Il lato oscuro dell’Era dell’acquario

James Leo Herlihy, La stagione della strega, tr. Massimo Gardella, Centauria, pp. 382, € 18,00 stampa

When I look out my window,
what do you think I see?
And when I look in my window,
so many different people to be.
It’s strange,
sure is strange.
Donovan, The Season of the Witch

Per pura curiosità, dopo aver finito di leggere La stagione della strega ho fatto qualche ricerca sulla famigerata Era dell’acquario, ubiquo concetto astrologico del quale, mi sono reso conto, non sapevo praticamente nulla oltre a quel poco che assorbii dalla visione di Hair ai tempi del liceo – “Let the sunshine/let the sunshine in”, insomma. Dopo un pomeriggio passato a scartabellare siti Internet di dubbia solidità scientifica o astrologica, posso dire di non saperne ancora nulla. L’era dell’acquario, riporta Wikipedia, è associata a “elettricità, computer, volo, democrazia, libertà, umanitarismo, idealismo, modernizzazione, astrologia, disordini di natura nervosa, ribellione, anticonformismo, filantropia, veracità, perseveranza, umanità e inconcludenza”. Una caratterizzazione che in alcuni tratti si discosta nettamente dall’immagine ormai depositata nell’immaginario collettivo mondiale, fatta di giovani hippies ingenui e idealisti convinti che la sola forza dell’amore avrebbe cambiato il mondo. Però, questo profilo astrologico contiene delle suggestioni che, traslate nel personaggio di Gloria, instancabile diarista protagonista del romanzo, risultano utilissime per inquadrare l’opera di James Leo Herlihy.

Sedicenne anticonformista, naif (e non di rado discretamente irritante), Gloria si abbandona al caleidoscopio del 1969, scappando di casa con l’amico del cuore John, omosessuale deciso a disertare la leva, la terribile lottery che durante la Guerra del Vietnam equivaleva spesso a una condanna a morte, per raggiungere New York. L’obiettivo è quello di ritrovare il padre mai conosciuto, un profugo ebreo della Seconda guerra mondiale dal nome impronunciabile (e parodico) di Hank Glyczwycz.

È interessante tracciare nel romanzo tutte le varie traiettorie sulle quali madri, padri, figlie e figli fuggono, s’incrociano, si scontrano e si respingono. Se, simbolicamente, i movimenti giovanili degli anni Sessanta furono anche un processo di messa in questione delle figure genitoriali, con il “padre” rappresentato dall’ordine sociale e dalle sue convenzioni, in maniera decisamente anomala Herlihy iscrive la sua storia di ribellione all’interno di un processo di (ri)scoperta della figura paterna.

Non solo Glyczwycz, ma anche Peter, ex psichiatra e fondatore della comune dove Gloria (che ora si fa chiamare Strega) e John (che ora si fa chiamare Roy) trovano rifugio una volta arrivati nell’eccitante ma non di rado pericoloso sottobosco newyorkese. Cambiare nome per cambiare vita, decidere di impadronirsi del proprio destino fin nell’incasellamento anagrafico. Ma i frequenti lapsus dei due protagonisti rivelano inevitabilmente anche la pretenziosità dell’ideale hippie: a mescolare e ignorare le etichette, soprattutto quando non si è ben capaci di farlo, si corre il rischio di perdersi.

E La stagione della strega non nasconde nulla del lato oscuro dell’Era dell’acquario, mostrandoci attraverso gli occhi (quasi) sempre entusiasti e ottimisti di Strega tutta una serie di approfittatori, delinquenti e tossicodipendenti che hanno tradito o che sono stati traditi dalle promesse utopiche del flowerpower.

Herlihy, che all’epoca era troppo adulto per far parte dei movimenti ma troppo giovane per identificarsi con l’establishment, non intende attaccare o esaltare i 60s, quanto costruire un Bildungsroman che, non cedendo mai all’agiografia e raramente allo stereotipo (pure giustificato dall’attitudine di Strega), affronta un delicato momento culturale di passaggio per la società statunitense con uno sguardo realista, onesto e impietoso.

Un libro decisamente anacronistico in quest’epoca cupa e disillusa, e che, proprio per questo, si legge come una stramba e interessantissima elegia.