessi a causa di ingiustizie e profonde disuguaglianze ma cose da governare con il codice penale. Il buon cittadino – come non sono stata io nel caso sopra descritto – si occupa della propria sicurezza nelle cose minute, ma anche riguardo il lavoro, la propria salute, nel proprio quartiere e solo se agisce così diventa una “buona vittima”, degna di essere difesa in una giustizia punitiva sempre più orientata ad essere scorciatoia che risolve ogni contraddizione in una società sempre più depoliticizzata in cui legalità è diventata sinonimo di giustizia.
Tamar Pitch in questo suo libro breve ma molto vibrante fa una critica femminista della cultura punitiva che ha investito anche settori del femminismo occidentale e italiano che partecipano di questa deriva securitaria in nome del fatto che tutte le donne sono «vittime». Le abbiamo fatto qualche domanda.
Pulp Negli anni ’70 il movimento femminista italiano ha fatto una grande battaglia sulla depenalizzazione dell’aborto. Di converso oggi una parte consistente del femminismo italiano e occidentale in genere fa le proprie battaglie chiedendo più pena, più carcere, nuovi reati… Cos’è e da dove viene questo bisogno di sanzioni e quindi di Stato che ha il potere di imporle?
Tamar Pitch Non so se c’è un bisogno di sanzioni e di (più) stato: nel libro documento semmai la diffusione, e dunque la presa, di una cultura punitivista anche su soggetti politici nati nel contesto delle lotte antiautoritarie degli anni settanta del secolo scorso. Il potenziale simbolico del penale si presenta infatti come un facile strumento da usare per ottenere riconoscimento e legittimazione
Pulp La critica al femminismo punitivoviene articolata nel suo libro con due casi paradigmatici. Una è la questione della prostituzione. Pia Covre del Comitato Diritti Civili delle Prostitute definisce ironicamente le leggi contro la prostituzione che puniscono i clienti come leggi rovina famiglie, lei mette in luce un altro pericolo di queste normative, vale a dire l’aspetto pedagogico, educativo e salvifico. Perché la morale è bene che rimanga fuori dalla legge?
T.P. La separazione tra diritto e morale è alla base del diritto moderno, a partire da Thomas Hobbes. Nel caso della prostituzione, non è tanto o solo la “moralizzazione” del diritto che preoccupa, quanto le conseguenze negative su chi si prostituisce di un regime “abolizionista” fondato sulla criminalizzazione dei clienti. Nonché la legittimazione di una giustizia penale classista e razzista. Poi, certo, l’indistinzione tra diritto e morale prefigura un diritto penale massimo, di contro a un diritto penale minimo, l’unico veramente coerente con democrazia e stato di diritto. Nel caso di vendita volontaria di servizi sessuali, dove è l’offesa, la lesione di diritti e interessi meritevole di sanzione penale?
Pulp L’altro caso molto spinoso è quello sulla “gestazione per altri” (l’utero in affitto). Da una parte lei ricorda che è una vecchia pratica, dall’altra che la questione si intreccia con le nuove tecnologie della riproduzione. Rispetto alle posizioni di una parte del femminismo favorevole al divieto assoluto di queste pratiche (posizione espressa anche da Giorgia Meloni) lei propende per una regolamentazione che abbia come cardine la centralità delle donne nel processo riproduttivo. Che significa esattamente? Come si potrebbe declinare questa centralità?
T.P. In Italia, sono state depositate in parlamento due proposte di legge per regolamentare la gpa. Ambedue si preoccupano di tutelare in primo luogo le donne “portatrici”, cui, a mio parere, dovrebbe essere lasciata l’ultima parola, dunque la decisione, al termine della gravidanza, se tenere il/la neonata o cederla ai genitori intenzionali. Rimane il nodo relativo alle donne che cedono gli ovuli, ossia le “madri” biologiche, di cui poco si parla, mentre sappiamo come l’operazione di produzione (se così si può dire) e cessione degli ovociti sia complessa e potenzialmente nociva per la salute.
Pulp Secondo lei può esserci un legame fra le attuali tendenze alla privatizzazione della giustizia penale e le istanze del femminismo della seconda generazione che chiedeva di parlare a partire da sé e denunciava le violenze private e non riconosciute contro le donne? Sto pensando in particolare a quelle manifestazioni dei no vax che rivendicavano una sorta di diritto a decidere del proprio corpo e della propria salute che sembrano in qualche modo riecheggiare quegli slogan.
T.P. Non credo che l’attuale tendenza ad una sorta di privatizzazione della giustizia penale abbia a che vedere con il rifiuto della rappresentanza (ognuna parla per sé, a partire da sé) del femminismo della seconda ondata: le violenze prima “private”, o meglio “personali”, vengono, al contrario, rese politiche, dunque de-privatizzate. Con l’autocoscienza si portano alla luce, vengono condivise e politicizzate esperienze prima invisibili, talvolta anche a sé stesse. Non mi pare che sia qui la radice di un individualismo egoistico: l’autocoscienza si fa (o faceva) in un gruppo, ossia assieme ad altre, costruendo così, appunto, un vissuto condiviso. Parlare “a partire da sé” ha a che vedere semmai con l’idea che si è ognuna diversa dalle altre, dunque singole, ma in costante relazione con le altre. Il paradigma politico della cura, elaborato da molte femministe, fa riferimento all’assunzione di responsabilità nei confronti delle/degli altre/altri e in generale del vivente. Quanto ai no vax e alla libertà di cura, la questione è complessa e non posso affrontarla qui in poche parole. Ricordo soltanto che la libertà di cura è protetta dal diritto costituzionale alla salute, da bilanciare con la tutela della salute collettiva. Ciò che semmai contesto, in questo caso come in quello della guerra attuale, è la rigidità del pensiero binario: o con me o contro di me, bianco o nero, buoni o cattivi, ecc., ciò che non ha aiutato e non aiuta ad elaborare alternative plausibili sia rispetto al che fare nei confronti di chi, per le ragioni più varie, non voleva vaccinarsi, sia rispetto alle soluzioni possibili della guerra attuale.
Pulp Possiamo dire che anche nella giustizia (in Occidente) ci sia una sorta di sostituzione del potere patriarcale e autoritario con quello che si chiama soft power femminile ma che non per questo è meno insidioso o prescrittivo?
T.P. Se si parla di giustizia penale, no questo spostamento al soft power non lo vedo. Tuttavia, oltre alle norme giuridiche, ci sono anche le norme sociali (e morali), altrettanto prescrittive ma meno visibili e contestabili delle norme giuridiche. Non c’è un fuori dalle norme, così come non c’è un fuori dalle istituzioni. E qualsiasi gruppo, movimento sociale, partito, organizzazione ha norme sue. Ciò che non significa la prevalenza di un soft power femminile o femminista sull’ordine patriarcale
Pulp Partendo dalle parole del patriarca di Mosca Kirill e dalla sentenza della corte suprema americana contro il diritto all’aborto lei scrive che c’è “un’alleanza trasversale che mostra ancora una volta come la vera guerra mondiale sia una guerra contro le donne e per il loro controllo”. Non si può che concordare ma le chiedo se non sia necessario fare un ulteriore riflessione sui modi specifici in cui viene condotta questa guerra quando entra in campo una violenza terribile come sta succedendo adesso in Iran o con l’invasione russa.
T.P. Certo, sono assolutamente d’accordo: non si può paragonare ciò che avviene in Iran o Afghanistan a ciò che succede in Europa. Ma che vi sia una guerra contro le donne e, insieme, per tenerle sotto controllo anche in Europa (e in Usa) mi sembra incontrovertibile: la recente sentenza della Corte suprema americana che ha cancellato la protezione federale dell’interruzione volontaria di gravidanza, le politiche ultra-restrittive in merito della Polonia e dell’Ungheria, così cara alla destra italiana, e le difficoltà che anche in Italia si hanno per abortire (soprattutto, ma non solo, nelle regioni governate dalla destra) non possono che essere lette in questo senso. Negare alle donne l’autodeterminazione sul proprio corpo (ossia, privarle dell’habeas corpus) significa limitare inaccettabilmente la loro libertà e riportarle sotto l’egida dello Stato-patriarca.
Pulp Adriano Sofri in un post su fb scrive “L’occidente migliore è fuori dall’occidente. Nelle giovani iraniane che liberano i capelli e vengono assassinate per questo. L’Europa migliore è fuori dall’Europa. Nei giovani ucraini che ne sventolano la bandiera. (…)” Questa riflessione non significa che i diritti civili non sono solo l’imbroglio con cui si giustificano le guerre umanitarie, l’esportazione della democrazia con tutti suoi disastri, ma anche il frutto delle lotte che li hanno imposti? E che ci sia una aspirazione globale dal basso a questi diritti.?
T.P. I diritti, civili e sociali, sono importantissimi, anzi, appunto, fondamentali: sono la tutela del più debole dalla prepotenza del più forte. Essi vivono nella misura in cui si continui a lottare per loro, come succede in varie parti del mondo, e forse un po’ meno da noi. Ciò non toglie che troppo spesso siano serviti da retorica giustificativa di misfatti, come, per esempio, nel passato recente, certe guerre cosiddette asimmetriche. Ma anche nel passato remoto: la conquista dell’America, e il conseguente genocidio delle popolazioni indigene, venne giustificata da Francisco de Vitoria con la violazione, da parte di queste popolazioni, dello jus communicationis ac peregrinandi, diritti umani universali in quanto derivati dal diritto naturale
Pulp La difesa di chi incappa nel reato di “solidarietà” verte quasi interamente sul concetto dei migranti come vittime, anzi secondo la parte non becera della pubblica opinione il migrante è la vittima per eccellenza (specie se è una donna). Come si esce da questa impasse che rischia di privare i migranti stessi di una propria agency pubblica?
T.P. Non vedo questo schiacciamento dei migranti e richiedenti asilo nel ruolo di vittime. Semmai, sono le donne migranti che si prostituiscono (o vengono prostituite) a incarnare la vittima perfetta. I primi vengono presentati o come potenziali criminali, in quanto “clandestini”, o come nuovi “eroi”, in quanto sopravvissuti a viaggi lunghi e pericolosi. Le seconde, se vendono servizi sessuali volontariamente, dovrebbero in primo luogo essere ascoltate. E, come ricorda anche lei, vi sono soggetti politici che effettivamente questo fanno, come il comitato diretto da Pia Covre, e altri simili in molti paesi europei. Le donne vittime di violenza, che vendano servizi sessuali o meno, se accolte in centri antiviolenza femministi, non rimangono “vittime” a lungo, poiché questi centri adottano di solito modalità di aiuto e accoglienza tese a restituire loro protagonismo e soggettività autonoma.